AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

martedì 28 settembre 2021

ONOMASTICO DI P. VINCENZO PRANDONI al CIMITERO DI LEGNANO

Ciclo su Onomastico al Cimitero di Legnano (MI)



ONOMASTICO AL CIMITERO

Son venuto a trovarti, Vincenzone, 

in questo giorno sempre a te sì caro

 del tuo gran Patrono San Vincenzo. 

Le sagome tu vedi dietro me
di tanta gente cui spezzar volesti

 gioiosamente il Pane del Signore. 

In tutti tu lasciasti un buon ricordo 

e grato per la loro simpatia
ora ti senti in Ciel indaffarato

 per divenire loro intercessore 

presso l’augusto trono del Signore!

Ti credevo contento per il gesto, 

ma sento un tuo bisbiglio prandoniano:

“Perché non fai vedere ai tanti amici

gli splendidi mosaici che mi sanno

far compagnia nella mia Legnano?”.

(Legnano 27-9-2021), Padre Nicola Galeno


Mosaici del Cimitero Monumentale di Legnano (MI)









domenica 26 settembre 2021

"NOI COMINCIAMO ORA" UN GRANDE CANTIERE AL CARMEL DI BANGUI - di P. Federico e i frati del Carmel di Bangui

"Noi cominciamo ora”. Un grande cantiere al Carmel di Bangui

 “Noi cominciamo ora”. Un grande cantiere al Carmel di Bangui

Notiziario dal Carmel di Bangui n° 30, 25 Settembre 2021

“Rispetto a coloro che verranno dopo, sono pure di fondamento quelli che vivono oggi. Che ognuno s’impegni a diventare pietra così forte per innalzare l’edificio. E il Signore l’aiuterà… Noi cominciamo ora; e che cerchino di cominciare sempre per andare di bene in meglio”. Queste parole sono tratte dal libro della Fondazioni scritto da santa Teresa d’Avila, la Madre del Carmelo riformato. Questa donna, instancabile e appassionata, sapeva bene di cosa parlava. Nella Spagna del sedicesimo secolo, nell’arco di solo venti anni, con pochi mezzi e tante difficoltà, riuscì a fondare ben sedici monasteri.

Dopo aver riascoltato queste parole – e con non poca emozione – lo scorso 16 luglio abbiamo finalmente posato la prima pietra del nuovo convento al Carmel di Bangui, al termine di una celebrazione eucaristica presieduta dal Cardinal Dieudonné Nzapalainga. Un momento atteso da anni, un giorno storico per la nostra missione in Centrafricana e un evento che ci ha permesso ancora una volta d’innalzare il nostro ringraziamento a Dio che ci ha chiamati a lavorare nella sua vigna, in questo piccolo angolo nel cuore dell’Africa sulle sponde del fiume Oubangui.

Non capita tutti i giorni, infatti, di costruire un convento nuovo. Normalmente, e soprattutto in altre latitudini, i conventi si trovano già costruiti, spesso da secoli. E sovente si è purtroppo costretti a chiuderli perché mancano i frati per abitarli. Da queste parti, invece, i conventi sono da costruire e, per fortuna, non mancano i frati per abitarli.

Il grande terreno dove ora ci troviamo, alla periferia di Bangui, venne acquistato nel 1998 in vista della fondazione di un monastero di carmelitane scalze. Purtroppo le nostre consorelle non sono ancora riuscite a raggiungerci. Pur restando sempre in attesa del loro arrivo, abbiamo deciso nel 2006 di aprire noi stessi una nostra casa, adattando alcune costruzioni precedenti. Nel frattempo la città di Bangui è cresciuta fino a raggiungerci. E anche la nostra famiglia si è ingrandita. Nello stesso tempo, il nostro convento, pur non essendo una parrocchia e con nostra grande sorpresa, è diventato sempre di più un punto di riferimento per tante persone, fino a dare il nome – Carmel – al quartiere che si è formato attorno a noi. Dal 2013 al 2017 inoltre, durante la guerra che ha colpito il Centrafrica in seguito ad un colpo di stato, migliaia di profughi, in fuga dai quartieri più colpiti dai combattimenti, hanno potuto salvarsi la vita trovando rifugio al Carmel. Per la nostra comunità è stato un momento particolarmente forte che ci ha permesso di condividere la sofferenza di un paese che da anni sta faticosamente cercando la via della pace e dello sviluppo. Nel corso degli anni le domande di ospitalità sono aumentate e sempre più persone partecipano alla celebrazione della Messa domenicale. Nel 2013 la comunità ha accolto lo studentato, cioè quella tappa della formazione dei seminaristi autoctoni che segue il noviziato. Poi, nel 2020, è stata aperta una scuola agricola approfittando del grande terreno a disposizione.

Tutti questi avvenimenti ci hanno quindi costretto a ripensare la nostra presenza e a creare le strutture adeguate per rispondere alle esigenze della formazione dei seminaristi, alla domanda di ospitalità e, soprattutto, alla necessità di offrire ai nostri fedeli un luogo degno per pregare. Non abbiamo, infatti, una vera chiesa. Le celebrazioni domenicali si svolgono sotto una semplice tettoia di lamiere, situata in un cortile, insufficiente per accogliere tutti i nostri numerosi fedeli.

Dopo un lungo e paziente discernimento abbiamo deciso di costruire, in una zona più elevata della nostra proprietà, una struttura completamente nuova, più ampia, più bella e più conforme alla tradizione carmelitana. Il complesso si compone di tre grandi lotti: 1. un convento a due piani intorno a un grande chiostro con tutti gli spazi necessari per la vita comune: venti camere per la comunità, cinque per i confratelli di passaggio a Bangui, il refettorio, la cucina, la biblioteca, la sala del capitolo, la sala della ricreazione, la sala conferenze, la lavanderia, due parlatori e una piccola boutique; 2. una foresteria di quindici camere con un piccolo refettorio e una sala per incontri; 3. una grande chiesa che sarà dedicata alla Madonna del Carmelo.

Attualmente il cantiere è in piena attività per la costruzione del primo lotto, cioè il convento, che speriamo di poter già abitare entro la fine del prossimo anno.

Si tratta, come potete ben comprendere, di un progetto ambizioso, particolarmente costoso e che c’impegnerà per alcuni anni. In Centrafrica, infatti, i materiali di costruzione sono cari perché quasi tutti importati. Non avremmo avuto il coraggio di lanciarci in quest’avventura senza l’incoraggiamento di tanti amici che, consapevoli delle nostre necessità per accogliere i giovani seminaristi, gli ospiti e soprattutto i fedeli, erano già a conoscenza di questo desiderio e del relativo progetto in elaborazione. Ci sia permesso di ringraziarli di tutto cuore.

Ora ci permettiamo umilmente di bussare alla vostra porta e di fare appello alla generosità di voi tutti perché l’opera iniziata possa essere terminata. Non è semplice costruire qualcosa di così grande e complesso. E non vi nascondo che, quando visito il cantiere, mi prende un po’ di paura. Stiamo facendo la cosa giusta? Ce la faremo? Non lasceremo la costruzione a metà? Non sarebbe stato meglio costruire una scuola o un ospedale invece di un convento e di una chiesa?

Le mie paure scompaiono quando penso ai miei confratelli centrafricani per i quali stiamo costruendo questa nuova casa e che saranno chiamati a continuare l’opera dei primi missionari italiani arrivati qui cinquant’anni fa. Poi penso ai nostri fedeli e a tutte le persone che in questo luogo potranno incontrare il Signore, ascoltare la sua Parola, ricevere la sua Grazia, pregare insieme ad una comunità di frati. Penso, e soprattutto osservo, i nostri operai al lavoro sul cantiere, contenti di costruire, giorno dopo giorno, qualcosa di bello, di grande e probabilmente di unico per la città di Bangui. Penso anche a voi, sempre pronti a sostenere ogni nostra iniziativa, fiduciosi in quello che da tanti anni stiamo facendo per questo paese e per questa Chiesa, inconsapevolmente capaci di infonderci più coraggio di quanto potete immaginare. Penso a santa Teresa e all’invito rivolto alle sue figlie e ai suoi figli a cominciare ora, a cominciare sempre, ad essere un fondamento solido per chi verrà dopo di noi. Perché costruire un uomo, un cristiano, un frate è molto più difficile e impegnativo che costruire una casa, una chiesa, un convento.

E poi penso a Dio e alla sua Provvidenza. Ogni paura scompare, perché “se il Signore non costruisce la casa, invano faticano i costruttori”. Se ci ha permesso di cominciare, non ci farà certo mancare il suo aiuto per terminare e la sua benedizione perché questo luogo possa essere sempre di più un piccolo pezzo del suo grande Regno.

Con amicizia e riconoscenza

Padre Federico e i frati del Carmel di Bangui

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Se volete offrire un contributo per la costruzione del nuovo convento e della nuova chiesa potete fare:

1) Un bonifico bancario a MISSIONI CARMELITANE LIGURI usando l'IBAN: IT42D0503431830000000010043 (CODICE SWIFT per un bonifico dall’estero: BAPPIT21501).

2) Un versamento tramite Conto Corrente Postale n. 43276344 intestato a AMICIZIA MISSIONARIA ONLUS.

3) Indicare nella causale:                NUOVO CONVENTO E NUOVA CHIESA CARMEL DI BANGUI

Più informazioni sul sito www.amiciziamissionaria.it/Donazioni.aspx























Memoria di Suor Franca Maria della Passione

 Congregazione

SUORE CARMELITANE di S. TERESA di TORINO

 Corso A. Picco, 104 - 10131 TORINO

  Breve profilo biografico di

Suor Franca Maria della Passione

Cazzaniga Rina

nata a Monza il 27 febbraio 1922

           deceduta a Torino (Casa Generalizia) il 24 settembre 2021



Questa mattina alle 7.30, mentre la comunità di Casa Generalizia

terminava la preghiera delle Lodi, Suor Franca è andata in Paradiso

a 99 anni di età, dopo aver speso tutta la sua vita al servizio del

Signore e delle consorelle ed aver offerto la grande sofferenza degli ultimi anni.

Al compimento dei suoi 80 anni, Sr. Franca aveva scritto un testamento in forma di lettera che cominciava così: “Ringrazio il Signore dei doni che la sua bontà ha voluto offrirmi”, cioè la fede ricevuta dai genitori, che non l’hanno ostacolata nella sua vocazione religiosa; l’affetto dei suoi tre fratelli e delle loro famiglie; la Congregazione che l’ha accolta e tutte le Madri e Sorelle incontrate nelle comunità.

Continuando il testamento Sr. Franca chiedeva perdono “per non aver sempre usato carità” e “per la poca pazienza” nel soddisfare le necessità delle Sorelle. In verità, la carità, la pazienza e la generosità nel servizio di guardarobiera erano proprio le virtù che Sr. Franca esercitava quoti- dianamente (si potrebbe dire in “grado eroico”!), ma la sua sensibilità e finezza interiore, unite alla sua semplicità, la rendevano convinta di doversi sempre migliorare.

E ancora scriveva: “Se qualcuno pensa di avermi fatto dei torti e desidera una parola di perdono, nel nome di Gesù tale parola viene sinceramente pronunciata”.

Entrata in convento il 12 ottobre 1946, dopo essere stata operaia e aver conosciuto i Padri Carmelitani a Monza, Sr. Franca ha trascorso la sua vita religiosa dapprima nella comunità di Corso Francia (a Torino) fino alla chiusura nel 1969 e poi a Milano, fino al 2008. Ha svolto con grande precisione l’incarico di guardarobiera, contenta di poter offrire puntualmente a tutte le Sorelle la biancheria ordinata e sempre perfettamente stirata. Di animo buono e sensibile, signorile nel suo portamento, le bastava un gesto di riconoscenza per commuoversi ed elargire il suo bel sorriso.

Nel 2008 fu accolta in Casa Generalizia e per alcuni anni partecipò ancora alla preghiera e alla vita comunitaria, poi vari disturbi la costrinsero a letto dove ha trascorso gli ultimi anni alternando aggravamenti e riprese. Certamente Sr. Franca ha unito le sue sofferenze alla Passione di Gesù, che ricordava nel proprio nome religioso. Il valore redentivo di questo lungo tempo di infermità, misterioso ai nostri occhi, è conosciuto solo dal Signore.

Sicura che Suor Franca Maria riceve ora la ricompensa del suo Signore, nell’abbraccio della Ver- gine e dei Santi, porgo le mie condoglianze ai pronipoti e ringrazio le Sorelle e tutto il personale di Casa Generalizia per l’amore con cui l’ha accudita.

Il funerale verrà celebrato in Casa Generalizia lunedì 27 settembre alle ore 10.30. Sr. Franca M. sarà sepolta nel cimitero monumentale di Torino. Pregheremo il S. Rosario in Casa Generalizia sabato 25 settembre alle ore 16.00.

Torino, 24 settembre 2021





    

FRONTI, FRONTIERE E RIBELLIONI DAL SAHEL di PADRE MAURO ARMANINO

 


Fronti, frontiere e ribellioni dal Sahel

Non ci fossero, bisognerebbe inventarle. Le frontiere sono fatte così come si fa col nemico: non ci fosse dovremmo inventarlo. Senza di lui sarebbe impossibile o perlomeno difficile giustificare la politica, l’economia, le religioni, le guerre e persino il turismo. Cadrebbe come un castello di sabbia vicino al mare il sistema sul quale si fondano le nostre civilltà. D’altra parte, lo sappiamo bene, le parole non sono mai ‘innocenti’ e la parola frontiera, almeno nelle lingue neolatine, lo dimostra. Frontiera deriva dal latino frontis, fronte. Fronte popolare, fronte di resistenza, andare al fronte…è andare allo scontro diretto col nemico. Le frontiere diventano limiti oppure ‘border’ in inglese che significa linea reale, artificiale o immaginaria che separa aree geografiche, politiche o sociali tra loro. Frontiere e nemici compongono gli elementi dell’immaginario sul quale si costruisce la quotidiana esistenza dell’umanità. Le armi, i mercenari, i passaporti, i permessi di soggiorno, gli esuli, i migranti e financo i pass sanitari, sono un tutt’uno con le frontiere e il nemico. Tutto si regge col binomio frontiera e nemico. Non ci fossero, dovremmo inventarli.

Fortuna ci sono loro, i trasgressori di frontiere. Che poi sono coloro che non si lasciano determinare né dalla storia né dalla geografia imparata a scuola fin dalla tenera età. Paesi, continenti, mari, fiumi e deserti con altipiani a disegnare i contorni che solo le politiche e i rapporti di forza hanno deciso di delimitare. Ai migranti, tutte queste divisioni non dicono nulla e, anzi, sono una spinta per disobbedire ai dettami della vecchia saggezza di un tempo passato. Mogli e buoi, si diceva, dei paesi tuoi, e allora perché andare lontano, correre inutili rischi, morire a centinaia e arrivare infine dove si troveranno altre frontiere da smantellare. Non ci fossero, dovremmo inventarli, i migranti e non solo perché danno lavoro a tanta gente che ha l’ambizione di assisterli, organizzarli, consigliarli e infine classificarli tra i vulnerabili. Sarebbero da inventare perché senza di loro pure noi, fintamente stanziali, saremmo perduti per sempre a noi stessi. Grazie allo straniero, infatti, diventiamo ciò che non avremmo mai pensato di essere. Essi sono il nostro più autentico specchio quotidiano. Loro hanno imparato a loro spese che le frontiere servono solo per essere tradite.

Non ci fosse, andrebbe inventata. La fronte è la regione anatomica corrispondente all’osso frontale, compresa tra le sopracciglia e la radice dei capelli. E’ parte della rivelazione del volto nel suo insieme, espressione dello stato d’animo e dell’umana coscienza. Un fronte, a fronte con l’altro che la comune vulnerabilità umana racconta secondo le stagioni della vita. Fortuna che quanti passano le frontiere si trovano poi a dialogare da fronte a fronte, ognuno con le sue paure e le proprie attese. 

Anche la ribellione abbisogna di fronti, che si scontrano e s’incontrano nell’unica offensiva che vale la pena raccontare. Nel Sahel, invisibili ai più, gli unici sovversivi non sospetti sono i migranti che partono senza tornare, con la loro fragile fronte come solo documento di viaggio.

                                              

  Mauro Armanino, Niamey, 26 ottobre,

 giornata mondiale dei migranti e rifugiati

lunedì 20 settembre 2021

Padre LUIGI MACCALLI, memoria dei due anni di prigionia e presentazione del suo libro CATENE DI LIBERTÀ

Padre Pier Luigi Maccalli, che era stato  rapito il 17 settembre del 2018, abbiamo fatto memoria della liberazione, ha appena terminato un libro sulla sua prigionia di due anni Jihadisti.








sabato 18 settembre 2021

NEL SAHEL (E NON SOLO) I POVERI NON SONO IN VENDITA di Padre MAURO ARMANINO

 

Nel Sahel (e non solo)

 i poveri non sono in vendita 

Invisibili quando conviene, i poveri sono sempre i primi a sparire. Risorgono, quando necessario, attraverso le Grandi Agenzie Umanitarie che, nei loro rapporti finalizzati a ricavare fondi, li rendono occasionalmente importanti. I bambini, da questo punto di vista, rappresentano un bersaglio privilegiato perché, non da oggi, il futuro passa soprattutto attraverso la manipolazione delle loro vite. Secondo una recente dichiarazione dell’Unicef, agenzia onussiana che si occupa dell’infanzia, almeno un milione di bimbi nigeriani non potrà andare a scuola a causa dell’insicurezza in alcune zone del Paese. La stessa agenzia ricorda che, in Nigeria, ci sono stati almeno 20 attacchi contro le scuole e che oltre 1.400 alunni sono stati rapiti e 16 sono morti. Solo dopo aver negoziato i termini del riscatto con le bande criminali all’origine dei rapimenti, i bambini sono stati liberati. Si calcola che circa 200 alunni siano scomparsi dai registri scolastici per sempre.

Quanto al Niger, fatte le debite proporzioni, le cose non vanno meglio. In un rapporto appena pubblicato a opera dell’ONG Amnesty International, dal titolo eloquente ‘Non possiedo più nulla se non me stessa’, solo nella zona di Tillabéri, almeno 377 scuole della regione sono ormai chiuse e a oltre 31 000 bambini è stato sottratto il diritto all’istruzione. Sono figli dei contadini che, in questi ultimi mesi, sono stati uccisi a centinaia mentre lavoravano la terra. Essendo poveri e lontani dai riflettori dei media, sono inghiottiti dal nulla che sembra assediare questa particolare zona dell’Africa chiamata Sahel. Il rapporto citato riporta alcune delle frasi delle interviste effettuate ai bambini dell’area. Uno di loro afferma di ‘avere l’abitudine di udire colpi d’arma da fuoco e di vedere corpi ammucchiati’. Un altro, testimone della morte dell’amico di 12 anni anni ricorda come Wahab sia stato ucciso e poi continua dicendo di essere preda di… ‘incubi nei quali gente in moto mi insegue o rivedo l’amico Wahab implorare i suoi uccisori di risparmiarlo’.

Il gruppo autoproclamato ‘Stato Islamico nel Grande Sahara’ oppure, a scelta, il ‘Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani’, che ha come referente il noto Al Qaeda, osteggiano l’educazione ‘occidentale’ delle scuole statali o private. Creano il vuoto attorno a loro e, in questi spazi solo apparentemente vuoti, organizzano traffici e commerci che vanno dall’oro alle armi, passando dagli stupefacenti. In questo vuoto violento detti gruppi hanno spesso buon gioco nell’imporre e proporre soldi, armi e futuro ai bambini ai quali esso è stato, da loro e dall’assenza delle politiche, sottratto. Ed è così che, sempre secondo il rapporto citato, à meno di cento chilometri dalla capitale Niamey, questi Gruppi Armati Terroristi organizzano il reclutamenti di bambini e bambine, onde perpetuarsi nel tempo e nello spazio. Naturalmente gli adulti non sono risparmiati e, a parte le uccisioni nei campi, vengono distrutti o bruciati i granai, saccheggiati i magazzini e rubato il bestiame. La carestia nella zona è assicurata per anni umanitari a venire.

Nel confinante Burkina Faso, ancora più colpito dall’azione dei gruppi armati, il numero di persone sfollate e dunque al limite della sopravvivenza, sfiora i 3 milioni. L’educazione è uno dei settori più toccati con oltre 2.500 scuole chiuse e 350 mila alunni diventati una volta di più invisibili agli occhi dei distratti cittadini della capitale Ouagadougou. Quanto detto accade analogamente nel vicino Mali. Le violenze armate hanno generato migliaia di sfollati e, sempre secondo l’Unicef, il citato Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, si calcola che almeno 150 mila bambini siano esclusi dalla scuola. Un’altra ONG, Human Right Watch, ricorda che circa 1.300 scuole hanno chiuso le porte ai bambini. I colpi di stato militari che hanno segnato il cammino recente del Paese, non hanno cambiato nulla a questa realtà. I poveri rimangono poveri perché invisibilizzati dalle politiche. Ed è così che una madre di sette figli, dopo aver assistito all’incendio del granaio della sua famiglia, dichiarava che …’tutto è stato bruciato…non ho più nulla, à parte me stessa’. Lei, come i poveri che le somigliano, non è in vendita.

  Mauro Armanino, Niamey, 19 settembre 2021

                                                                                    

martedì 14 settembre 2021

Come d'autunno/sugli alberI/le foglie - di Padre Mauro Armanino

Come d’autunno / sugli alberi / le foglie


‘Soldati’ è il titolo della poesia di Giuseppe Ungaretti, scritta agli inizi del novecento nel contesto della guerra, che porta le parole del titolo. ‘Si sta’, dice la poesia nata dalla trincea della prima guerra mondiale. Pure qui siamo nel nostro autunno, tra una pioggia e l’attesa dell’altra. Ci sono i soldati che pensano di battagliare per Dio e i militari governativi con i gruppi, riconosciuti, di autodifesa. La metafora delle foglie appese e tremanti ai rami è quanto meglio descrive quanto diceva stamane un anziano abitante delle zona di Dolbel. L’area delle ‘tre frontiere’ (Niger, Burkina Faso e Mali) è tra le più pericolose del Sahel.

Si vive di paura, diceva, mettendosi all’ascolto del possibile rumore delle moto che solo i ’djihadisti’ cavalcano impuniti a piacimento. Un paio di giorni fa, secondo il suo racconto, un centinaio di moto hanno attraversato i villaggi vicini a Dolbel e Fantio, seminando terrore e obbligando contadini e allevatori a pagare loro le tasse dovute. Non si dorme la notte e di giorno si va ai campi non troppo presto e si torna prima di sera, per evitare di farsi sorprendere dai ‘banditi’. Non sono solo i cristiani ad essere loro bersaglio preferito anche se le comunità cristiane della regione hanno sospeso ogni preghiera e riunione pubblica. 

Si prega in famiglia perché la notte passi in fretta e non ci siano incursioni inaspettate. I giovani studenti non se la sentono di rimanere nei villaggi. I ragazzi e i bambini potrebbero essere arruolati tra i combattenti e le ragazze obbligate ad una vita matrimoniale prima del tempo voluto. Sono, oggi, i contadini di una consistente parte del Niger, come d’autunno, sugli alberi, le foglie. Fragili e precarie vite che, come foglie, possono cadere da un momento all’altro sulla terra seminata da poco e in attesa di dare frutti, un giorno.


Mauro Armanino, Niamey, 14 settembre,

festa dell’esaltazione della croce.


MAURO ARMANINO DE L'OBSEREVATOIRE MIGRANTS EN DÉTRESSE


Mauro Armanino de l'Observatoire migrants en détresse

« Si on facilite la mobilité, la personne peut aller et revenir comme l’expatrié le fait »

Phénomène inhérent à la nature humaine, la migration, notamment des ressortissants de l'Afrique vers l'Europe fait depuis quelques années l'objet de plusieurs mesures pour réduire le « flux » de migrants. Dans l'interview qui suit, Mauro Armanino revient, sans langue de bois, sur plusieurs aspects liés à ce phénome.

Comment doit-on vous présenter ?

Je m’appelle Mauro Armanino. Je suis de l’église catholique, originaire d’Italie, appelé au Niger par Michel Kartatégui, alors Evêque du Niger. Il m’a appelé ici pour un service bien spécifique aux migrants. J’ai débarqué à Niamey en avril 2011, justement avec ce cahier de charge pour tenter de répondre à l’appel des migrants.

On vous présente aussi comme défenseur des droits des migrants.

C’est évident. Moi, je pense qu’on ne peut pas travailler avec des migrants sans en même temps se charger de ce qui entoure la migration. Nous savons, un des miroirs de notre société, c’est-à-dire ce qui se passe dans le domaine de la migration, nous regardons comment fonctionne la société.

Selon vous, qu’est-ce qu’un migrant et un migrant en détresse ?

La définition de migrant n’est pas de moi. L’OIM, qui est l’organisation désormais onusienne, qui s’occupe de la migration le défini comme toute personne qui quitte son pays pour aller dans un autre pays, qui est en transit. Donc, toute personne qui utilise le droit de la mobilité en quittant et en passant dans un autre pays, on peut le définir ainsi. Evidemment, quand on part de migrant en détresse, on focalise notre attention sur une catégorie particulière que nous appelons les vulnérables. Qu’est-ce que nous entendons par là ? Nous entendons par là, toute personne en situation, qui a subi une souffrance, abus dans le domaine des droits humains, manque de respect de droit le plus élémentaire et fondamental (détention, viol, vol et tout ce qui s’en suit) soit par emprisonnement, soit par déportation forcée, notamment les refoulements qui provoquent dans la personne des blessures soit dans le corps soit dans l’esprit. C’est à ce titre que nous avons fondé depuis quelques années, avec d’autres

entités, l’Observatoire migrant en détresse qui essaie justement de prendre au sérieux les cris souvent silencieux de ces personnes.

Pouvez-vous nous citer quelques droits de migrant ?

Le premier, le fondamental, se trouve dans la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme (art 13) où on rappelle que toute personne a le droit de quitter son pays et de revenir. Nous pensons que c’est l’un des droits fondamentaux, le droit à la mobilité. En réalité, tout abus dans la démocratie commence par une attaque à ce droit-là. Même à l’occident, qui se présente comme le référent de la démocratie, ce n’est pas par hasard que justement, c’est la mobilité qu’on a attaqué ces derniers mois à cause du COVID où on empêche aux gens d’aller et venir librement, de vaquer à leurs occupations, mais on essaie de les contrôler. Je pense que c’est un signe d’une démocratie malade.

Le Niger s’est doté de la loi 035 sur la lutte contre le trafic d’être humain. Quel commentaire vous suscite l’adoption de cette loi ?

Il faut d’abord insérer ce texte dans son contexte. Le contexte le plus récent, c’est la rencontre Europe/Afrique de la Valette en 2015. Au cours de cette rencontre, on a énoncé au moins quatre points autour desquels doit s’inscrire la lutte contre la migration clandestine.Celle qui participe à l’externalisation des frontières en quelque sorte. En facilitant la sous-traitance de ce thème pour arriver aux racines du terme de migration, avec des activités soit disant de développement qui devraient ralentir le flux de migrants, des gens qui s’en vont de leur pays vers l’Europe ou ailleurs.

La loi 036 a été adoptée dans ce contexte. C’est un hasard ? Je ne le pense pas. C’est dans cette optique de sous-traitance de thème migration où les gens, avant même d’arriver à Agadez, sont arrêtés, dépouillés de l’argent qu’ils ont, reconnus comme de potentiels migrants, presque des potentiels criminels. On les donne à l’OIM pour les faire retourner chez eux. C’est ça le processus qui arrive avec les refoulés de l’Algérie. La plupart vont à l’OIM et ils sont renvoyés dans leurs pays.

Nous vivons cette grande contradiction où d’un côté le Protocole de la CEDEAO sur la libre circulation des personnes et des biens est garantie et de l’autre côté, nous voyons que cette loi rend compliqué, sinon impossible ce type de mobilité. Nous avons l’Algérie dans sa politique de refoulement, la Tunisie nous connaissons le problème qu’il y a, au Maroc c’est à peu près la même

chose où on rend la vie compliquée aux migrants.Et n’en parlons pas de la Libye après le coup de force contre Kadhafi. Le pays était parmi les plus riches en Afrique du nord et pas seulement. Mais il a été complètement détruit. Il y avait des milliers et des milliers de migrants qui travaillaient sur place mais qui n’ont plus cette possibilité. Ce qui a créé un problème de sécurité dans la sous-région. Les migrants se sont retrouvés détenus dans ces camps financés par l’occident et dans lesquels l’Union africaine brille par son silence assourdissant depuis quelques temps.

Est-ce que les dispositions de cette loi cadrent avec les objectifs de votre association ?

Elle est fonctionnelle aux intérêts occidentaux. Quel est l’intérêt du Niger dans ça ? En effet, le Mali n’a jamais accepté d’être sous-traitant parce qu’il a une grande tradition migratoire vers l’occident qui n’est pas la même au Niger, où la migration est surtout orientée vers la côte ou, avant, vers la Libye. Les gens se retrouvent bloqués et c’est un droit qui est bafoué au-delà de la situation que la Libye et les autres pays vivent. Notre service d’accompagnement aux migrants a ce double focus résumé dans cette phrase : Libre de rester et libre de partir. Nous pensons que ces droits doivent être respectés sans condition.

Le Niger s’est aussi doté d’une Politique nationale migratoire

Il y a eu ce document de Politique nationale migratoire qui était préparé pendant de longues années. Disons, c’est une première tentative de donner un cadre général qui puisse réglementer la gestion de ce fait au-delà du phénomène que nous n’allons pas arrêter ni aujourd’hui ni demain, parce que c’est existentiel de l’être humain. C’est une première tentative. Je pense qu’on a besoin d’autres documents spécifiques. Mais au moins, le document a l’avantage de ne pas présenter le migrant en le criminalisant. Il a aussi de bénéfices en termes culturel, en terme financier, en termes sociaux. Evidemment, il faut l’insérer dans ce contexte dont j’ai parlé où nous sommes passés de migrant comme un exodant, un aventurier, un clandestin, un illégal, un irrégulier et finalement un criminel. Comment on a pu en arriver là en moins de dix ans ? C’est parce qu’on a su manipuler le langage, parce que celui qui a le pouvoir a pu raconter sa façon de concevoir la migration.

Migration clandestine, irrégulière. Quel terme peut-on finalement retenir pour parler de la migration ?

La migration fait partie de la vie et de l’histoire humaine. Migrer, c’est vivre et vivre c’est migrer. Autrement dit, la migration est essentielle pour notre identité humaine. Nous savons que le peuplement de la planète, selon une recherche scientifique, est né en Afrique où nous trouvons les traces les plus anciennes de la présence humaine. Alors, pourquoi on doit arrêter ce type de processus ? Le problème, c’est comment accompagner le mieux possible ce processus du point de vue social et financier ? Prenons un exemple simple : aujourd’hui, c’est pratiquement impossible de migrer en Europe d’une manière normale. Les obstacles sont nombreux et c’est impossible si on n’a pas des gros moyens. Cela ne fait que faciliter aussi des détournements. On facilite aussi le travail des passeurs et bien d’autres choses. Alors, pourquoi ne pas arriver à règlementer de manière différente la possibilité d’aller et de revenir ? Si quelqu’un a mis plusieurs années pour franchir la mer et arriver de l’autre côté, une fois qu’il y est, il ne va pas revenir. Or, si on facilite la mobilité, la personne peut aller et revenir comme l’expatrié le fait. L’expatrié est aussi un migrant, mais c’est un migrant qui a la possibilité de revenir parce qu’il a l’argent. Il fait partie de ce petit noyau de personnes qui ont le privilège de voyager sans demander la permission.

Une question que les politiciens doivent se poser : pourquoi les enfants ont envie de quitter leur pays ? Qu’est ce qui ne va pas dans leur pays ? Cela nous interpelle aussi. Nous devons nous demander que faisons-nous des futurs des jeunes ? On est en train de le voler.

On accuse les jeunes de déstabiliser les frontières tracées. Quel commentaire cela vous suscite ?

Toute frontière est un choix politique. Qui décide des frontières ? Ce sont ceux qui ont le pouvoir. Les migrants, à leurs manières, contestent ce type de division du monde. Ils disent la seule vision, c’est de passer les frontières. C’est la seule migration des frontières qu’il faut casser.

Quelle analyse faites-vous de la migration dans un contexte de la COVID- 19 ?

Je pense qu’il faut distinguer l’aspect médical et l’aspect politique quand on parle de cette pandémie. Du point de vue médical, nous savons que cette maladie existe, elle fait un certain nombre de ravage, surtout au niveau d’une certaine classe d’âge avec des comorbidités. Nous savons aussi qu’il y a des systèmes pour soigner, la vaccination vers laquelle nous sommes tous amenés

plus ou moins. Puis, il y a la politique autour de la COVID qui a impliqué la fermeture des frontières, le couvre-feu, le confinement qui ont pratiquement contribué à détruire des économies qui étaient déjà fragiles, et c’est aberrant parce que cela n’a rien de scientifique. Mais c’est de choix politique que nous allons payer aux jeunes générations. C’est quelque chose d’extrêmement grave qui devrait, de mon point de vue, faire intervenir la Cour pénale internationale parce qu’il y a eu des abus de pouvoir. Je pense que nous devons nous interroger sur la manière dont la démocratie fonctionne dans le domaine de la santé avec l’OMS qui est complètement corrompue et dans les mains de ceux qui le finance.

Un occidental dans la peau de défenseur de migrants ouest africain. Cela ne vous gêne-t-il ?

La première chose qu’il faut comprendre, c’est que je suis en Afrique de l’ouest depuis 30 ans. J’ai fait 10 ans en Côte d’Ivoire, 7 ans au Libéria et c’est ma onzième année au Niger, donc j’ai le droit de parole. Deuxièmement, je suis ici en tant que pasteur en ce sens que j’ai le privilège d’appartenir à deux mondes. Mais le monde que j’ai choisi pour regarder le monde, c’est le sud. Donc, c’est à partir d’ici que je juge l’occident, d’où je viens et je vois clairement ce que l’occident est en train de faire pour perpétuer son pouvoir. Moi, je ne suis pas du côté du pouvoir. Je suis du côté des opprimés, ça c’est mon choix de vie. Je pense que le vrai pouvoir, c’est avec les opprimés, c’est à partir de la faiblesse des opprimés et pas à partir du pouvoir du plus fort.


sabato 11 settembre 2021

GUERRA E PACE. Sul perché Antony torna a casa venticinque anni più tardi - di Padre MAURO ARMANINO

 

Guerra e pace.  

Sul perché Antony torna a casa venticinque anni più tardi

Nel 1990 Antony aveva 13 anni. La guerra, iniziata da Charles Taylor alla fine dell’anno precedente dai confini con la Costa d’Avorio, era arrivata fino al suo villaggio. Dopo l’uccisione del presidente Samuel Doe, che aveva preso il potere con un sanguinoso colpo di stato, lui, la famiglia e migliaia di altri liberiani erano sfuggiti via nave fino ad Accra, nel Ghana. Antony ha vissuto nel campo dei rifugiati, specialmente adibito per loro, alla periferia della capitale, per 5 anni. Torna nel suo Paese e, ormai diciottenne, si trova nella capitale Monrovia sperando di cominciare a vivere una vita normale. Il destino l’attende l’anno seguente: il 6 aprile del 1996. E’ questa una data che gli abitanti di Monrovia non dimenticheranno perché in quel giorno si scatena una caccia all’uomo nei quartieri della capitale tra i vari gruppi ribelli che si contendono il potere. Antony, buon ultimo dei passeggeri, paga il biglietto e si mette in salvo, da solo, su una nave privata che parte per il Ghana. Stavolta si ferma poco più di un anno nel campo e poi parte pe l’avventura nella confinante Costa d’Avorio nel 1997. Un colpo di stato in questo Paese, da parte del generale Robert Guei nel 1999, lo sorprende e lo spinge ad allontanarsi nel vicino Mali per tentare di approdare in Algeria. 

Bloccato ancor prima di raggiungere la frontiera, Antony torna per la terza volta nel campo dei rifugiati nel Ghana, ancora e sempre abitato da migliaia di liberiani. Con l’idea di abbandonare l’Africa delle guerre che lo inseguono, Antony parte per il Burkina Faso, passa il Niger e raggiunge la Libia l’anno seguente, il 2000. Bengasi diventa luogo di scontro tra miliziani e vengono coinvolti anche i migranti. Antony, che avrebbe voluto raggiungere l’Italia, torna con mezzi di fortuna nel Niger l’anno seguente. Scivola verso il solito Ghana con la speranza di essere messo nelle liste degli ammessi per gli Stati Uniti, Padre Padrone dello stato liberiano. Antony non si dà per vinto e parte per Cotonou, nel Benin, e poi ritenta, senza successo, di raggiungere l’Algeria e da lì la Spagna attraverso il Marocco. Ritenta lo stesso viaggio nel 2006 e due anni dopo è espulso dall’Algeria, dove ha potuto lavorare nei cantieri e si ritrova in Niger nel 2008. Non pago delle precedenti disavventure torna in Algeria per la terza volta e, con l’idea di raggiungere l’Arabia Saudita passa per il Soudan attraverso il Cameroun e il Chad. Nel 2010 è ancora di ritorno a Niamey.

Per motivi legati a un prestito, è accusato di falso e passa qualche mese nella Casa di Detenzione della capitale. In seguito s’impegna a mettere assieme i suoi compatrioti migranti a Niamey e intraprende, senza grande successo, piccole attività commerciali. Tra un soggiorno e l’altro gli nasce Leila che ha appena compiuto 10 anni e vive con la madre. Antony torna in Liberia, il suo paese, dopo venticinque anni di guerre, colpi di stato, detenzioni, espulsioni, illusioni tradite e frontiere che si allontanano. In questi ultimi giorni prima della partenza, ospite dell’OIM, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, prepara con apprensione il suo rientro in una patria che non lo ricorda. Ha conservato i contatti con la sorella e il fratello, entrambi più giovani di lui, il primogenito di sua madre che spera abbracciare presto. Antony pensa passare qualche mese nella capitale Monrovia da cui era fuggito per nave nel 1996, durante la guerra. Sua figlia si chiama Leila che significa ‘nata durante la notte’ e lui arriverà a Monrovia di mattina presto, al nascere di un nuovo giorno.

Mauro Armanino, Niamey, 12 settembre 2021


PENSIERI DI S. TERESA D'AVILA - Parafrasi liriche di P. Nicola Galeno OCD
















 

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Il Paradiso non può attendere: dobbiamo già cercare il nostro Cielo qui sulla terra! Questo blog tratterà di argomenti spirituali e testimonianze, con uno sguardo rivolto al Carmelo ed ai suoi Santi