AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

sabato 29 gennaio 2022

COULIBALY OSSIA L'AFRICA CHE CAMMINA di PADRE MAURO ARMANINO

Coulibaly ossia l’Africa che cammina

Torna da sua madre dopo sette anni con quattro valigie e due borse altrettanto pesanti. Coulibaly, dopo aver rubato i soldi del viaggio alla mamma era partito, con una dozzina d’amici, per diventare un campione di calcio in Tunisia. Aveva giusto 13 anni quando gli avevano presentato una coppia di adulti che, dietro compensazione, potevano dargli un futuro come calciatore in Nord Africa. Sul retro di un Toyota ‘pick-up’ si ritrova, senza saperlo, con i compagni di gioco nella città di Sebha, in Libia. Scorrono un paio di mesi attorno a casa, giocando a pallone e attendendo istruzioni per la tappa seguente. Arrivati a Tripoli gli amici scoprono di trovarsi in Libia e si accorgono della scomparsa della coppia, dileguatasi coi soldi e le speranze. Imprigionati in una casa della città, dopo qualche tempo riescono a fuggire ognuno per conto suo. Coulibaly trova lavoro in un ristorante per migranti come lavapiatti presso alcuni nigerini di lingua hausa. Non ha nessun desiderio di tentare di attraversare il mare e, aiutato da un ‘passeur’ egiziano a cui ha versato 130 euro, raggiunge l’Algeria. Dopo qualche peripezia raggiunge la periferia della capitale dove lavora per un paio d’anni come manovale. Decide infine di cercare lavoro ad Algeri e impara il mestiere di imbianchino.

Coulibaly rimane in Algeria dal 2016 fino all’anno in corso. Stanco di nascondersi alla vista dei poliziotti e militari che deportano i migranti, è il pensiero d’aver tradito la fiducia di sua madre Aicha, che lo spinge a prendere la decisione di tornare a casa. Tramite un amico incontra un’associazione umanitaria che aiuta i migranti a fare la strada di ritorno. Sul cammino di Tamanrasset è fermato e derubato da alcuni militari algerini di quanto aveva messo da parte per rimborsare quanto sottratto a suo tempo alla madre. Gli hanno portato via i suoi 300 euro e la somma che l’associazione aveva offerto per il viaggio. Arrivato a Tamanraset trova alcuni nigerini coi quali può conversare nella stessa lingua imparata a Tripoli e passare per un originario del loro stesso Paese. Lo portano con loro fino alla città di Tahoua al nord del Niger. Coulibaly, per continuare il viaggio fino a Niamey, si trova costretto a vendere alcune preziose paia di scarpe che aveva comprate in Algeria e messe da parte per la madre e la sorella maggiore. Ottiene i soldi sufficienti per pagarsi il biglietto fino alla capitale del Paese e chiede aiuto per continuare il viaggio a ritroso fino ad Abidjan, la capitale economica della Costa d’Avorio. L’aveva abbandonata da sette anni, ancora bambino.

Le frontiere da attraversare per raggiungere il suo Paese sono chiuse a causa del recente colpo di stato nel vicino Burkina Faso. Dovrà pagare un triciclo che trasporti i suoi bagagli, nei quali ha intasato scarpe, vestiti e sette anni della sua vita, da una parte all’altra della frontiera. Dice di aver portato tutte queste mercanzie per farsi perdonare da sua madre che l’aspetta, con la coscienza di averle procurato angosce e sofferenze per la sua nascosta partenza. Coulibaly, partito a tredici anni torna più che ventenne a casa e dice di non rimpiangere nulla del vissuto, a parte il furto iniziale. Sa leggere ma non scrivere e dice che, dopo un tempo di riposo, cercherà lavoro come imbianchino e andrà a scuola per imparare a scrivere la sua storia. Afferma di essere contento perché ancora vivo dopo quanto vissuto. Una metà delle sue borse contengono scarpe per ogni misura e occasione. Giura che le ha portate per andare lontano.

     Mauro Armanino, Niamey, 30 gennaio 2022

   

venerdì 28 gennaio 2022

CAMMINATA PARADISIACA (S. MARIA del Castello - NA

Ciclo su Camminata Paradisiaca (S. Maria del Castello – NA) 














sabato 22 gennaio 2022

L'EUROPA COSì COME SI VEDE DAL SAHEL di PADRE MAURO ARMANINO

 


L’Europa così come si vede dal Sahel

Ben vero che tanti continuano a morire per cercare di raggiungerla. L’anno scorso, secondo l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, sono periti nel mondo circa 5 300 migranti. Una buona parte di questi erano in viaggio verso l’Europa. Le rotte dell’Atlantico, del Mediterraneo, dei Balcani e di altre frontiere meno note, sono diventate il luogo emblematico della Grande Difesa del continente rispetto al diritto innato di mobilità umana. Cercare orizzonti nuovi di vita non solo non è un crimine ma è ciò che da sempre gli umani hanno cercato di fare. La stabilità era l’eccezione e la migrazione la regola. L’Europa questo lo sa,  perché in un tempo non troppo lontano della storia è stata il continente più ‘nomade’ di tutti.
L’Eldorado non ha terminato di sedurre chi vede nell’Europa un baluardo per la ‘barbarie’. Essa si manifesta altrove con indigenza, dittature, colpi di stato, carestie, guerre e tradimento delle promesse delle indipendenze degli anni ’60. L’Europa si presenta come affluente e influente, riparo contro gli abusi sui diritti umani e terra d’asilo per un certo numero di persone che hanno perso ogni speranza di futuro. Buon numero di migrazioni sono per così dire di ‘ritorno’ nel senso che arrivano parte dei popoli che, a suo tempo, erano stati preda della colonizzazione. Sappiamo che la storia non è mai a senso unico e che, malgrado i tentativi di cancellarne le tracce, è alquanto ostinata. Ad ognuno il suo turno, verrebbe da dire.
Poi c’è l’Europa vista come insaziabile detentrice di potere. Su una parte consistente delle risorse del Sahel, sulle sue politiche economiche e sul tipo di regimi che lo governano, sulle frontiere che essa, l’Europa, ha esteso nel profondo della storia e della geografia, sulle scelte educative e soprattutto sull’immaginario culturale. L’Europa arrogante che pensa di trovarsi ancora al centro del mondo per deciderne le sorti. Un’Europa, vista dal Sahel, come naturale seguito del processo di ricolonizzazione che si attua col consenso, spesso comprato, delle élites locali, tutt’altro che passive in queste operazioni di depossessione delle classi più vulnerabili del popolo. L’Europa che sfrutta, espropria e in seguito si propone di aiutare a chi a rubato.
Ciò che il Sahel conosce meglio dell’Europa è il suo volto umanitario. Centinaia di Organizzazioni Non Governative Internazionali, globali, delocalizzate, nazionalizzate, perpetuate, inventate, comprate, vendute e comunque presenti, sono sul terreno. Aiutano e si affannano a lenire sofferenze, a palliare a crisi endemiche o urgenze impellenti. Accompagnano lo Stato assente nella gestione di carestie, epidemie, catastrofi naturali o prodotte dall’incuria. Dettano modi, tempi, tabelle e permettono ad una fetta delle popolazione di sopravvivere . Creano modelli di società e di gestione del ‘capitale umano’ e cercano di utilizzare al meglio le ‘persone- risorsa’, pagano profumatamente l’affitto di immobili i cui proprietari sono spesso uomini politici o affiliati al partito. Fabbricano  corsi e ricorsi per ‘rafforzare le capacità’ del popolo.
C’è, infine, l’Europa che fa sorridere il Sahel perché appare vulnerabile come mai. Impaurita dalla sua potenza perduta e dei virus che scivolano a piacimento e che Lei cerca di imporre come qualcosa di inedito nell’Africa. Il Sahel sorride quando ascolta il ‘vecchio ‘ continente affermare i principi di democrazia e libertà e poi mettere i propri cittadini sotto chiave. Sorride di compatimento nell’osservare pesi e misure diverse nell’imporre diritti umani e guerre umanitarie per esportare l’unico modello di democrazia possibile. Sorride il Sahel quando sente il rumore provocato dai ‘Mirage’ francesi nel cielo e vede passare le colonne di militari e assume che ognuno, in fondo, cerca solo il proprio interesse particolare e nazionale. E sorride, infine, la sabbia, al pensiero del prossimo arrivo dei nuovi migranti europei che cercheranno nel Sahel ciò che hanno smarrito a casa loro.


   Mauro Armanino, Niamey, 23 gennaio 2022

lunedì 17 gennaio 2022

RISENTIMENTI E PERDONI DI SABBIA (sette anni dal fuoco di Niamey) di Padre Mauro Armanino


        Risentimenti e perdoni di sabbia

 (sette anni dal fuoco di Niamey)

Tutto in due giorni. Il 16 e 17 gennaio del 2015 erano state bruciate le chiese e i luoghi di culto cristiani prima a Zinder e poi a Niamey. Dall’antica alla nuova capitale del Niger c’era stato un giorno di differenza per gli attacchi di centinaia di giovani, talvolta accompagnati e guidati da qualche capo religioso. Anche altri simboli occidentali erano stati presi di mira: stazioni Total, la telefonia Orange e alcuni locali notturni. Vi furono una decina di morti, danni considerevoli agli edifici e ferite a tutt’ora non rimarginate nello spirito di molti. Si registrarono alcune centinaia di arresti i giorni seguenti i fatti e poi più nulla, né mandanti né esecutori furono molestati. L’impunità e la giustizia hanno spesso spesso fatto assieme buoni affari. Alcuni luoghi di culto accettarono di essere parzialmente risarciti dallo Stato. Col tempo, questo episodio della storia del paese, si è allontanato dalla memoria collettiva e altri avvenimenti, ancora più drammatici, hanno finito per cancellarne la traccia. Solo rimane l’eredità di un perdono offerto ufficialmente agli sconosciuti, da parte dei vescovi e poi la vita che continua il suo incerto corso tra macerie ancora fumanti.

Ricordo il sabato 17 gennaio in mattinata, dopo la preghiera alla Grande Moschea di Niamey, come il presente di un passato vissuto nella capitale della Liberia, Monrovia. La stessa paura di un qualcosa di indefinito che si distingue dalla vita ordinaria. C’è gente che fugge sulle strade, altri  con sassi, bastoni e tra mezzo gli immancabili pneumatici che bruciano distratti sull’asfalto che fonde. Lontano era andato il pensiero, alla guerra civile che aveva annientato il Paese per quindici anni. Tutto accade sulla strada perché lì scorre la vita di un popolo che lotta per farsi una strada migliore. Poi arriva l’esca di Charlie Hebdo che parodia la democrazia dell’occidente e lo sconcerto della gente quando il Presidente del momento affermava di ‘essere anche lui Charlie’ ed era andato a Parigi per manifestare contro l’assassinio dei giornalisti del settimanale. Lui era andato dai morti lontano e non era mai partito dai morti, meno illustri, del popolo che l’aveva eletto. La ferita nei cristiani rimase aperta per qualche tempo e, quasi a rispondere all’evento, si alzarono i muri di cinta delle chiese, ornati da fili spinati e da guardie giurate per le chiese.

Molti musulmani si domandarono come tutto ciò fosse accaduto, dopo decenni di tollerante convivenza.  Nelle comunità cristiane si fece più forte l’esigenza di definire sé dagli ‘altri’, che non meritavano affatto le scuole, gli aiuti forniti e la solidarietà nelle molte traversie. Meglio chiudersi, proteggersi e ‘aiutarsi’ tra amici e correligionari. Il dialogo con l’alterità appariva inutile e forse dannoso. Poi il tempo, fatto di sabbia che scorre, fatalmente passa e aiuta a dimenticare perché nel frattempo fanno irruzione altri drammi. Il rapimento di Pierluigi Maccalli, tre anni dopo e con lui centinaia di nigerini, ostaggi meno importanti e meno seguiti dai cacciatori di notizie. Le frontiere del Paese, nel frattempo,  sono diventate ancora più visibili. Quelle tra chi è nella miseria o mercanteggia benessere e una classe politica che baratta povertà e ricchezza per perpetuarsi nel potere. C’è un sordo risentimento nel popolo che soffre, tace e attende l’ora opportuna per una rivolta che solo le agenzie umanitarie, spesso come ‘oppio del popolo’, riescono a ritardare. Senza perdono non c’è futuro, diceva Desmond Tutu. Ma da noi anche il perdono è di sabbia.

 Mauro Armanino, Niamey, 16/17 gennaio 2022

domenica 9 gennaio 2022

CRONACHE DI SABBIA DAL SAHEL di P. MAURO ARMANINO




                      Cronache di sabbia dal Sahel

I tre sono spariti nel nulla. Studenti della scuola media superiore, erano andati a passare qualche giorno di vacanza in famiglia nel villaggio natale di Ngoula. il ritorno a scuola, questo lunedì, è stato fatale. Uno dei quattro amici è riuscito a fuggire e gli altri tre, da allora, sono nelle mani di sconosciuti, presunti djihadisti che controllano la regione. Prima di raggiungere il villaggio di Djayeli, situato a circa 20 kilometri da Ngoula, sono stati rapiti e al momento non si hanno notizie. Inesistenti prima e invisibili dopo, perché figli di contadini, nascosti dal grande pubblico e cittadini di seconda categoria perché poveri. La zona è la stessa nella quale, nel mese di settembre del 2018, era stato portato via Padre Pierluigi Maccalli, missionario. Saranno forse rilasciati tra qualche tempo o allora verrà loro proposto di unirsi alle forze combattenti nella zona delle ‘Tre Frontiere’, Niger, Burkina Faso e Mali. Potrebbero scomparire per sempre, così come altre decine di rapiti attorno al lago Tchad, dove Boko Haram, Stato Islamico e banditismo, sono accomunati dalle stesse strategie terroriste. Avevano dovuto abbandonare il loro villaggio paterno a causa delle minacce dei Gruppi Armati ed erano tornati per le feste di Natale. Allora come oggi gli innocenti sono perduti e venduti al sistema che le armi ammantano di motivazioni pseudo-religiose. Il re Herode insegna.

Stavolta il bottino era troppo importante per lasciarlo passare. Un sindaco del posto e il suo autista sono stati arrestati nel desertico nord de Niger, con più di 200 kg di cocaina in provenienza dal Mali e diretti in Libia. Il valore stimato sorpassa gli 8 milioni di dollari. Il traffico illecito di armi e droga, a cui si aggiunge talvolta la compravendita di migranti, costituisce un’economia parallela che potrebbe rinominare il Paese come ‘Narco-Paese’. Due giornalisti locali, tra cui una signora che gestisce un noto blog, sono stati recentemente condannati a oltre due anni di reclusione, con sospensione condizionale della pena. L’accusa è stata quella di aver pubblicato un articolo di ‘Global Initiative’, nota Ong internazionale basata a Ginevra che si prefigge di denunciare i crimini transnazionali in vari ambiti, tra cui la droga. Nell’articolo in questione l’Ong denunciava la ‘sparizione’ di alcune tonnellate di hashish sequestrate nella capitale Niamey l’anno scorso. La droga, proveniente da Beyrut nel Libano era transitata dal porto di Lomé nel Togo e, secondo la legge, doveva essere bruciata. Apparentemente una parte avrebbe invece raggiunto la Libia con la complicità delle massime autorità. È proprio il caso di dirlo: chi di droga ferisce di droga perisce.

Il bilancio è ancora provvisorio. Uno dei mezzi di trasporto della gendarmeria di Torodi, a circa 50 kilometri dalla capitale, è stato distrutto questo venerdì, da una carica di esplosivo posta lungo la strada che porta al confine col Burkina Faso. Si parla di quattro soldati morti e alcuni feriti. Si tratta del secondo attentato terrorista dello stesso tipo. Il precedente era accaduto a fine novembre lasciando tre morti e due feriti della Guardia Nazionale del Niger. Nella cittadina di Makalondi, poco prima di Natale e nella stessa zona frontaliera, si era registrato un duplice attacco. Alcune centinaia di individui armati avevano colpito la dogana e il posto di polizia causando almeno sei morti. In conseguenza di questo stato di cose centinaia di famiglie sono state costrette ad abbandonare casa, campi, raccolto e futuro. Come annunciato da OCHA, ufficio di coordinamento degli interventi umanitari delle Nazioni Unite, oltre 30 milioni di persone avranno bisogno di aiuto e di protezione. I conflitti, la violenza, gli spostamenti forzati e le crisi socioeconomiche hanno comportato una rapida crescita dei bisogni.  Pressioni demografiche, debolezza dei governi, insicurezza alimentare e cambiamenti climatici, sempre secondo OCHA, spingono milioni di persone a lottare per La sopravvivenza. Se a questo si aggiungono le migliaia di sfollati e di rifugiati, una parte di questi ‘salvati’ dai campi di detenzione in Libia tramite i ‘corridoi umanitari’, il quadro che si presenta appare perlomeno preoccupante. 

La sabbia non dimentica, custodisce e racconta a chi sa ascoltarla. Lei, che attraversa imperi, millenni, colpi di stato, carestie e precarie prosperità. Proprio lei assicura che laddove abbondano i drammi e la sofferenza dei poveri, c’è solo da alzarsi e sollevare la testa perché la liberazione non è lontana.

       Mauro Armanino, Niamey, 9 gennaio 2022

mercoledì 5 gennaio 2022

IN MEMORIA DI DON VITTORIO FERRARI

RICORDO

Vittorio, dove vai così in fretta?

Il profilo e l’impegno instancabile di don Ferrari, il fidei donum ambrosiano scomparso nei giorni scorsi in Perù, nelle parole del confratello don Antonio Colombo

di don Antonio COLOMBO

Fidei donum ambrosiano a Huacho (Perù) 


Don Vittorio Ferrari

Messa a Cesano Maderno

La comunità diocesana offrirà la Santa messa di suffragio per don Vittorio venerdì 7 gennaio, alle 20.30, presso la parrocchia Santo Stefano di Cesano Maderno. I sacerdoti concelebranti sono invitati a portare camice e stola viola.

Sabato 31 dicembre 2021, al termine della Messa di requiem celebrata dal Vescovo nella piazza di Sayan, il suo “paese”, mi sono avvicinato al feretro di don Vittorio Ferrari per pochi secondi per vederlo per l’ultima volta, prima di esprimere a tutti ciò che sentivo nel mio cuore. Ho tolto la mascherina, gli occhi erano inumiditi di tristezza.

Dovevo parlare in spagnolo, ma ho cominciato in italiano, dicendo: «Vittorio, me l’hai combinata grossa, queste cose non si fanno a un amico…». Era con me a Huacho fino alle 17, aveva fretta per tornare a dire Messa. Ha celebrato e poi… verso l’alto. Ci eravamo riuniti con le Suore e tre amici per celebrare il Natale con tradizionale pranzo all’italiana: un buon piatto di lasagne, salame, parmigiano… Lui ha mangiato di gusto, ma in uno strano silenzio. Finalmente ha fatto un breve saluto a tutti, una preghiera secondo il suo stile, mezz’ora di riposo e poi via… Tutto troppo in fretta, in meno di 10 ore… Non c’è piú! Basta, basta, come diceva spesso…

Parlo a nome della sua famiglia, di sua sorella Giuliana, dell’altra di 90 anni che vive a Ivrea e di un suo nipote. Loro hanno dato il permesso per lasciarlo qui in Perù, la sua terra.

Amici e confratelli

Don Vittorio era nato nel 1939, in una buona famiglia di operai, ed è entrato in Seminario a 11 anni. Ci siamo incontrati ai 14 anni, tutti e due con la veste nera da seminaristi. Divento sacerdote io, diventa sacerdote Vittorio, passiamo i primi anni tra la gioventú, io vado missionario in Africa, lui fa il parroco a Milano e poi diventa cappellano di un grande ospedale. A 65 anni va in pensione e scopre il Perú. Tre anni dopo, nel 2007, tocca a me arrivare a Huacho. Ci ritroviamo: «Oh, Vittorio… Oh, Antonio!». Immediatamente si riallaccia la nostra amicizia di 70 anni prima.

Una parola sugli ultimi tre anni, dal momento decisivo delle vacanze in Italia nel 2019. Tutti ci dicono: «Siete due vecchietti, dove volete andare ancora?». Il Vescovo di Huacho ci vorrebbe ancora, ma è necessario chiedere udienza al nostro arcivescovo Mario Delpini: è lui che deve firmare l’accordo per i fidei donum. In verità tremiamo tutti e due, ma è Vittorio a parlare per primo a monsignor Mario con una foga missionaria, parlando di Gesú, di Sayan, del suo apostolato, tanto da ottenere inmediatamente il permesso per continuare il nostro cammino qui a 79 anni di età. Non c’è stato bisogno delle mie parole.

Nel gennaio 2020 monsignor Mario viene a vedere le nostre parrocchie, poco prima che scoppi il Covid. Tutti ricordano come è stata bella la sua Messa a Sayan e l’incontro con la comunità all’entrata della chiesa. Ma nel frattempo Vittorio inizia ad abbassare il suo corpo verso terra, anche se il suo spirito è sempre puntato al cielo. In che lingua parla? Mischia lo spagnolo con un intercalare italiano di «ecco, allora…»: gli scappa qualche espressione anche in dialetto. Si fa capire eccome, anche a gesti, nella sua nuova lingua, quella del cuore: «Il vittoriano».

Conosciuto e amato da tutti

Io sono anche cappellano degli ospedali e quando incontro un ammalato di Sayan gli chiedo: «Conosci padre Vittorio?». Di slancio mi rispondono: «Certamente, mi chiama per nome, viene a casa di mia nonna… ha sposato mia sorella». Una volta ho incontrato una signora che si diceva di Sayan, ma che non conosceva padre Vittorio. «Scusi, ma lei non deve essere proprio di Sayan!». «È vero, sono di un villaggio verso le montagne…».

La sua salute si stava indebolendo, è stato all’ospedale, ma il cuore ha sempre funzionato bene. Andava in giro sempre con la sua cartella – piena di mille cose -, una biro in mano, un quaderno dove scrivere, in qualsiasi posto si trovasse. In casa ho appena visto più di 50 grossi quaderni, non so che cosa ne faremo… Dentro c‘è tutta la sua saggezza, la sua teologia, annotazioni dei libri che leggeva, ma soprattutto ci scriveva i nomi, i numeri di telefono dell’uno e dell’altro e chiamava a qualsiasi ora del giorno e anche della notte: era il suo stile apostolico, il contatto personale. Potrei parlare anche delle migliaia di messaggi con posta elettronica che inviava nel mondo agli amici… E la sua incredibile memoria, con mille dettagli che raccontava con freschezza saltando da un punto all’altro.

Attento ai problemi sociali

Tutte le mattine, alle sei, era alla porta della chiesa e salutava i primi operai che arrivavano in piazza sperando di essere contrattati per lavorare nei campi. Si interessava, eccome, dei temi sociali e anche della política. Ricordiamo tutti le vicende e le lotte per la fabbrica di zucchero di Andahuasi. Lui era lì, come il padre di due figli che stanno litigando, ascolta l’uno e ascolta l’altro, sempre con saggezza paterna. Per questo tutti a Andahuasi gli volevano bene: lo si è visto nell’incredibile omaggio funebre di ieri sera, quando hanno voluto che il feretro arrivasse nella piazza, quasi passando tutti in rassegna, come un re. Era il re di Andahuasi, con tanti anni passati lì!

Era appassionato di sport, non come giocatore, ma come tifoso dell’Inter e soprattutto della Ferrari, che porta il suo stesso cognome. Purtroppo non vince più, e per questo lui era triste.

La passione per la politica

L’appassionava di più la politica, da sempre. Penso di non scandalizzare nessuno, forse è un segreto: padre Vittorio sposò la candidatura di Pedro Castillo, attuale Presidente comunista. Una domanda: «Ci sono qui tra voi quelli di Chota, i tagliatori di canna da zucchero, che vengono dalla stessa regione di Castillo?». Padre Vittorio si legò al gruppo di Chota, li conosceva uno a uno, per arrivare al candidato-presidente, sempre di Chota. Perché? Quando sentí il programma e il grido di Castillo («Per il popolo, per i poveri»), si entusiasmò al pensiero che finalmente i poveri avrebbero avuto un leader. Addirittura sognava di poter diventare consigliere spirituale del Presidente. Recentemente si raffreddò un poco, non vedendo progressi. Ma questo non cancella l’amore intenso del padre verso i poveri, visitava a qualsiasi ora gli ammalati di Sayan all’ospedale e, appena poteva, riusciva anche a entrare nel carcere per predicare e aiutare. Quanta gente toccava alla sua porta e riceveva sempre un aiuto anche con grosse cifre. A chi lo criticava su questo punto e lo invitava a essere prudente, non faceva caso. Tutto partiva dal cuore.

Come scrive l’Arcivescovo di Milano, egli amava Milano e amava Huacho. Amava il suo paese di Cesano Maderno, la sua famiglia e questa terra di Sayan, Andahuasi e i paesini attorno. Camminava e camminava anche gli ultimi tempi, con il bastone e tutto curvo verso terra, con la colonna vertebrale a pezzi.

Sempre di corsa, mai fermo

Posso dire di aver avuto qualche problema con lui per questo. Ogni settimana, nonostante i 60 km che ci dividono, veniva a casa mia con qualsiasi mezzo: quanti tassisti e conduttori di pulmini lo conoscono. Suonava due volte il campanello, chiedeva subito un caffè e una banana e poi: «Ciao, grazie, adesso vado…». «Ma ti vedo stanco, non ti fermi?». «Ho una Messa, ho un funerale di un mio amico, uno mi aspetta…». Sempre così e scappava via. «Ma se è così, perché vieni, sta a casa tua…» Ma come dire di no a padre Vittorio che tutto faceva per gli altri, senza risparmiarsi!

Anche ieri ha fatto lo stesso, è scappato via da Huacho, con un minivan è venuto qui a dire Messa, appoggiandosi all’altare e predicando seduto, forse sognando il Paradiso come il vecchio Simeone del Vangelo. «Ho 82 anni, tanto ho fatto, ho visto Gesù nei piccoli, ho parlato tanto di Lui, posso andare…». Dopo solo sei ore, nel sonno, ha bussato alla porta del cielo.

Questo sparire veloce, proprio non riesco a digerirlo. Signore, tu sai, però aumenta la mia fede, e la fede di questo popolo che lo ama. A nome della famiglia e di tutti voi, ti saluto Vittorio, grazie, arrivederci.

Ps. Il momento più duro per me è stato quando il muratore ha sigillato lentamente, con il cemento, il loculo dove era appena entrata la bara nel piccolo cimitero di Sayan, proprio ai piedi della montagna arida del monte San Gerolamo che domina il paese. Sono tornato a casa solo.


§§§§§



RICORDANDO DON VITTORIO FERRARI

(Fidei donum ambrosiano, 1939-2021)


Ci ritrovammo insieme in Seminario.

L’apostolato poi ci separò.

La Provvidenza dopo settant’anni

volle riunirci nell’altro emisfero

in quel remoto Perù dove insieme

sempre sapemmo spenderci per Cristo.

Benché tu fossi  quasi ottuagenario,

t’invidiavo la grinta, Don Vittorio!

Scendevi volentieri tra la gente,

provando sulla pelle i loro stenti.

Al cuore tuo nessuno invan bussò!

C’era qualcosa nell’aria… Durante

la predica iniziasti a mescolare

Italiano, spagnolo e pur lombardo.

Cenammo allegramente all’italiana.

Ci salutammo e tu ti congedasti.

All’indomani apprendemmo che tu

t’eri svegliato in Ciel direttamente.

Torno dal Cimitero ed or mi sento

un’altra volta proprio tutto solo…


(Legnano 4-1-2022), Padre Nicola Galeno


lunedì 3 gennaio 2022

2 -1- 1873: NASCITA DI TERESA (LA SANTINA)


2-1-1873: NASCITA DI TERESA (LA SANTINA)


Teresa, ti volesti definire

il fiorellino nato nell’inverno.


Venisti avviluppato dal calore

 provvido degli amati Genitori

e d’altre quattro sorelle maggiori.


Sol più tardi apprendesti la notizia

 della scomparsa tanto prematura

 di ben quattro innocenti creature.


Ne ritrovasti due quando volle

 la Provvidenza affidarti le cure

 di due Missionari in Indocina.


A loro tu sapesti garantire

 l’offerta quotidiana di preghiere

 e sacrifici a favor del Vangelo.


All’insaputa delle consorelle

 t’ingiunse la priora d’inviare

 (cosa inaudita per claustrali allora!)

 regolarmente lettere mensili.


Tanto il rimpianto di quei Missionari,

 che non serbaron la corrispondenza...


Ventiquattr’anni calcasti la terra

 e fosti già matura per il Cielo!


(Legnano 1-1-2022), Padre Nicola Galeno

RICORDANDO P. VINCENZO PRANDONI

Domani 4 gennaio il nostro caro VINCENZONE (1931-2016) sarebbe diventato ultra nonagenario. Fu il primo Parroco del Corpus Domini di Bologna, poi lo fu a Milano ed infine a Parma, dove ripetute ischemie cerebrali posero praticamente fine alla sua laboriosissima esistenza. Amava ricevere gli auguri e stavolta glieli mando ancora in Cielo! P


RICORDANDO PADRE VINCENZO PRANDONI


Mio caro Vincenzone, rideresti
di gusto nel sentirti dir che tu
 fosti fin troppo precoce a tagliare
 dei cento chili il traguardo ed invece
 otto decenni e mezzi sol campasti...

Quando giocavi al pallone sapevi
 sparare cannonate che tremare facevan
 pur i pali della porta!

Come non ricordar le forsennate
 camminate sui monti in Valchiusella?
 Quanto cantar ci facesti! Nel sangue 
avevi la passione musicale!

Chi scrive fu costretto ad imparare 
a suonar con la forza dei castighi.
Le dita si muovevan stancamente
 sulla tastiera, sapendo che gli altri
 si stavan divertendo col pallone...

Eppure ti ricordo inginocchiato
 in quella Cappellina cheraschese
 quando pazientemente c’insegnavi
 a far meditazione teresiana!

Un’altra tegola poi mi lanciasti
quando venisti a Parma trasferito:
 dovermi interessare di ben quattro
 periodici mensili! Gran tormento
 divenne far il capo redattore...

Ma come non parlar della Corale
 del Corpus Domini, che tu portasti
 ai massimi livelli quando alfine
 introducesti la polifonia?
Dal Ciel ci udiva pur Padre Beccaro!

Poi vennero quegli anni da Far West
 nella periferia di Bologna,
quando dal fango nacque una Parrocchia,
che fece assaporar ai suoi fedeli
un’aria sempre tanto familiare!

Ci divisero poi ben diecimila
chilometri: a Milano tu tornasti, 
mentre a metà degli anni Ottanta questa
barba fagocitata fu in Giappone...

Mai seppe la distanza raffreddare
 questo nostro legame. Da te appresi
 il genuino affetto ai parrocchiani,
 che sempre tu sapesti far vibrare!

In Cielo ci diremo tutto quanto!

(Legnano 2-1-2022) Padre Nicola Galeno

domenica 2 gennaio 2022

UNA CASCATA DI LUCI STELLARI E INFINITI SOGNI DALLA BEFANA di RENATA RUSCA ZARGAR

 

UNA CASCATA DI LUCI STELLARI E INFINITI SOGNI
DALLA BEFANA

Ciao. Sono la Befana.
Sì, proprio io.
No, non sono la vecchia dal naso lungo, con quell’orribile cappello, che vola a cavallo di una scopa.
Oggi, quella Befana non usa più. Io sono giovane, sempre giovane, non importa quanti anni siano trascorsi o debbano ancora trascorrere, e sono molto carina (ognuno può immaginarmi come gli piace secondo i suoi canoni estetici).
Inoltre, mi rifiuto di svolazzare su una vecchia scopa come le streghe (anche loro non sono più di moda).
Dobbiamo dire basta a questi stereotipi antiquati!
Anche perché io vivo su un Pianeta lontano lontano. Voi Umani, per fortuna, non l’avete ancora scoperto. Infatti, è meraviglioso, come doveva essere la Terra prima del vostro arrivo.
Ogni anno, quando sta per arrivare la mia festa, acchiappo il mio asteroide personale (altro che scopa!) e parto.  Arrivo in vista della Terra con tanti doni, almeno quelli che posso caricare sui satelliti del mio asteroide che ci seguono allacciati fermamente con una catena a cascata di luci stellari.
Non è facile essere la Befana al giorno d’oggi.
Prima di tutto, sulla Terra ci sono molti più abitanti e questo complica parecchio il lavoro.
Poi, il mondo, in tutti questi millenni, non è migliorato affatto. Anzi! I ricchi sono rimasti sempre ricchi (o più ricchi ancora) e i poveri sempre poveri (o più poveri ancora). La crudeltà, la corruzione, il tradimento, l’egoismo, sono uguali a secoli fa. Forse, sono cambiati gli abiti, le usanze, ma, per il resto, è tutto tale e quale.
I bimbi, però, aspettano ancora una sorpresa da me perché essi hanno il cuore puro e appendono con fiducia la calza perché io la riempia.
Non è difficile farlo nel mondo facoltoso. Essi richiedono regali che mi posso procurare con facilità. Forse, non sono più trombette, cavalli a dondolo, bambole immobili e mute…
Ora sono play station, spade laser, auto sportive telecomandate, ombrelli al contrario, lampade, chitarre elettriche, bambole interattive, cellulari e tecnologie varie.
Ma non ci vuole tanto a far arrivare loro gli oggetti dei desideri direttamente dai miei satelliti.
Il problema sono i milioni di bambini che non hanno cibo, acqua, casa. Le loro domande sono molto più semplici; eppure, io non riesco a esaudirle.
Avrebbero bisogno di un luogo dove abitare, degli alimenti sostanziosi, acqua pulita, medicine per quando sono malati e vaccini. Invece, molte volte, non hanno più neppure la mamma o il papà.
Per la Befana è un grande dolore non esaudire la richiesta di un bambino o di una bambina.
Però, cerco di fare del mio meglio.
Qualche volta, durante l’anno, entro nei sogni degli Umani, quelli che hanno conservato un cuore fanciullino. Li spingo ad aiutare chi ha meno, a prendersi cura dei bambini del Pianeta, a rinunciare a qualche insignificante superfluo per salvare un Essere Umano.
Spesso ci riesco, ma è pur sempre poco.
Il mondo non ha pietà. L’ingiustizia e la prevaricazione dettano legge.
Alla fine, tutto ciò che io posso fare ancora è solo inviare infiniti sogni con una cascata di luci stellari, proprio la notte della Befana.
Così, tutti i bambini della Terra ricevono, almeno in sogno, abbracci, coccole e baci.
Ora, vi state chiedendo se la Befana spedisca Amore anche a quei bambini che hanno già accettato costosi doni nella loro calza di lusso.
Sì, certo. Anche a loro. Qualche volta, quei piccoli fortunati hanno persino più bisogno di affetto e di attenzione.
Amore, tanto Amore, è il dono autentico della Befana.
Quello che non costa denaro ma sentimento.
Lo so, è solo un sogno.
Che può donare luce e calore alla realtà.

Renata Rusca Zargar

sabato 1 gennaio 2022

I MONDI DI RAYMOND, FIGLIO DI UN'AUTISTA di PADRE MAURO ARMANINO

 


I mondi di Raymond, figlio di un’autista

Nasce nel 1977 a Freetown, la capitale della Sierra Leone, nell’Africa occidentale. Uno stato inventato di sana pianta dal destino e dal bisogno dell’Inghilterra di un ‘pied-à-terre’ per offrire una terra africana agli schiavi liberati. Nel 1792 la Sierra Leone diviene la prima colonia britannica dell’Africa occidentale. A parte gruppi di indigeni già sul posto, la popolazione si arricchisce di alcune centinaia di ex-schiavi portati da Londra. Col tempo, altri schiavi liberati dello stesso tipo dalla Giamaica incrementano la popolazione e infine ci arriveranno i salvati dalle navi negriere. Raymond che nasce a Freetown, la città della libertà, non sa tutte queste cose e a 16 anni, fugge la crudele guerra civile nel suo Paese e inizia una serie interminabile di esodi. Raggiunge Conakry, in Guinea, nel 1993 e lì si ferma tre anni prima di conoscere la Costa d’Avorio dove, nel 2002, lo sorprende l’altra guerra civile. Si rifugia allora nel vicino Ghana e l’anno successivo torna in patria per ritrovare la sua famiglia. Nel frattempo, suo padre, autista di professione, è morto e la madre è andata ad abitare in un villaggio assai lontano dalla capitale. Raymond riprende la strada dell’esilio che lo porta in Mauritania. Con l’idea di raggiungere la Spagna si imbarca in una canoa e, fermato dalle pattuglie marittime è riportato in terra ferma. Siamo nel 2009 e Raymond, raggiunge il Mali l’anno seguente.

Nel Mali ottiene un passaporto falso e, alla frontiera con l’Algeria che avrebbe voluto raggiungere, è rimandato indietro. Torna nel suo Paese nel 2011 e vi rimane fino all’inizio dell’epidemia di Ebola che colpisce severamente la Sierra Leone e la vicina Liberia nel 2014. Accusato ingiustamente di furto, rimane ospite della prigione per tre mesi e, per cambiare il panorama, torna a Abidjan, in Costa d’Avorio nel 2016 e vi rimane due anni. Senza lavoro fisso si avventura allora nel Ghana per passare In Togo e nel Benin onde raggiungere la Nigeria. Ritenta l’avventura in Algeria passando stavolta dal Niger e, espulso dai militari algerini alla frontiera, si ritrova a Niamey, la capitale. Tramite l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, OIM, ritorna in Sierra Leone con un piccolo fondo di reinserimento nel 2019. Terminato il fondo e malgrado le ingiunzioni dell’Organizzazione onusiana, lascia il suo Paese per tornare nel Niger lo stesso anno. Nel frattempo, la morte della mamma lo fa tornare ancora una volta in Sierra Leone per il suo funerale. Orfano e con uno dei fratelli morto e l’altro sposato, effettua un viaggio in Costa d’Avorio prima di raggiungere ancora il Niger nel 2020. Prova ad unirsi ai cercatori d’oro nei pressi di Maradi, non lontano dalla Nigeria ma desiste perché il lavoro è troppo pericoloso. Adesso Raymond si trova a Niamey e assicura che Dio gli ha detto di fermarsi qui per ottenere la patente di guida e poi fare l’autista, come suo padre.

 Mauro Armanino, Niamey, 2 gennaio 2022

BENVENUTO|

Il Paradiso non può attendere: dobbiamo già cercare il nostro Cielo qui sulla terra! Questo blog tratterà di argomenti spirituali e testimonianze, con uno sguardo rivolto al Carmelo ed ai suoi Santi