AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

martedì 31 maggio 2011

SANTA TERESA D'AVILA: Cammino di Perfezione Cap. XIX

 Salto di proposito alcuni capitoli, perché mi preme di entrare nell'orazione vera e propria                                         CAPITOLO 19
Comincia a trattare dell'orazione e parla delle anime che non possono discorrere con l'intelletto

1 -  E’ da tanto tempo che ho interrotto questo scritto senza più poterlo ripigliare, che per sapere cosa stavo dicendo mi occorrerebbe rileggerlo. Ma per non perder tempo, continuerò ugualmente, senza preoccuparmi dell'ordine.
Le persone di buona intelligenza, che essendo già pratiche della meditazione, possono raccogliersi in se stesse, hanno a loro disposizione un'infinità di libri ben fatti, scritti da autori di tal merito che sarebbe una sciocchezza far conto di questo mio.
Vi sono libri che presentano per ogni giorno della settimana meditazioni ben condotte e dense di dottrina sopra i misteri della vita e della passione del Signore, sul giudizio, sull’inferno, sul nostro nulla e sui doveri che abbiamo con Dio, con l'aggiunta di ottimi consigli per il principio e per la fine dell'orazione.
Chi segue il loro metodo, o vi è abituato, non occorre dire che per sì buona strada giungerà al porto della luce, e che a un sì santo principio risponderà una fine non meno santa.
Per questa via si avrà riposo e sicurezza, perché, una volta fermato l'intelletto, si procede con pace.
Ma ben altro è l'argomento che voglio svolgere: voglio cioè, con l'aiuto di Dio, suggerirvi alcuni consigli, e farvi comprendere che molte sono le anime che soffrono di non poter fermare l'intelletto, affinché non abbiate a contristarvi se siete anche voi di questo numero.

2 -  Vi sono intelletti e spiriti così mobili che possono paragonarsi a cavalli sfrenati che nessuno può fermare.
Vanno qua e là, sempre in agitazione, sia che ciò provenga dalla loro natura o che così permetta il Signore.
Io ne ho compassione, perché mi sembrano persone ardenti di sete, che vedono l'acqua molto lontano e vogliono andare ad attingerla, ma trovano nemici che sbarrano loro l'accesso al principio, nel mezzo e al termine del cammino.
Può darsi che dopo aver tanto faticato per vincere i primi nemici, si lascino sopraffare dai secondi, amando meglio morir di sete piuttosto di bere un'acqua che tanto costi, si perdono di coraggio e cessano da ogni lotta.
Altri invece abbattono anche i secondi, ma si smarriscono innanzi ai terzi, mentre forse non sono che a due passi da quella fontana d'acqua viva, di cui il Signore, parlando alla Samaritana, disse che chi ne beve non avrà più sete in eterno.
Oh, com'è vera questa parola pronunciata dalla stessa Verità!
L'anima che beve di quell'acqua non ha più sete di alcuna cosa terrena, ma va sempre più ardendo per le cose dell'altra vita, e le sospira con tale bramosìa da non potersi paragonare ad alcuna sete naturale.
Con quanta sete si desidera quella sete, di cui si comprende tutto il pregio! Benché sia penosissima ed estenuante, nondimeno porta con sé tanta dolcezza da temperarne gli ardori, perché, mentre distrugge l'affetto delle cose terrene, sazia l'anima con le celesti. La grazia più grande che Dio possa fare a un'anima quando si degna di dissetarla, è di lasciarla ancora assetata: più beve, più desidera di bere.

3 - A quanto ora mi ricordo, fra le molte proprietà dell'acqua se ne notano specialmente tre, che convengono al mio argomento.
La prima è che rinfresca.
Infatti, per quanto caldo si abbia, gettandosi nell'acqua se ne ha refrigerio. Così di un grande fuoco che si spegne anch'esso con l'acqua, a meno che non sia di catrame, ché allora si accende di più.
O gran Dio!
Com'è ciò meraviglioso!
Un fuoco che nell'acqua si ravviva, un fuoco forte, potente, non soggetto agli elementi, giacché l'acqua, che pure è il suo contrario, invece di spegnerlo l'accende!
Come mi sarebbe utile parlare con chi sapesse di filosofia per istruirmi sulle proprietà delle cose! Come mi saprei spiegare bene allora!
Sono cose che mi dilettano molto, ma non so dirle, e forse nemmeno intenderle!

4 - Quando Iddio,  sorelle, vi porterà a bere di quest'acqua, così come quelle che già la bevono, ne avrete piacere e intenderete che dominatore del mondo e degli elementi non è che l'amore di Dio, purché sia forte, sgombro di ogni attacco terreno e superiore a ogni cosa.
Non temete che possa essere spento dall'acqua che ha origine sulla terra. Benché gli sia contraria, non ha su di esso alcuna forza, perché è un fuoco dominatore, non soggetto agli elementi.
Non meravigliatevi, sorelle, se tanto insisto in questo libro perché vi procuriate tale libertà. Che bella cosa se una povera monaca di San Giuseppe divenisse padrona di tutta la terra e dei suoi elementi!
E vi è forse da stupirsi se col favore di Dio i santi han fatto degli elementi tutto quello che han voluto?
L'acqua e il fuoco obbedivano a San Martino; a San Francesco anche i pesci e gli uccelli, e così molti altri. Però, se sulle creature essi godevano tanto impero, era solo perché si erano sforzati di non stimarle, assoggettandosi sinceramente e con tutto il cuore al vero Padrone del mondo!
No, ripeto, l'acqua che nasce sulla terra non ha alcuna forza contro l'amore di Dio, perché le fiamme di questo amore, lungi dal prender origine in cosa tanto bassa, derivano da ben altro.
Altri fuochi di amor di Dio deboli e inerti si spegneranno per il più piccolo incidente, ma non questo; gli si rovesciasse sopra anche un mare di tentazioni, continuerebbe ad ardere ugualmente, fino a dominare anche quello.

5 - Meno ancora si spegne se l'acqua gli cade sopra dal cielo, perché allora i due elementi, nonché non essere contrari, provengono dal medesimo regno.
Né vi è da temere che si danneggino, anzi, l'uno contribuisce all’effetto dell'altro, perché mentre l'acqua delle vere lacrime, data dal Re del cielo nel tempo della vera orazione, ravviva il fuoco e lo rende più duraturo, il fuoco da parte sua aiuta l'acqua a sempre più rinfrescare.
Oh, splendido e meraviglioso spettacolo, gran Dio, vedere un fuoco che raffredda!
Sì, raffredda tutte le affezioni del mondo, purché vada commisto a quell'acqua viva che discende dal cielo, a quella sorgente, donde derivano le lacrime di cui ora ho parlato, concesse da Dio e non già procurate per nostra industria.
Quest'acqua, dunque, ci toglie ogni affezione per le creature e c'impedisce di arrestarci in esse, fuorché per accenderle di quel fuoco, tanto più che quel fuoco tende di natura sia, non già a contentarsi di poco, ma a consumare, potendolo, tutto il mondo.

6 - La seconda proprietà dell'acqua è di lavare. In che stato cadrebbe il mondo se non ci fosse l'acqua per lavare!
Orbene, sapete voi quanto lavi quest'acqua viva di cui parlo, quest'acqua celeste e chiara, quando cade dal cielo limpida e senza mistura di fango?
Anche a berla una sol volta, tengo per certo che lasci l'anima netta e pura di ogni colpa.
Essa, come ho detto altrove, significa l'orazione di unione, grazia totalmente soprannaturale, indipendente dalla nostra volontà.
Se Dio la concede all'anima è solo per purificarla, renderla più netta, mondarla dal fango e dall'ignominia in cui le sue colpe l'hanno precipitata.
Le dolcezze che si sperimentano nella meditazione mediante il lavoro dell'intelletto sono sempre, malgrado tutto, un'acqua che non si beve alla sorgente, ma che scorre sulla terra, perciò non tanto limpida, per ragione del fango che incontra nel suo corso.
Non a quest'orazione quindi, secondo il mio modo di vedere, si deve attribuire il nome di acqua viva, perché, entrandovi il discorso dell'intelletto, è facile che l'anima, malgrado ogni suo sforzo in contrario si attacchi a qualche cosa di terrestre, a cagione del corpo a cui è unita e a causa della nostra misera natura.

7 - Voglio spiegarmi meglio.
Stiamo meditando sul mondo e sulla fragilità dei suoi beni per disprezzarli.
Ed ecco che, quasi senza accorgerci, ci arrestiamo sopra cose che ci piacciono.
Cerchiamo subito di divertirne il pensiero, ma ciò non c'impedisce che ci fermiamo sia pur per poco, a pensare come fu, che ne avverrà, cosa si è fatto, cosa si farà; e così, nell'intento di fuggire un pericolo, s'inciampa in un altro.
Non è a dire con ciò che si debba rinunciare a queste considerazioni, ma soltanto che bisogna andar sempre guardinghi e mai trascurarsi.
Nell'orazione soprannaturale questa cura viene assunta da Dio.
Egli non vuol fidarsi di noi, ed è tale la stima che Egli ha per l'anima nostra che nel tempo in cui la favorisce di qualche grazia, non permette che s'immischi in cose che le siano di danno, ma subito l'avvicina a sé, e in un attimo solo le rivela tante verità, con così chiare cognizioni sulle cose del mondo, quali da sola non potrebbe acquistare neppur in molti anni, perché allora i suoi sguardi, nonché non essere liberi, sono offuscati dalla polvere che solleva camminando.
Qui invece Iddio ci porta al termine della giornata senza che ne sappiamo il modo.

venerdì 27 maggio 2011

LA LAMPADA DEL MINATORE

Hanno provato a spegnermi
deludendo aspettative
smorzando entusiasmi,
Come di Davy lampada accesa
in oscuri meandri, così lo spirito
non si perse nel buio 
e da insidiose correnti
non fu trasportato.
Nelle pagine d'un Antico Testo
ho posto a riparo la fragile anima
resa salda dalla Divina Parola.
Danila

SCHEGGE D'AMORE

Apro la Bibbia  e leggo:
" e si squarciarono i Cieli"

La mi anima a Te confida
E mi si squarciò il cuore
Ma non fu dolore.
L'amaro della vita
svanì in dissolvenza
Nella profonda ferita
entrò un fiume di grazia
Il mio cuore si saldò

come due mani a nido chiuse
custodendo il Tutto
Possono i miei occhi
non vederti, ma l'Amore
che in me hai seminato
cresce a dismisura
                                                    Danila

IL CIELO IN UNA STANZA (CON LE SBARRE)


Un albero che cade – com’è noto – fa più rumore di una foresta che cresce. I telegiornali sono pieni di alberi che cadono: lotte di potere, una serie infinita di omicidi, gli scandali sessuali, le guerre.
Ne viene fuori ogni giorno una rappresentazione mostruosa della realtà.
Una desertificazione umana dove sembra non ci sia più speranza. I media sono una fabbrica gigante di angoscia.
Eppure c’è anche altro. C’è molto altro. C’è l’eroismo quotidiano della gente semplice, di tantissimi padri e di madri, c’è la grandezza di persone che portano amore e speranza, ci sono vite che cambiano e che – magari dall’abisso – ritrovano significato e verità, uomini che rinascono, il Male che batte in ritirata.
E’ la storia di Bledar, un albanese di 37 anni, detenuto nel carcere “Due Palazzi” di Padova dove sta scontando addirittura l’ergastolo.
Con una tale gravame sulle spalle – “fine pena mai” – questo giovane uomo deve avere un passato molto cupo, segnato da tragici errori e – secondo il giudizio umano – dovrebbe essere disperato e incattivito.
Invece ha incontrato la salvezza in carcere ed è rinato. Un uomo nuovo che da sabato scorso si chiama Giovanni, come il discepolo a cui Gesù voleva più bene.
Infatti Bledar-Giovanni, che viene dal Paese dove il comunista Hoxa aveva imposto l’ateismo di stato obbligatorio, cancellando Dio con la tirannia più cupa e sanguinaria d’Europa, ha scoperto Gesù e il cristianesimo, ha chiesto il battesimo e – dopo un percorso di catecumenato – sabato scorso, 14 maggio, nella commozione generale,ha ricevuto dal vescovo di Padova il battesimo e i sacramenti della Comunione e della Cresima.
Ora Giovanni è un altro uomo, destinato a un futuro (e già anche un presente) divino “infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio” (S. Atanasio).
Entrare a far parte della Chiesa non è una questione associativa come prendere la tessera di un club o di un partito, ma è un cambiamento ontologico, cambia cioè la natura stessa dell’uomo che viene liberato dalla signoria di satana e diventa “figlio di Dio”, parte del Corpo vivo di Cristo. Ogni battezzato in quanto “figlio” acquista i titoli di “re, sacerdote e profeta”.
I sacramenti agiscono in profondità (come mostrano i bellissimi romanzi di Graham Greene) e sono la più grande potenza attiva nella storia, perché sono il segno fisico della potenza invincibile di Cristo.
Cambiando il cuore umano cambiano la storia. Infatti la vicenda di Bledar-Giovanni non è affatto isolata. I casi simili sono ormai tantissimi.
Ieri “Avvenire”, dandone notizia, riferiva che il giovane albanese aveva come padrino di battesimo un italiano, Franco, che anch’esso sta scontando in carcere l’ergastolo.
Inoltre quella cronaca dell’evento ci dice che altri due detenuti, Umberto e Ludovico, hanno ricevuto i sacramenti della Cresima e della Prima Comunione.
“Avvenire” accenna anche alla storia del ventottenne cinese Wu, che ha scontato sempre al carcere di Padova una pena per omicidio e ora – tornato in libertà – ha chiesto il battesimo, l’ha ricevuto nella notte di Pasqua prendendo il nome di Andrea e – durante la recente visita del Papa a Venezia – con immensa emozione ha ricevuto la Comunione dalle sue mani.
“Non si può descrivere la gioia di questo momento” ha detto Bledar-Giovanni. “Per me Gesù è amore, è tutto. E grazie a quanti mi hanno accompagnato, una grande famiglia”.
E’ straordinario vedere che l’amicizia di Gesù può portare la felicità perfino nella vita di un giovane che è chiuso in una galera e che – presumibilmente – dovrà consumare il meglio della sua esistenza fra quelle quattro mura, dietro le sbarre.
E’ questo il cielo in una stanza.

giovedì 26 maggio 2011

SANTA TERESA D'AVILA: Cammino di Perfezione Cap. XIV

CAPITOLO 14
Quanto importi non ammettere alla professione persone il cui spirito sia contrario a ciò che si è detto

1 - Tengo per certo che Dio non mancherà mai di favorire le anime fermamente decise di essere sue, e perciò bisogna bene esaminare quali siano le intenzioni di chi vuol entrare fra voi, affinché non sia soltanto per sistemarsi, come succede di molte. Se queste tali sono persone di criterio, il Signore ne può perfezionare l'intenzione, ma se non hanno criterio non voglio che si prendano, perché non solo non comprenderanno l'imperfezione del motivo per cui entrano, ma neppure gli avvisi di coloro che le vorranno per una via più perfetta. In generale, le persone di questa specie pretendono di conoscere quello che loro conviene meglio degli stessi dotti; e questo, a mio avviso, è un male incurabile, raramente scevro di malizia.
Si potrà tollerare in un monastero numeroso, ma mai in questa casa dove siete tanto poche.

2 - Una persona di criterio appena comincia ad affezionarsi al bene, vedendone l'utilità, gli si attacca fortemente.
E se poi non è fatta per arrivare a grande perfezione, può sempre giovare con i suoi consigli e in molte altre cose, senz'essere di aggravio ad alcuno.
Ma se manca di criterio, non può essere di alcun vantaggio, molto invece di danno. E’ questo un difetto che non si scorge tanto facilmente, perché alcune persone parlano bene e intendono male, mentre altre parlano poco, ed anche quel poco assai male, ma sono capaci di molto bene.
 Vi sono anime così semplici che degli usi e degli affari del mondo non s'intendono nulla, ma molto invece dei rapporti con Dio. Per questo, prima di ricevere una postulante, occorrono grandi considerazioni, e prove assai lunghe prima di ammetterla ai voti.
Sappia il mondo una buona volta che voi siete libere di rinviarla. In un monastero di tanta austerità i motivi non mancano.
E quando si saprà che questo è il vostro costume, nessuno l'avrà a male.

3 - Dico questo perché sono tanto sventurati i nostri tempi, ed è così grande la nostra debolezza che non ci basta nemmeno di averlo per comando dei nostri maggiori, i quali tanto ci raccomandano di disprezzare ciò che il mondo stima onore, e di non aver paura di dispiacere ai parenti.
Pretesti per persuadersi che l'ammissione di tali postulanti sia legittima non mancheranno mai; ma voglia Iddio che non la si abbia poi a pagare nell'altra vita!

4 - In quest'affare ognuna deve fare la sua parte, considerarlo, raccomandarlo a Dio e far coraggio alla Superiora, perché la cosa è importante.
Prego il Signore che vi dia la sua luce. Non ricevere dote per voi è sommamente vantaggioso, perché talvolta per non poter restituire il denaro già speso, si tiene in casa il ladro che rapisce il vero bene: e non sarebbe poca sventura.
Ma voi non dovete aver compassione di alcuno, perché,  dopo tutto, sarebbe sempre un far torto a chi pretendereste di favorire.
 Santa Teresa di Gesù – Cammino di Perfezione
(le immagini si riferiscono all'interno della Chiesa del Monastero di Crotone e al chiostro del Monastero di Legnano)

domenica 22 maggio 2011

SAPER PERDONARE

A Dio, piccolo fiore!!!
Non lo avrei mai pensato! Quando ho appreso la notizia della bimba di 22 mesi dimenticata dal padre per ore, dentro un'auto diventata un forno crematorio, nella mia mente sono passati tanti pensieri, a volte decisamente negativi. Se il padre dei miei figli avesse agito in quel modo, non credo che avrei potuto guardarlo in faccia, e soprattutto pensare di vivergli ancora accanto. Oppure: se quel padre fosse dedito a droghe o alcool, avrebbe l'attenuante di una mente sconvolta dall'uso di sostanze nocive, e la colpa sarebbe a ciò imputabile.
Ma un bravo papà, come può dimenticare di portare al nido una piccina, e poi scordarsela addirittura in auto? Per me è semplicemente un assassino, e dei peggiori! 
Non vado avanti con le mie congetture che non sono neppure tanto cristiane. La moglie e madre mi ha dato una gran bella lezione evangelica!! "Mio marito è un ottimo padre, si è sempre preso cura di noi, amava la piccina...non è colpa sua". UN PERDONO IMMEDIATO, SENZA IL MINIMO TENTENNAMENTO!
Si, se si arriva al perdono davanti ad una tragedia che poteva essere evitata, magari occorrono mesi o anni: prima si deve metabolizzare il dolore, la rabbia, la perdita. Lei invece no, soffre per la disperazione del marito, che non si capacita della sua distrazione, lo difende strenuamente, pur tra le lacrime. E LO PERDONA!
Eppure porta in grembo un altro figlio, e ha donato gli organi della piccola a bambini che non avevano possibilità di vita, quindi quella piccola morte ha ridato la vita ad altre creature. 
In questa straziante situazione, il suo perdono ha modificato anche la mia istintiva reazione, un pensiero molesto ed immediato: "se lo avessi tra le mani non so cosa gli farei"! Devo ammetterlo, perché trovare delle scuse e passare per una persona caritatevole, quando il mio sdegno sovrastava la ragione? Se lei ha perdonato, lei che, insieme alla piccola creatura  messa al mondo da una manciata di mesi, ha subito il torto più grave, perché non dovrei perdonare io? Credo basti il rimorso del padre, come perenne condanna, un rimorso che nulla potrà cancellare, per concedere il perdono immediato. 
Questa madre è un esempio santo, che il Signore l'aiuti a mantenere questa forza d'Amore così ammirevole!
La Vergine Addolorata ti sia sempre accanto, madre meravigliosa e sposa devota! 
(il volto della Madonna Addolorata è un'opera di Domenico Chiodo

BENEDETTO XVI - UDIENZA GENERALE DEL 18 MAGGIO 2O11



Cari fratelli e sorelle,
nelle due scorse catechesi abbiamo riflettuto sulla preghiera come fenomeno universale, che - pur in forme diverse - è presente nelle culture di tutti i tempi. Oggi, invece, vorrei iniziare un percorso biblico su questo tema, che ci guiderà ad approfondire il dialogo di alleanza tra Dio e l’uomo che anima la storia della salvezza, fino al culmine, alla parola definitiva che è Gesù Cristo. Questo cammino ci porterà a soffermarci su alcuni importanti testi e figure paradigmatiche dell’Antico e del Nuovo Testamento. Sarà Abramo, il grande Patriarca, padre di tutti i credenti (cfrRm4,11-12.16-17), ad offrirci un primo esempio di preghiera, nell’episodio dell’intercessione per le città di Sodoma e Gomorra. E vorrei anche invitarvi ad approfittare del percorso che faremo nelle prossime catechesi per imparare a conoscere di più la Bibbia, che spero abbiate nelle vostre case, e, durante la settimana, soffermarsi a leggerla e meditarla nella preghiera, per conoscere la meravigliosa storia del rapporto tra Dio e l’uomo, tra Dio che si comunica a noi e l’uomo che risponde, che prega.
Il primo testo su cui vogliamo riflettere si trova nel capitolo 18 del Libro della Genesi; si narra che la malvagità degli abitanti di Sodoma e Gomorra era giunta al culmine, tanto da rendere necessario un intervento di Dio per compiere un atto di giustizia e per fermare il male distruggendo quelle città. È qui che si inserisce Abramo con la sua preghiera di intercessione. Dio decide di rivelargli ciò che sta per accadere e gli fa conoscere la gravità del male e le sue terribili conseguenze, perché Abramo è il suo eletto, scelto per diventare un grande popolo e far giungere la benedizione divina a tutto il mondo. La sua è una missione di salvezza, che deve rispondere al peccato che ha invaso la realtà dell’uomo; attraverso di lui il Signore vuole riportare l’umanità alla fede, all’obbedienza, alla giustizia. E ora, questo amico di Dio si apre alla realtà e al bisogno del mondo, prega per coloro che stanno per essere puniti e chiede che siano salvati.
Abramo imposta subito il problema in tutta la sua gravità, e dice al Signore: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (vv. 23-25). Con queste parole, con grande coraggio, Abramo mette davanti a Dio la necessità di evitare una giustizia sommaria: se la città è colpevole, è giusto condannare il suo reato e infliggere la pena, ma – afferma il grande Patriarca – sarebbe ingiusto punire in modo indiscriminato tutti gli abitanti. Se nella città ci sono degli innocenti, questi non possono essere trattati come i colpevoli. Dio, che è un giudice giusto, non può agire così, dice Abramo giustamente a Dio.
Se leggiamo, però, più attentamente il testo, ci rendiamo conto che la richiesta di Abramo è ancora più seria e più profonda, perché non si limita a domandare la salvezza per gli innocenti. Abramo chiede il perdono per tutta la città e lo fa appellandosi alla giustizia di Dio; dice, infatti, al Signore: «E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?» (v. 24b). Così facendo, mette in gioco una nuova idea di giustizia: non quella che si limita a punire i colpevoli, come fanno gli uomini, ma una giustizia diversa, divina, che cerca il bene e lo crea attraverso il perdono che trasforma il peccatore, lo converte e lo salva. Con la sua preghiera, dunque, Abramo non invoca una giustizia meramente retributiva, ma un intervento di salvezza che, tenendo conto degli innocenti, liberi dalla colpa anche gli empi, perdonandoli. Il pensiero di Abramo, che sembra quasi paradossale, si potrebbe sintetizzare così: ovviamente non si possono trattare gli innocenti come i colpevoli, questo sarebbe ingiusto, bisogna invece trattare i colpevoli come gli innocenti, mettendo in atto una giustizia “superiore”, offrendo loro una possibilità di salvezza, perché se i malfattori accettano il perdono di Dio e confessano la colpa lasciandosi salvare, non continueranno più a fare il male, diventeranno anch’essi giusti, senza più necessità di essere puniti.
È questa la richiesta di giustizia che Abramo esprime nella sua intercessione, una richiesta che si basa sulla certezza che il Signore è misericordioso. Abramo non chiede a Dio una cosa contraria alla sua essenza, bussa alla porta del cuore di Dio conoscendone la vera volontà. Certo Sodoma è una grande città, cinquanta giusti sembrano poca cosa, ma la giustizia di Dio e il suo perdono non sono forse la manifestazione della forza del bene, anche se sembra più piccolo e più debole del male? La distruzione di Sodoma doveva fermare il male presente nella città, ma Abramo sa che Dio ha altri modi e altri mezzi per mettere argini alla diffusione del male. È il perdono che interrompe la spirale del peccato, e Abramo, nel suo dialogo con Dio, si appella esattamente a questo. E quando il Signore accetta di perdonare la città se vi troverà i cinquanta giusti, la sua preghiera di intercessione comincia a scendere verso gli abissi della misericordia divina. Abramo - come ricordiamo - fa diminuire progressivamente il numero degli innocenti necessari per la salvezza: se non saranno cinquanta, potrebbero bastare quarantacinque, e poi sempre più giù fino a dieci, continuando con la sua supplica, che si fa quasi ardita nell’insistenza: «forse là se ne troveranno quaranta … trenta … venti … dieci» (cfr vv. 29.30.31.32). E più piccolo diventa il numero, più grande si svela e si manifesta la misericordia di Dio, che ascolta con pazienza la preghiera, l’accoglie e ripete ad ogni supplica: «perdonerò, … non distruggerò, … non farò» (cfr vv. 26.28.29.30.31.32).
Così, per l’intercessione di Abramo, Sodoma potrà essere salva, se in essa si troveranno anche solamente dieci innocenti. È questa la potenza della preghiera. Perché attraverso l’intercessione, la preghiera a Dio per la salvezza degli altri, si manifesta e si esprime il desiderio di salvezza che Dio nutre sempre verso l’uomo peccatore. Il male, infatti, non può essere accettato, deve essere segnalato e distrutto attraverso la punizione: la distruzione di Sodoma aveva appunto questa funzione. Ma il Signore non vuole la morte del malvagio, ma che si converta e viva (cfr Ez 18,23; 33,11); il suo desiderio è sempre quello di perdonare, salvare, dare vita, trasformare il male in bene. Ebbene, è proprio questo desiderio divino che, nella preghiera, diventa desiderio dell’uomo e si esprime attraverso le parole dell’intercessione. Con la sua supplica, Abramo sta prestando la propria voce, ma anche il proprio cuore, alla volontà divina: il desiderio di Dio è misericordia, amore e volontà di salvezza, e questo desiderio di Dio ha trovato in Abramo e nella sua preghiera la possibilità di manifestarsi in modo concreto all’interno della storia degli uomini, per essere presente dove c’è bisogno di grazia. Con la voce della sua preghiera, Abramo sta dando voce al desiderio di Dio, che non è quello di distruggere, ma di salvare Sodoma, di dare vita al peccatore convertito.
E’ questo che il Signore vuole, e il suo dialogo con Abramo è una prolungata e inequivocabile manifestazione del suo amore misericordioso. La necessità di trovare uomini giusti all’interno della città diventa sempre meno esigente e alla fine ne basteranno dieci per salvare la totalità della popolazione. Per quale motivo Abramo si fermi a dieci, non è detto nel testo. Forse è un numero che indica un nucleo comunitario minimo (ancora oggi, dieci persone sono il quorum necessario per la preghiera pubblica ebraica). Comunque, si tratta di un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male. Ma neppure dieci giusti si trovavano in Sodoma e Gomorra, e le città vennero distrutte. Una distruzione paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera d’intercessione di Abramo. Perché proprio quella preghiera ha rivelato la volontà salvifica di Dio: il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi innocenti da cui partire per trasformare il male in bene. Perché è proprio questo il cammino della salvezza che anche Abramo chiedeva: essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo. Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio» (Ger 2,19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma serve dunque una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: «forse là se ne troveranno …». «Là»: è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita. E’ una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio. E nella realtà malata di Sodoma e Gomorra quel germe di bene non si trovava.
Ma la misericordia di Dio nella storia del suo popolo si allarga ulteriormente. Se per salvare Sodoma servivano dieci giusti, il profeta Geremia dirà, a nome dell’Onnipotente, che basta un solo giusto per salvare Gerusalemme: «Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c’è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò» (5,1). Il numero è sceso ancora, la bontà di Dio si mostra ancora più grande. Eppure questo ancora non basta, la sovrabbondante misericordia di Dio non trova la risposta di bene che cerca, e Gerusalemme cade sotto l’assedio del nemico. Bisognerà che Dio stesso diventi quel giusto. E questo è il mistero dell’Incarnazione: per garantire un giusto Egli stesso si fa uomo. Il giusto ci sarà sempre perché è Lui: bisogna però che Dio stesso diventi quel giusto. L’infinito e sorprendente amore divino sarà pienamente manifestato quando il Figlio di Dio si farà uomo, il Giusto definitivo, il perfetto Innocente, che porterà la salvezza al mondo intero morendo sulla croce, perdonando e intercedendo per coloro che «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Allora la preghiera di ogni uomo troverà la sua risposta, allora ogni nostra intercessione sarà pienamente esaudita.
Cari fratelli e sorelle, la supplica di Abramo, nostro padre nella fede, ci insegni ad aprire sempre di più il cuore alla misericordia sovrabbondante di Dio, perché nella preghiera quotidiana sappiamo desiderare la salvezza dell’umanità e chiederla con perseveranza e con fiducia al Signore che è grande nell’amore. Grazie.

Udienza con il Papa Benedetto XVI i Carmelitani Scalzi

 UDIENZA ALLA COMUNITÀ DELLA PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA "TERESIANUM" DI ROMA , 19.05.2011
Alle ore 12.15 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza la Comunità della Pontificia Facoltà Teologica del "Teresianum" di Roma, nel 75° anniversario di fondazione.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti:
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Cari Fratelli e Sorelle!
Sono lieto di incontrarvi e di unirmi a voi nel rendimento di grazie al Signore per i 75 anni della Pontificia Facoltà Teologica Teresianum. Saluto cordialmente il Gran Cancelliere, Padre Saverio Cannistrà, Preposito Generale dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, e lo ringrazio per le belle espressioni che mi ha rivolto; con lui accolgo molto volentieri i Padri della Casa Generalizia. Saluto il Preside, Padre Aniano Álvarez-Suárez, le Autorità accademiche e l’intero corpo docente del Teresianum, e con affetto saluto voi, cari studenti, Carmelitani Scalzi, religiosi e religiose di diversi Ordini, sacerdoti e seminaristi. Sono passati, dunque, tre quarti di secolo da quel 16 luglio 1935, memoria liturgica della Beata Vergine del Monte Carmelo, in cui l’allora Collegio Internazionale dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi nell’Urbe fu eretto a Facoltà Teologica. Fin dall’inizio essa si orientò ad approfondire la teologia spirituale nel quadro della questione antropologica. Nel corso degli anni, venne poi a costituirsi l’Istituto di Spiritualità, che assieme alla Facoltà Teologica compone il polo accademico che va sotto il nome di Teresianum.
Considerando con sguardo retrospettivo la storia di questa Istituzione, vogliamo lodare il Signore per le meraviglie che ha compiuto in essa e, attraverso di essa, nei tanti studenti che l’hanno frequentata. Anzitutto, perché far parte di tale comunità accademica costituisce una peculiare esperienza ecclesiale, avvalorata da tutta la ricchezza di una grande famiglia spirituale qual è l’Ordine dei Carmelitani Scalzi. Pensiamo al vasto movimento di rinnovamento originato nella Chiesa dalla testimonianza dei santi Teresa di Gesù e Giovanni della Croce. Esso suscitò quel riaccendersi di ideali e di fervori di vita contemplativa che nel sedicesimo secolo ha, per così dire, infiammato l’Europa e il mondo intero. Cari studenti, sulla scia di questo carisma si colloca anche il vostro lavoro di approfondimento antropologico e teologico, il compito di penetrare il mistero di Cristo, con quella intelligenza del cuore che è insieme un conoscere e un amare; ciò esige che Gesù sia posto al centro di tutto, dei vostri affetti e pensieri, del vostro tempo di preghiera, di studio e di azione, di tutto il vostro vivere. Lui è la Parola, il "libro vivente", come lo è stato per santa Teresa d’Avila, che affermava: "per apprendere la verità non ebbi altro libro che Dio" (Vita 26,5). Auguro a ciascuno di voi di poter dire con san Paolo: "Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore" (Fil 3,8).
A tale proposito, vorrei richiamare la descrizione che santa Teresa fa dell’esperienza interiore della conversione, così come lei stessa la visse un giorno davanti al Crocifisso. Scrive: "Appena lo guardai… fu così grande il dolore che provai, la pena dell’ingratitudine con la quale rispondevo al suo amore che mi parve che il cuore mi si spezzasse. Mi gettai ai suoi piedi tutta in lacrime e lo supplicai di farmi la grazia di non offenderlo più"(Autobiografia 9,1).Con lo stesso impeto, la Santa sembra chiedere anche a noi: come restare indifferenti a tanto amore? Come ignorare Colui che ci ha amato con una misericordia così grande? L’amore del Redentore merita tutta l’attenzione del cuore e della mente, e può attivare anche in noi quel mirabile circolo in cui amore e conoscenza si alimentano reciprocamente. Durante i vostri studi teologici, tenete sempre lo sguardo rivolto al motivo ultimo per cui li avete intrapresi, cioè a quel Gesù che "ci ha amato e ha dato la sua vita per noi" (cfr 1Gv 3,16).Siate consapevoli che questi anni di studio sono un dono prezioso della Provvidenza divina; dono che va accolto con fede e vissuto diligentemente, come una irripetibile opportunità per crescere nella conoscenza del mistero di Cristo.
Grande importanza riveste, nel contesto attuale, lo studio approfondito della spiritualità cristiana a partire dai suoi presupposti antropologici. La specifica preparazione che esso fornisce è certamente importante perché rende idonei e abilita all’insegnamento di questa disciplina, ma costituisce una grazia ancor più grande per il bagaglio sapienziale che porta con sé in ordine al delicato compito della direzione spirituale. Come non ha mai smesso di fare, ancora oggi la Chiesa continua a raccomandare la pratica della direzione spirituale, non solo a quanti desiderano seguire il Signore da vicino, ma ad ogni cristiano che voglia vivere con responsabilità il proprio Battesimo, cioè la vita nuova in Cristo. Ognuno, infatti, e in modo particolare quanti hanno accolto la chiamata divina ad una sequela più prossima, necessita di essere accompagnato personalmente da una guida sicura nella dottrina ed esperta nelle cose di Dio; essa può aiutare a guardarsi da facili soggettivismi, mettendo a disposizione il proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze vissute nella sequela di Gesù. Si tratta di instaurare quello stesso rapporto personale che il Signore aveva con i suoi discepoli, quello speciale legame con cui Egli li ha condotti, dietro di sé, ad abbracciare la volontà del Padre (cfr Lc 22,42), ad abbracciare, cioè, la croce. Anche voi, cari amici, nella misura in cui sarete chiamati a questo insostituibile compito, fate tesoro di quanto avete appreso in questi anni di studio, per accompagnare quanti la provvidenza divina vi affiderà, aiutandoli nel discernimento degli spiriti e nella capacità di assecondare le mozioni dello Spirito Santo, con l’obiettivo di condurli alla pienezza della grazia,"fino a raggiungere - come dice san Paolo - la misura della pienezza di Cristo" (Ef4,13).
Cari amici, voi provenite dalle più diverse parti del mondo. Qui a Roma il vostro cuore e la vostra intelligenza sono provocati ad aprirsi alla dimensione universale della Chiesa, sono stimolati a sentire cum Ecclesia, in profonda sintonia con il Successore di Pietro. Vi esorto, pertanto, a vivere una sempre maggiore e più appassionata capacità di amare e di servire la Chiesa. In questo tempo pasquale, chiediamo al Signore Risorto il dono del suo Spirito, e lo chiediamo sostenuti dalla preghiera della Vergine Maria; Ella, che nel Cenacolo ha invocato con gli Apostoli il Paraclito, vi ottenga il dono della sapienza del cuore e attiri una rinnovata effusione di doni celesti per il futuro che vi attende. Per intercessione della Madre di Dio e dei santi Teresa di Gesù e Giovanni della Croce, imparto di cuore alla comunità delTeresianum e all’intera Famiglia carmelitana la Benedizione Apostolica.
[00762-01.01] [Testo originale: Italiano]

Udienza con il Papa Benedetto XVI e i Carmelitani Scalzi

venerdì 20 maggio 2011

STELLA MARIS - CARMELITANI SCALZI DEL MONTE CARMELO

ll Carmelo è una catena di colline (in ebraico karmel che significa “Frutteto, giardino”; in arabo Gebel Mar Eljas). La catena che è prevalentemente di formazione calcarea, si stacca dal sistema montuoso centrale della Palestina e da sud-est si prolunga ver­so nordovest, lasciando a sud-est la pianura di E­sdrelon e terminando in un promontorio che domina il mare a sud della baia di Haifa. Misura 30 km di lun­ghezza e dai 12 ai 16 metri di larghezza, mantenen­dosi su un'altezza media di 500 metri. La catena del Carmelo segna il confine fra la Galilea e la Samaria. Solcato da frequenti valli, forato da numerose grotte che furono sicuro riparo ai perseguitati (Am 9,2-5) e con i fianchi ammantati di ricca vegetazione, il Carmelo è spesso ricordato nella Sacra Scrittura come simbolo di grazia e prosperità per la sua uber­tosità, o come simbolo di desolazione per il suo di­sboscamento (Is 55,9; Gcr 4,26; 50,19; Am 1,2). Nella spartizione della Terra Promessa il Car­melo venne a trovarsi in mezzo al territorio delle tribù di Aser, Zabulon e Issacar (Gs 19,26). A partire dal secolo IX a.C. divenne celebre come luogo di culto della religione monoteistica giudaica. Su una della sue cime pianeggianti (el-Muhraqah, 514 m) restò immortalato il sacrificio del profeta Elia (1 Rc 18,19-46). Invano i sacerdoti di Baal invocarono il fuoco dall'alto per bruciare la vittima sopra l'altare; mentre, alla preghiera di Elia, l'olocausto fu com­pleto sull'altare eretto su 12 pietre. Il Dio degli Isrealiti vi ebbe culto permanente: vi era celebrato il novilunio, il sabato e vi ebbe dimora il profeta Eliseo (2Rc 4,25). Il luogo è venerato da cri­stiani, ebrei e mussulmani. Al sorgere del cristiane­simo il Carmelo divenne luogo preferito da monaci ed eremiti. È sulle pendici di questo monte, già spiritual­mente legato alla memoria di Elia, che tra la seconda crociata (1147-49) e la terza (1189-92), alcuni devoti pellegrini di Dio, forse ex crociati, provenienti dal­l'Europa, si riuniscono accanto alla fonte del profeta. Il loro preciso intento è quello di vivere nell'os­sequio di Cristo, in santa penitenza, in uno stile rigo­rosamente eremitico, denso di solitudine e di silen­zio, di meditazione e di contemplazione. Dopo alcuni anni chiedono ad Alberto, patriarca di Gerusalemme (1206-1214), di essere riuniti in co­munità e da lui ottengono per iscritto anche la Regola. In essa appare che questi eremiti si sono sta­biliti presso la fonte (di Elia) sul Monte Carmelo e qui costruirono in mezzo alle loro celle... un piccolo ora­torio in onore di Nostra Signora; per la scelta del titolo sono poi chiamati Frati (fratelli) della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo. Il gruppo dei fratelli quando trasmigra nei primi decenni del 1200 in Europa, porta già il nome di Ordine di Santa Maria del Monte Carmelo, un titolo di privilegio, riconosciuto all'Ordine dalla stessa Sede Apostolica e che appare per la prima volta in un documento pontificio di Innocenzo IV (1252). È fuor di dubbio che già nella prima metà del 1200 l'Ordine è mariano, fondato in onore della Ver­gine, e che i religiosi si professano particolarmente dedicati alla Madre di Dio. Tale dedicazione - espres­sa fondamentalmente nella scelta di Maria quale Signora del primo luogo sul Carmelo - costituiva i fratelli persone poste al suo totale servizio. Con la scelta di Maria come titolare, quindi Domina (Signora), e professandosi fedeli suoi servitori, questi primi eremiti cominciano a vivere di fatto quella con­sacrazione, o affidamento, che costituisce il nocciolo della pietà mariana dell'Ordine. Appartenere a Maria, vivere in dipendenza da Maria, promuovere il culto a Maria: in ciò consiste l'orientamento vitale e l'aposto­lato caratteristico di un autentico figlio del Carmelo. Si può dire che la Vergine del Monte Carmelo, come viene sentita, venerata, contemplata dai suoi fratelli e da quanti partecipano alla loro vita - religiosi, con­fratres, terziari - è al centro dell'esperienza spirituale del gruppo costituitosi in Terra Santa, con il fine della perfezione evangelica, in una solitudine con­templativa centrata sulla preghiera continua e l'a­scolto della Parola, in un clima di semplicità, povertà e lavoro, come la vita di Maria a Nazareth. Il riferimento che nel nome della Madonna si dà al Monte Carmelo è semplicemente geografico - sto­rico, quale indicazione del luogo dove i frati sono nati. Per questo, in origine, il titolo Santa Maria del Monte Carmelo non si riferisce a un'immagine spe­ciale o a un aspetto nuovo di culto. Tanto è vero che nella manifestazione concreta della loro pietà, espressa subito anche nei titoli delle varie chiese, i Carmelitani accentuano per lo più gli aspetti della maternità divina, della verginità, dell'immacolata concezione, dell'annunciazione. Perciò, nella tradizione primitiva, Santa Maria del Monte Carmelo è semplicemente la Madonna del van­gelo, la purissima Vergine Maria, che accoglie e custodisce la Parola e con il suo Fiat (sì) diventa Madre del Figlio di Dio fatto uomo. Tenuti, per Regola, a meditare giorno e notte nella Legge del Signore (la Sacra Scrittura), se nelle pagi­ne dell'Antico Testamento scoprono l'esemplarità di Elia, in quelle del Nuovo, riscontrano in Maria un modello esimio di vita consacrata: accessibile… imitabile, anche se impareggiabile. Senza voler accentuare troppo quest'aspetto, si può affermare che i fratelli del Carmelo guardano a Maria di Nazareth, ancella del Signore, come all'ispi­ratrice, guida e signora della vita. Per questo la sen­tono madre e sorella insieme, in un'atmosfera d'inti­mità che li orienta a vivere in pienezza la vita teolo­gale "nel servizio di Cristo", in un clima di semplicità e di austerità. È quanto esprime la prima vitae formula, che presto, fin dal 1300, gli scrittori dell'Ordine vedono incarnata nello stile di vita della giovane donna di Nazareth che nel silenzio della sua casa rimane in preghiera mentre le tornano in mente tutti gli avve­nimenti del Figlio e li custodisce nel cuore. Da allora l'Ordine del Carmelo non cessa di ripensare, riformulare e soprattutto di riappropriarsi dei legami che lo uniscono così strettamente alla prima discepola del Signore, la madre sua Maria. Tra tutte le leggende fiorite attorno all'amore che la Vergine dimostra verso il Carmelo, autentici fio­retti dell'epopea che circonda sempre gli inizi di avvenimenti importanti, alcune sono già presenti nei primi scritti giunti sino a noi: si pensi alla lettura in chiave mariana della nuvoletta del Carmelo (1 Re 18,44) apparsa ad Elia e da lui proposta ai suoi discepoli; al racconto delle visite di Maria coi genitori alla comu­nità del Carmelo (Nazareth dista una trentina di chilometri); al culto che dai Carmelitani sarebbe sta­to tributato alla Vergine sin dall'antichità o, almeno, dai tempi apostolici. Tali leggende non sono che l'e­spressione, forse maldestra e goffa, del desiderio af­fettuoso che i Carmelitani hanno di vedersi coinvolti con il destino di colei che vedono già possedere in pienezza ciò che essi stanno ancora faticosamente cercando.

lunedì 16 maggio 2011

SAN SIMONE STOCK

San Simone Stock
m. Bordeaux, Francia, 1265 circa
Martirologio Romano: A Bordeaux nella Guascogna, in Francia, beato Simone Stock, sacerdote, che fu dapprima eremita in Inghilterra e, entrato poi nell’Ordine dei Carmelitani, ne fu in seguito mirabile guida, divenendo celebre per la sua singolare devozione verso la Vergine Maria. 

Per quanto risulti dalle "notizie" più antiche, Simone Stock fu un Priore Generale inglese, venerato per la sua santità, e morto verso il 1265 a Bordeaux in Francia. Dopo la sua morte, i pellegrini che visitarono la sua tomba hanno registrato i suoi miracoli, dando così nel sec. XIV inizio ad un culto locale. 
Verso il sec. XV, nei Paesi Bassi, emerse una leggenda circa un certo "San Simone" che aveva avuto una visione della Nostra Signora, nella quale Lei gli appariva con lo scapolare promettendogli: "Questo è il privilegio per te e per i tuoi: chiunque morirà rivestendolo, sarà salvo." In pochi anni, i due racconti furono uniti e a Simone Stock, il Priore Generale, fu accreditata la visione della Nostra Signora. Il nuovo racconto fu rapidamente elaborato con dettagli biografici immaginari circa la vita di Simone, come la sua nascita a Kent in Inghilterra, la sua vita eremitica vissuta in un tronco di un albero, e la composizione del Flos Carmeli (un inno carmelitano molto bello alla Nostra Signora che in realtà era noto già nel sec. XIV, e dunque prima della leggenda). 
Il culto verso San Simone Stock e la devozione allo scapolare si diffusero rapidamente nei sec. XV - XVI e numerosi fedeli furono iscritti allo Scapolare. Lungo i secoli, pittori da tutto il mondo tradussero in immagine il racconto della visione dello scapolare, opere d'arte che si trovano in tutte le chiese carmelitane dell'Ordine. Nel sec. XVI, il culto a San Simone Stock fu inserito nel calendario liturgico di tutto l'Ordine. La sua festa si celebrava comunemente il 16 maggio. Dopo il Concilio Vaticano II, che tolse questa celebrazione dalla riforma del calendario liturgico, è stata di recente riammessa. 
Sebbene la storicità della visione dello scapolare non sia attendibile, lo stesso scapolare è rimasto per tutti i Carmelitani un segno della protezione materna di Maria e dell'impegno proprio di seguire Gesù come sua Madre, modello perfetto di tutti i suoi discepoli. Anthony Cilia

domenica 15 maggio 2011

ANDIAMO AL ROSARIO!


Abbiamo deciso di andare a recitare il S. Rosario: è il mese di maggio, dedicato a Maria Vergine.
Ma come lo recitiamo? Facciamo a gara a chi finisce prima? O a chi incomincia prima? Non dobbiamo invece cercare di pregare insieme, unica voce e unico cuore? C’è chi incomincia la seconda parte dell’Ave Maria ancor prima che sia finita la recita della prima, accavallando le parole. Alcuni attaccano con voce sonora per poi finire in morendo. Talvolta, ascoltando, pare di udire un lungo suono ipnotico, come l’hom dei buddisti, o l’hare krishna. Ma sto solo parlando dello stile. Ciò che più conta è capacitarsi che stiamo parlando con la Mamma di Gesù, che è anche Madre nostra.
Se  recito una poesia alla mia mamma o le leggo una pagina di un libro, le ho certo rivolto delle parole, ma ho davvero dialogato con lei? Le ho parlato di me, di noi, col cuore e con la mente? Le ho comunicato il mio amore?.
E se ho deciso di dedicare una piccola parte della mia giornata alla preghiera, perché mai scalpito affinché si inizi per tempo, e sbuffo perché si dilunga di qualche minuto? Ho così poco tempo per il Signore, per la Sua incantevole Madre? Che devo fare di tanto speciale, da dover scappar via non appena finisce la litania mariana, ritenendo sia già durata più del richiesto?
Ma comprendiamo che è, molto spesso questo, il modo con cui ci avviciniamo a momenti di straordinaria spiritualità, tanto alla recita del Rosario, quanto alla Celebrazione Eucaristica? A che serve pregare, se non ci mettiamo l’anima? Speriamo forse che, espletando una pratica devozionale, abbiamo compiuto il nostro dovere di fedeli? Immagino già Maria che scuote il capo, delusa, e rivolgendoci un materno rimprovero: “figli miei, così poco mi amate e amate mio Figlio, da sentire solo il dovere, e non l’Amore, di rivolgervi a noi? “.
Il mese di maggio sta già terminando,  possiamo ancora impegnarci a pregare con vera fede, con amore sincero. La Madonna ci comprende, ci ascolta e ci rivolge il suo amorevole sguardo sempre, anche se qualche volta siamo distratti. Oh, lo so, parlo anche di me, mi ci metto dentro. E mi accorgo quando le mie labbra si muovono e la mente divaga, e allora cerco di riportare l’attenzione a Lei, a Lui, e chiedo nel cuore perdono per questa mia mancanza. E quando ritorno a Lei con tutta me stessa, sento che il Suo amore mi avvolge e non mi abbandona!                           
                                                                                                                             

MESE DI MAGGIO - MESE DI MARIA - CONOSCIAMOLA MEGLIO

LA MADRE DI DIO CROCEVIA DELLA FEDE

Un Padre della Chiesa, S. Cirillo di Alessandria, chiama Maria "scettro della retta dottrina"[Omelia tenuta nel Concilio di Efeso …]. Un’antica preghiera liturgica rivolta a Maria dice: "tu da sola hai sconfitto tutte le eresie in tutto il mondo".

Perché il senso della fede del popolo cristiano ha attribuito a Maria un tale titolo ed un tale compito?
1. Esso, in primo luogo, si fonda sul rapporto unico che Maria ebbe con l’avvenimento dell’incarnazione del Verbo, sul suo coinvolgimento assolutamente singolare [nessuno lo fu come lei] nel fatto che Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Questo coinvolgimento è costituito dalla maternità verginale di Maria. Ascoltiamo come il rapporto unico di Maria col fatto dell’incarnazione del Verbo viene descritto dalla fede della Chiesa: "Essi [i santi padri] non dubitarono di chiamare madre di Dio la Santa Vergine, non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è stato generato [da lei] secondo la carne" [DS 251].
Poiché Maria è entrata dentro al mistero dell’incarnazione del Verbo mediante la generazione fisica del Medesimo, il fatto centrale della nostra fede, "il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" [Gv1,14], è realmente collegato con tutta la nostra realtà umana.
La fisicità, se così posso dire, dell’avvenimento dell’incarnazione del Verbo è manifestata indiscutibilmente dalla maternità verginale di Maria. Questa difende ogni evasione dalla concretezza storica di quel fatto.
Quello poi che è vero di ogni maternità, lo è soprattutto della maternità di Maria. Essa non è stata un fatto puramente biologico, ma ha comportato una partecipazione di tutta la persona di Maria. Ha comportato una libera corrispondenza della libertà di Maria alla grazia di Dio: "eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" [Lc 1,38].
Questa dimensione dell’incarnazione del Verbo fa risplendere in Maria la fondamentale verità cristiana sull’uomo: questi è un soggetto libero chiamato a cooperare realmente alla sua salvezza. La redenzione dell’uomo cioè assume la figura dell’alleanza di questi con Dio. E’ l’alleanza nella quale l’iniziativa è presa da Dio: iniziativa non motivata in nessuna maniera dai nostri meriti, ma solo dall’immensa bontà del nostro Dio. L’Alleanza è posta in essere dalla grazia. Ma è grazia che chiede e suscita la nostra risposta libera. Nel consenso mariano la persona umana scopre la verità più profonda su se stessa: essa è chiamata a corrispondere alla grazia di Dio, e la sua libertà si esprime eminentemente non nei confronti dei vari beni creati, ma di Dio stesso.
Nel mistero mariano pertanto si incrociano e si illuminano reciprocamente sia il mistero del Verbo incarnato sia il mistero [della libertà] dell’uomo: ella difende nella e colla sua maternità verginale l’intera verità di entrambi.
Se la fede cristiana si caratterizza in maniera inconfondibile con qualsiasi altra visione del mondo, religiosa o non, perché afferma il fatto dell’incarnazione del Verbo, Maria è la figura, lo "strumento" più adeguato per custodire intatta questa fede. Se la concezione cristiana dell’uomo si caratterizza per l’affermazione della dignità in qualche modo infinita di ogni persona umana, Maria è l’organo più sublime per custodire intatta nell’uomo la consapevolezza di questa dignità. "Per questo non ci si può meravigliare che la fede specificamente cattolica regredisca e quasi si atrofizzi, quando diminuisce la comprensione di Maria come sommo esponente dell’incarnazione di Dio" [L. Scheffczyk, Maria, crocevia della fede cattolica, Eupress ed., Lugano 2002, pag. 46]. Ed anche ci capisce il posto che occupa il culto e la devozione mariana nella vita cristiana: è un posto che non può essere occupato da nessun santo e neppure dagli Apostoli. Nessun santo o Apostolo è stato coinvolto nel mistero della redenzione come e quanto Maria.
2. Il rapporto unico che Maria ebbe con l’incarnazione del Verbo duemila anni or sono, produce un rapporto unico di Maria con la Chiesa che, come insegna il Concilio Vaticano II, "per una non debole analogia … è paragonata al mistero del Verbo incarnato" [Cost. dogm. Lumen gentium 8,1; EV 1/304]. "Infatti", continua il Concilio, "come la natura umana assunta serve al Verbo divino come vivo organo di salvezza indissolubilmente unito a lui, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito vivificante di Cristo come mezzo per far crescere il corpo" [ib.]
Dopo che Maria ha concepito e partorito il Verbo nella nostra carne, Questi salito al cielo, ha donato lo Spirito Santo perché si costituisse la Chiesa, in ogni tempo e luogo. E’ attraverso l’organismo sociale, visibile della Chiesa che lo Spirito Santo genera Cristo nelle persone umane che accolgono nella fede la predicazione del Vangelo. Ciò che è accaduto in modo eminente e singolare a Maria e in Maria, accade ora alla Chiesa e nella Chiesa. Come infatti Maria ubbidendo alla parola di Dio, ha concepito per opera dello Spirito Santo il Verbo nella nostra carne, così la Chiesa ubbidendo al Vangelo, concepisce per opera dello Spirito Santo l’uomo nella vita nuova ed immortale. Della Chiesa Maria è membro sovrimente e singolarissimo, sua figura concretissima: ella compendia in sé ed irraggia il mistero della Chiesa. E’ per questo che Maria è lo "scettro della retta dottrina sulla Chiesa". Questo rapporto di Maria colla Chiesa è oggi particolarmente importante.

Infatti oggi nella Chiesa avanza una concezione che intende la Chiesa stessa come un’associazione umana attorno alle richieste di Gesù o attorno al suo messaggio. In questa interpretazione, la Chiesa è la comunità di coloro che si schierano con libera iniziativa umana attorno ad un’idea derivata da Gesù. La Chiesa assume così il carattere di una costruzione umana razionale che sorge e cresce tramite la volontà e l’efficienza umana. A una tale Chiesa manca ogni radice di grazia e di mistica. Non è più il grembo materno dal quale nasce in modo misterioso la vita soprannaturale e che porta in sé il mistero della pienezza divina. Questo malinteso sociologico-umanistico della Chiesa, però, procede di pari passo con l’inefficacia della fede in Maria Madre di Dio; perché dove Maria non viene più riconosciuta nel senso salvifico come madre, anche la Chiesa perde i suoi tratti materni-salvifici e diventa un’organizzazione di interessi umani e scopi razionali". [L. Scheffczyk, op. cit., pag. 48]
Ecco la  vera ragione ed il fondamento ultimo della devozione mariana. Non sono la singolare santità di Maria né i suoi privilegi unici. Il fondamento della devozione mariana è il posto singolare che Maria occupa nel mistero dell’incarnazione del Verbo e quindi nel mistero della Chiesa: dunque, dentro al mistero della nostra vita.
Dante espresse tutto ciò in modo insuperabile: Nel ventre tuo si raccese l’amore/ per lo cui caldo nell’eterna pace/ così è germinato questo fiore. Nel ventre di Maria è accaduto quell’avvenimento che ha consentito all’uomo di realizzare il suo destino, nella pace della Chiesa celeste in cui si compie la Chiesa terrestre.
Fonte: Card.Caffarra Arcivescovo Metropolita di Bologna 

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