AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

lunedì 17 novembre 2025

Ciclo su Giulio Quaglio il Giovane (1668-1751) didascalie poetiche di Padre NICOLA GALENO OCD





ACCENDERE UNA PICCOLA LAMPADA dall'Ordine Secolare Carmelitano


 Un uomo al termine della sua giornata densa di impegni era solito compiere un gesto quasi a mettere un sigillo a quanto fatto nelle ore precedenti.

         Ogni sera, entrava nella sua camera, accendeva una piccola lampada d’olio e la poneva davanti all’icona del Cristo posto in un angolo, rimanendo per qualche minuto in una attenzione amorosa e silenziosa di fronte a quella luce.

         Il gesto catturò l'attenzione di tanti suoi amici: “Perché accendi la luce davanti all'icona?” A cosa serve?"

       L'uomo rispose: “Perché temo che la luce in me diventi tenebra: se perdo la luce perdo il senso e il significato del mio agire nella vita”

       E proseguì: “La lampada del corpo è l’occhio, ma l’occhio si oscura se il cuore si spegne. Chi non custodisce la propria luce con umiltà, fede, speranza e qualche volta con lacrime perde la luce senza accorgersene.” 

       Gli amici rimasero in silenzio, e qualcuno  pianse: improvvisamente presero coscienza che il loro agire nella vita non aveva la luce che dava un senso.

L'uomo concluse dicendo: “Questa luce non è nostra, ma ci è stata affidata. Questa luce non si difende con la forza, ma abbandonandosi al soffio dello Spirito.

La bellezza non è nel viso;

la bellezza è avere una luce nel cuore…

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"Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio,

ma sopra la lucerna perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa."

(Vangelo di Matteo 5, 14-16)

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"Chi non vuole altra cosa che Dio , non cammina nelle tenebre,

 per quanto si veda povero e al buio."

(S.Giovanni della Croce)


domenica 16 novembre 2025

La privatizzazione del futuro e i suoi disertori di Padre Mauro Armanino

La privatizzazione del futuro e i suoi disertori


(Il 1984 è stato un anno bisestile caratterizzato da eventi storici significativi, progressi tecnologici e sviluppi nella cultura popolare, ma il 1984 fu l'anno in cui si svolgeva l'omonimo romanzo distopico di George Orwell, pubblicato nel 1949. L'anno reale non vide l'avverarsi delle peggiori profezie del libro su una società di sorveglianza totalitaria, ma la coincidenza della data stimolò molte riflessioni culturali sul controllo statale e sulla manipolazione della verità.)

Chi controlla il presente controlla il passato. Chi controlla il passato controlla il futuro. Lo scrisse il romanziere e militante George Orwell nel suo libro dal titolo ‘1984’. Ci troviamo nell’altro millennio e siamo testimoni più o meno consapevoli del progressivo spossessamento del futuro dei poveri. Si trovino essi nella parte ‘sud’ o ‘nord’ del mondo così com’è stato ridotto in questi ultimi decenni della storia. La tragedia provocata delle oltre 50 guerre in atto nel pianeta e la conseguente creazione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo non è altro che un futuro trafugato e che mai più troverà dimora. La strategia di controllo mirato e spesso istituzionalmente violento delle migrazioni internazionali conferma, specie nelle migliaia di morti alle frontiere, l’arbitraria e spesso definitiva sottrazione del futuro a che aveva il diritto di cercarlo altrove. Non c’è nulla di più grave, nella vita umana, della confisca o dell’esproprio del futuro. Prendere come ostaggio il futuro di un popolo, di una classe sociale o di età è commettere un crimine le cui conseguenze sono irreparabili.

Non casualmente i politici, i generali, i commercianti e i religiosi promettono, ognuno a suo modo, un futuro differente ai sudditi, cittadini, fedeli o semplicemente clienti. Passato, presente e futuro si giocano nell’oggi che sfugge per distrazione, manipolazione o per scelta. I tempi sono stagioni che abbiamo comunque vissuto, sperato e atteso nell’apertura all’inedito di un futuro che pensiamo possibile. Tutti inconsciamente crediamo, come fanno i contadini, che si seminano oggi i grani conservati dal passato per raccoglierne, domani, i frutti. Si ha fiducia che il futuro non sia totalmente deciso o addirittura precluso dal luogo della nascita o dalle circostanze avverse del destino. Attentare alla speranza che domani non sia la banale ripetizione dell’oggi o di quanto già vissuto nel passato ma avventura di un altro mondo possibile è il più spietato dei genocidi. ‘Della perdita del passato’, dice in un romanzo lo scrittore libanese-francese Amin Maalouf, ‘ci si consola facilmente, è dalla perdita del futuro che non ci si riprende’.

L’orchestrata rapina del futuro passa anche attraverso la propaganda, la società dello spettacolo, le ideologie millenariste che si ostinano a promettere la felicità e l’eldorado per domani. Prima però sono necessari sacrifici, rinunce e sofferenze. Domani, certamente, arriverà Godot, personaggio enigmatico nel teatro dell’assurdo dell’irlandese Samuel Beckett. Godot non arriverà mai sulla scena e i due protagonisti passeranno il tempo in una tragica attesa senza futuro. Si mutila il futuro dei poveri tradendone i sogni con politiche economiche basate sull’esclusione e la morte. Si instilla nell’educazione in famiglia e negli istituti scolastici la paura del futuro perchè non controllabile o semplicemente incerto. L’inverno demografico dell’occidente economicamente abbiente non è che un sintomo, peraltro di un’eloquenza unica, dell’espulsione del futuro di un’intera civiltà. Non è dunque casuale che, nella presente fase storica ci sia una moltiplicazione di campi di detenzione per i migranti e carceri contestualmente saturate. In entrambi i casi il futuro è letteralmente sospeso o spento.

Fortuna ci sono loro, i disertori. Non seguono le indicazioni di percorso tracciate anzitempo dai maestri del tempio e i dottori della legge. Non aderiscono ai progetti confezionati o ai piani stabiliti dagli illuminati del sistema o l’intelligenza artificiale. Tra loro si trovano i poeti e i resistenti di ogni tipo che ridanno senso, gusto e vita alle parole cadute in disuso. Disertano come possono i paradisi occasionali e tutto ciò che sembra assicurare il successo. Si contano numerosi tra i marginali e in genere i poco importanti della società che conta. Non hanno fatta propria l’arte della guerra. Vivono nella loro patria ma come stranieri, ogni patria straniera è patria loro e ogni patria è straniera.


 educatori, sacerdoti e Vescovo. 

Sestri Ligure

  Mauro Armanino, Casarza Ligure, novembre 2025

LE ULTIME REALTA' - PECCATO-GIUDIZIO - Quarta Conferenza di PADRE CLAUDIO TRUZZI OCD



LE ULTIME REALTÀ [I “NOVISSIMI”]

4 – PECCATO-GIUDIZIO

► “BRUTTO COME IL PECCATO”
«Si sente spesso dire: “È un peccato!”, oppure “Che peccato!”. Tale espressione, tipica della nostra cultura italiana, è usata per le situazioni più differenti, ma pare che non abbiano nulla a che fare con quello che veramente s'intende per peccato. Anzi, ne sviliscono il senso o la stessa realtà. Sbaglio?»

Infatti il termine peccato è adoperato per un'incredibile quantità di significati: È un peccato, una giornata piovosa, come un piatto rotto. Spesso per dare più peso all'espressione si dice che «è proprio un peccato!». Ma tale inflazione di “peccato” e di “peccati” fa correre il rischio di perdere il vero significato del termine e, si sa, quando tutto è peccato, niente è peccato. 
–  Come lo definisce il Catechismo? [1851]: «...Come il primo peccato, è una disobbedienza, una ribellione contro Dio, a causa della volontà di diventare «come Dio» (Gn 3,5), conoscendo e determinando il bene e il male. Il peccato, pertanto, è amore di sé fino al disprezzo di Dio. Per tale esaltazione di sé, il peccato è diametralmente opposto all'obbedienza di Gesù, che realizza la salvezza». [Cfr in appendice; Catechismo: IL PECCATO]
–  Il peccato secondo il Vangelo
Nei libri dell’Antico Testamento – e questo forse può sorprendere – non c'è nessuna parola che significhi peccato in cui oggi lo s'intende e lo definisce il Catechismo.
• I termini che si trovano nella Bibbia corrispondono ad infedeltà – intesa come la rottura di un patto –, ad iniquità, deviazione, ribellione –, tutti intesi come infrazioni di un ordine sociale e religioso.
• In seguito, con il fariseismo (corrente spirituale contemporanea a Gesù), si ebbe un'esasperazione di simile concetto di “peccato”. I farisei stabilirono in ben 613 i precetti dati da Mosè, di cui 365 proibizioni e 248 obbligazioni, con una scrupolosa attenzione per le norme riguardanti la “purezza rituale”, l'osservanza del riposo in giorno di sabato e tutti i numerosi tabù su ogni aspetto della sfera sessuale.
† Si deve purtroppo a tale periodo e al movimento farisaico la nascita di alcuni concetti che s'infiltreranno, inquinandola, anche nella spiritualità cristiana, come: 
– l'immagine del “dio-contabile”.  Un dio “vendicativo” che, con estrema pignoleria, scrive tutte le azioni dell'uomo in un libro, per poi enumerargliele al momento del giudizio;
– o l'idea del Dio che, già durante la loro esistenza terrena, ricompensa i buoni secondo i loro meriti e punisce i malvagi per le loro colpe. [Es., il caso del Cieco nato, del Vangelo – E noi: “Che cosa ho fatto di male, perché Dio mi castighi mandandomi …!”]
Quando poi i Farisei si resero conto che i malanni, le disgrazie, non colpivano soltanto i cattivi, ma pure i buoni, elaborarono la dottrina dell’“espiazione vicaria”, cioè il principio secondo cui, quando Dio invia una punizione per i peccati degli uomini, essa cade prima sui buoni. Si legge infatti nel Talmud:
«Quando in una generazione vi sono dei giusti, i giusti sono puniti per i peccati di quella generazione; se non vi sono dei giusti, allora i bambini che vanno a scuola soffrono per il male del tempo» (Shab. 33b).
•  Gli Evangelisti, invece, si distaccano in maniera abbastanza netta sia dal senso di colpa dell'Antico Testamento sia da quello dei contemporanei di Gesù, per i quali il peccato era un'offesa contro Dio.
Per cogliere il significato di peccato, come essi l’intendevano, esaminiamo i termini usati per indicarlo.
1 – Il primo aspetto che stupisce è la piccola parte che vi hanno proprio le considerazioni sul peccato e sulla sua natura. Probabilmente perché Gesù, pur riconoscendone la realtà, non ha parlato del peccato.
Delle tante parole con cui la lingua greca, in uso all'epoca della stesura dei vangeli, poteva indicare il “peccato” nelle varie sfumature, gli Evangelisti escludono la parola iniquità (= l'azione contro la Legge). Il termine “iniquità”, nei Vangeli, si trova presente soltanto 4 volte – tutte in Matteo –, ed è da Gesù applicato ai falsi profeti, agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 7,23; 13,41; 23,28; 24,12).
2 – Ugualmente escluso dal Vangelo è il termine “disubbidienza”, intesa come trasgressione di un comandamento. Ne deriva che la norma di vita del cristiano non si fonda nella fedeltà ad un codice scritto, ma alla persona di Gesù. Il credente non è chiamato all'ubbidienza ad una Legge, ma alla somiglianza al Padre. 
3 – È assente pure l'idea di peccato come mancanza ad un dovere, e pure quella di peccato involontario.
A questo punto, che cosa rimane?
Restano solo tre termini che gli evangelisti usano per indicare la realtà del peccato. 
1 – Il più importante è quello indicato con un termine greco (Amartya) che significa letteralmente mancare il bersaglio/ sbagliare direzione, e nei Vangeli riguarda sempre il passato dell'uomo, prima del suo incontro con Gesù e con il suo messaggio. È usato per indicare una vita contraria al progetto che Dio propone, un rifiuto del dono di vita che il Padre fa, una vita ingiusta e deviante. 
Questo peccato può essere cancellato mediante la conversione e l'adesione a Gesù. La fede in Gesù – che è l'accoglienza di Lui e del suo messaggio – cancella il passato peccatore dell'uomo: «Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: Figliolo, ti sono cancellati i tuoi peccati» (Mc 2,5).
2 – Inoltre, per indicare il peccato ci sono altri due termini: azione ingiusta (disonestà) e caduta (mancanza) 
che riguardano il presente dell'uomo dopo l'incontro con Gesù, e sono usati per indicare le mancanze commesse verso gli uomini. Tali colpe sono cancellate perdonando le mancanze altrui – secondo l'insegnamento di Gesù: «Se voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi» (Mt 6,14). È certo singolare osservare come gli evangelisti indichino il peccato – ciò che incrina o può spezzare il rapporto con Dio –, esclusivamente come atteggiamento ingiusto e dannoso verso il prossimo, una rottura della relazione con gli altri uomini, e mai verso Dio.
Nei Vangeli non si prendono, quindi, in considerazione le mancanze cultuali o rituali, ma esclusivamente atteggiamenti che possono portare danno all'altro. Gesù insiste sulla preminenza della misericordia verso gli uomini e non sul sacrificio a Dio, e che il bene e la felicità degli uomini prevalgono sull'osservanza della Legge. Egli sostiene con forza che ciò che rende “impuro” l'uomo – e che pertanto rompe il contatto con Dio –, sono gli atteggiamenti ingiusti verso il prossimo: «cattivi pensieri, prostituzione, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, frode, lascivia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7,21-22), e non la trasgressione di determinati riti o la non-osservanza di precetti religiosi. Precetti che il Signore dichiara di provenienza umana, invenzioni degli uomini (Mc 7,7.8.13). È, infatti, condannato adirarsi contro il proprio fratello (e la riconciliazione diviene più importante dell'atto cultuale); è condannato criticare e giudicare. Tutta la Legge è condensata non in atti cultuali ma in quello che si fa agli altri: «Tutte le cose, dunque, che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la Legge ed i profeti» (Mt 7,12).
Quindi, essenziali per ottenere la vita eterna s'indicano solo quei comandamenti e precetti che riguardano i doveri verso gli uomini: «Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai falsa-mente, onora il padre e la madre, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,18-19), omettendo quelli – considerati, allora importantissimi –, che riguardano gli obblighi verso Dio. 
L'atteggiamento di quei pii e devoti che preferiscono rifugiarsi nel culto verso Dio a scapito del bene concreto al prossimo, è denunciato come falso e sterile, tanto che nel giudizio dei pagani, non sarà chiesto conto alcuno della loro fede, bensì di quegli elementari atteggiamenti di solidarietà tenuti verso l'altro, quali dar da mangiare, da bere, vestire, ospitare, assistere gli infermi e i carcerati (Mt 25,31-46).
•   Quindi, dall'esame dei Vangeli, il peccato si mostra come quell'atteggiamento volontario, dettato dall'egoismo, col quale l'uomo ignora l'esistenza degli altri uomini, se non nell'usarli per il proprio interesse.  
Tale è il peccato dell'umanità, l'ostacolo alla realizzazione della volontà di Dio, che il Concilio definisce «una diminuzione per l'uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza» (GS 1,13).
Lo stesso concetto, la saggezza popolare l'ha formulato con l'espressione "brutto come il peccato". Il peccato è brutto, perché rende brutti. E Gesù: «La lampada del corpo è l'occhio: perciò, se il tuo occhio è buono, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso» (Mt 6,22-23).
Sicché si può concludere che il peccato fondamentale non è tanto trasgredire questo o quell'altro comandamento o precetto, quanto è il non accogliere il dono della vita per portarlo al suo compimento. Da qui il severo rimprovero del Signore: «Conosco le tue opere: tu non sei ne freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo. Ma poiché sei tiepido, non sei cioè ne freddo ne caldo sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,14-16).  
Purtroppo, è lo stile assunto da tanti cristiani: la “via di mezzo”, che pare essere la migliore: «Non sono né santo, ma neanche “peccatore”; non rubo, non ammazzo...; per il resto, sa com'è...». La “via di mezzo”, quella della mediocrità o della tiepidezza, è più pericolosa – agli occhi del Signore – di quella del peccato. Questi, proprio dall'amarezza e dall'inquietudine che nasce dalla sua triste situazione, può trovare il desiderio di con-versione, può incontrare il Signore, perché «dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata» (Rm 5, 20), ma per la persona “tiepida”, e che per di più si “sente a posto col Signore e coi fratelli”, non c’è rimedio, perché il Signore non è venuto a chiamare i “giusti”, ma i peccatori (Mt 9,13).  Per questi, invece, c'è sempre speranza, grazie a quel Dio che «ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti» (Rm Il,32).

► “PECCATO”, MA ESISTE ANCORA?
«Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te!»  (Lc. 15, 17)
L'ammissione del “figliol prodigo” avviene al termine di una riflessione, provocata, sì, da una situazione di disagio divenuto disumano, ma sostenuta ed illuminata da un ricordo: «Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza ... ». È la memoria dell'amore, del bene nella casa del padre che fa sbocciare il desiderio del ritorno, ma pure fa comprendere al figlio la natura del suo agire: si è reso indegno d’essere figlio.
 Nella presa di coscienza del peccato e nella sua definizione è indispensabile, quindi, il riferimento a Dio. 
Il peccato, infatti, è essenzialmente una realtà religiosa, perché tocca il rapporto della persona con Dio; è un rifiuto, un'offesa, un “no” detto coscientemente e liberamente. Per il cristiano, il “no” è rottura dell'Alleanza offerta da Dio e rifiuto della chiamata di Dio al dialogo con Lui e con gli altri. Però...
Che gran confusione!
Confusione, sì! Perché anche tra i cristiani si tende a ridurre il peccato: – a semplice trasgressione di leggi – a identificarlo con il senso di colpa  –  a considerarlo un incidente inevitabile. 
Perciò molti cercano di rimuoverne dalla memoria, e si accostano al sacramento della penitenza semplice-mente per “mettersi la coscienza in pace” o “sentirmi a posto” o “perché serve a ottenere l’indulgenza” (!).
Pio XII osservava – già negli anni '50 – che il peccato più grave che si andava diffondendo era la crisi del senso del peccato, l'attenuarsi nella coscienza della percezione della sua gravità.
Anche tra gli anziani si sente affermare che “Oggi è tutto lecito”, che anche la “Chiesa è cambiata”: prima tutto era peccato, oggi è permesso tutto! E gli studiosi parlano di “cultura dell'innocenza”.
Ma è proprio vero che “Non c'è più religione?”, “Che tutto è permesso?”. Da che cosa sarebbe causata questa nuova mentalità; ma, vi sono solo elementi negativi?
•  La crisi del senso del peccato, oggi
Pur nel vorticoso e frenetico evolversi dei costumi e delle culture è possibile individuare alcuni fattori che più hanno peso nel determinare l'attuale crisi del senso del peccato. Ecco una breve analisi.
La perdita del riferimento a Dio
* In una società permeata di sacralità, di religiosità, il divino si rivelava operante nelle leggi della natura, nei misteri della fecondità e nello sviluppo della vita, nell'organizzazione sociale e nell’autorità, nella cultura e nell'arte, nella guerra e nella politica... Tutta la vita del gruppo era circondata da una sacralità, per la quale l'uomo si trovava in contatto con il divino, sorgente di vita, di sapienza, di potere e di diritto.
*  In una società secolarizzata [la nostra], invece – in un mondo in cui la scienza e la tecnica hanno disincantato, desacralizzato la natura fisica e i misteri della vita, della fecondità e dello sviluppo psicologico dell'uomo –, il riferimento diretto a Dio tende a smorzarsi. Così come l’autorità familiare e politica, e tutta l'organizzazione sociale, non sono più sentite come un'emanazione diretta del divino e, quindi, qualcosa di sacro e inviolabile. Parimenti, l'incontro di culture diverse ha portato alla “scoperta” di sistemi morali differenziati, incrinando l'idea di una morale unica ed assoluta.
Tale nuova concezione dell'uomo pone in crisi la concezione del peccato come pura mancanza alla legge. Si reclama, invece, il valore e la dignità della persona, la responsabilità dell'uomo nella costruzione dell’avvenire suo e del mondo, denunciando l’inattività e la connivenza di fronte a situazioni e leggi ingiuste.
“Tutti colpevoli” (la società), “nessuno colpevole” (l'individuo).
La presa di coscienza dei rapporti d’interdipendenza tra i popoli, del potere di organizzazioni internazionali (sia economiche sia sociali e culturali) tende a far percepire le responsabilità politiche su scala mondiale. Allo stesso tempo, però, si evidenzia il potere delle strutture sulla vita personale, favorendo un senso d’impotenza per la sproporzione tra persona singola e la vastità del raggio d'azione di tali organizzazioni. 
È facile allora la colpevolizzazione collettiva, che demanda ad un’entità astratta (la società) ogni responsabilità e fa sentire il singolo meno colpevole, lasciandolo nella sterilità di una denuncia generalizzata, quanto inconcludente.
•   Discorso “difettoso” sul peccato
Come se ciò non bastasse, anche “chi parla del peccato” può contribuire non solo a confondere le idee, ma pure a farne perdere il senso. Accenniamo a qualche esempio:
–  si considera il peccato come una condizione quasi necessaria affinché l'uomo scopra la propria povertà e si apra incondizionatamente alla salvezza;
–  si parla del peccato accusando gli altri, per scusare se stessi: la colpa sarebbe del diavolo, d’Adamo ed Eva… del Papa, vescovi, preti, ecc, ecc;
–  s’insiste sulla fragilità della natura, e si dimentica la Grazia che Cristo ci ha donato per farci liberi;
–  oppure si pronunciano discorsi sulla gravità del peccato; si insiste sul castigo, senza lodare la misericordia di Dio che non cessa di offrirci il Suo aiuto;
–  si elencano più i peccati contro le leggi e i precetti, trascurando quelli di mancanza d’amore, gratitudine e lode vera a Dio… L'elenco potrebbe continua
•• La contestazione del nostro modo di parlare del peccato, tuttavia, esprime l'esigenza, magari inconscia, di ascoltare la Rivelazione che di esso Dio fa all'uomo.  
E, ancora, esigenza di ritorno alla Parola dove il peccato è sempre letto in relazione a Dio e ai fratelli:

► “PIENA AVVERTENZA”: CHE SIGNIFICA?

«Il catechismo afferma che: il «peccato mortale è una disobbedienza a Dio in materia grave, fatta con piena avvertenza e deliberato consenso (n. 1857). 
Ma che cosa significa esattamente "piena avvertenza..."?».
Per poter parlare di peccato “mortale” non basta che una determinata azione sia in grave contrasto con la volontà di Dio, ma occorre che vi sia coinvolta la responsabilità personale. 
Ora, responsabilità, come sappiamo, comporta innanzitutto l’essere consapevoli di ciò che facciamo e delle conseguenze che ne derivano. Applicata al nostro problema, "piena avvertenza”. allora, vorrà dire essere pienamente consapevoli che quella determinata azione è in grave opposizione al comandamento di Dio e che, di conseguenza, ci porta lontano da Lui.
Scendendo al concreto, “piena avvertenza” significa: 
a – In primo luogo essere pienamente presenti a noi stessi quando compiamo una data azione. E questo, ovvia-mente, dipenderà dalla presenza di certe condizioni fisiche: uso di ragione, stato di veglia, sanità mentale, ecc. Ad esempio, è evidente che un bambino, sprovvisto dell'uso di ragione, oppure un adulto immerso nel sonno, non possono essere presenti a se stessi e, quindi, non possono essere responsabili delle azioni che compissero. Così si dice delle azioni compiute durante il dormiveglia, in stato di ebrezza o di grave alterazione mentale, dovuta a forte eccitazione passionale oppure agli effetti della droga, ecc. In tali casi si può avere l'impressione di essere presenti a se stessi, ma in realtà tale presenza o manca, oppure è notevolmente ridotta. Per cui il peccato non lo si dovrà cercare nelle azioni compiute durante gli stati suddetti, ma casomai più a monte, cioè nell’essersi posti spontaneamente in tali condizioni, pur sapendo le gravi conseguenze che ne potrebbero derivare.
Tuttavia, per poter parlare di peccato “mortale” non basta essere presenti a se stessi. 
Non dimentichiamo che il peccato mortale, come suggerisce la parola, comporta conseguenze estreme per chi lo commette. Perciò la piena consapevolezza, da esso richiesta, dovrà comportare anche la capacità concreta di valutare una data azione in tutta la sua portata morale. In altre parole, non sarà sufficiente avere avuto notizia del messaggio cristiano, ma si richiederà che tale messaggio abbia fatto presa nella coscienza della persona tale da diventare il giudice interiore delle sue azioni. 
Ora, nella vita concreta tale presa di coscienza incontra difficoltà che non si posso trascurare. 
Innanzitutto, si deve riconoscere che per loro natura le indicazioni della morale cristiana – data la forte resistenza che incontrano da parte dei nostri istinti e data la complessità delle situazioni che la vita moderna presenta – richiedono un certo tempo per essere assimilate. Tale difficoltà, oggi soprattutto, è notevolmente  accresciuta dalla confusione di idee che si è creata in campo morale e dalla erosione lenta ma inesorabile del-le coscienze, operata da stampa, radio, televisione, ecc. È un fatto che per il cristiano comune diventa  sempre più difficile smascherare i falsi argomenti, con cui la morale laica cerca di giustificare le proprie posizioni.
A tutto questo s’aggiunga la pressione psicologica che ad un certo momento viene esercitata sulle coscienze da parte della mentalità collettiva, cioè dalla constatazione che "fanno tutti così". 
È un altro dato innegabile che l'uomo comune è fortemente condizionato dall'ambiente.
•   Simili constatazioni dovrebbero indurci ad un atteggiamento nuovo verso le persone: un atteggiamento veramente evangelico. Una cosa, infatti, è la capacità di rispondere dei propri atti davanti a Dio; altra cosa, invece, sarebbe la pretesa, o anche la semplice tentazione, di voler giudicare la coscienza dei nostri fratelli. Tale giudizio infatti, ci avverte Gesù, spetta solo a Dio. 
Attenzione! Ciò riguarda il giudizio sulla persona, ma non il fatto in se stesso: se è l’azione è sbagliata, è sbagliata! Bontà non equivale a buonismo! Gesù assolve le persone [“Padre perdonali perché non sanno ciò che fanno!”], ma nel contempo non lesina un giudizio severo sulle azioni malvagie!]  
►    SENSO DI COLPA.  CHE COS’È?
«La coscienza è la voce di Dio che ci rimprovera se compiamo il male. Ora, come può un’educazione errata alterarne la voce e renderci colpevoli quando non lo siamo? Al contrario, come mai se non abbiamo avuto una giusta educazione, possiamo fare del male senza che la coscienza ci rimproveri? 
Che cosa è dunque il senso di colpa?».
In poche righe sono posti molti problemi, e tutti importanti. 
•  Iniziamo dalla definizione di coscienza come “voce di Dio”. La formula è metaforica e non deve essere, perciò, intesa in senso proprio. In realtà la coscienza può diventare eco della voce di Dio, ma non lo è per nascita. D’'altra parte non lo diventa automaticamente solo con il passare del tempo. È necessaria un’attenta formazione affinché la coscienza possa cogliere le leggi del bene iscritto nelle dinamiche delle cose. La voce di Dio, infatti, risuona nella coscienza, solo attraverso gli echi della storia e delle esperienze. Gesù rimproverava ai contemporanei di non avere maturato una coscienza retta: «Siete capaci di capire l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?». 
Il fatto che: “Io la penso, sono convinto, sento così… non è automaticamente “retta coscienza”! Anzi!”.
La formazione della coscienza deve costituire il primo impegno d’ogni persona che voglia vivere serenamente ed imparare a decidere in modo autonomo secondo il bene. La preoccupazione principale degli educatori [e genitori] dovrebbe essere quella di stimolare nei giovani il senso del bene.
•  Che cosa è allora il senso di colpa? 
È la reazione che una “coscienza bene formata” ha di fronte al male compiuto (o supposto tale). 
Quando, però, un'educazione imperfetta ha presentato come male ciò che invece non lo è, il senso di colpa può sorgere anche dopo azioni buone o indifferenti. 
E quando un'educazione inadeguata ha presentato come buone azioni cattive, il senso di colpa può essere assente anche dopo aver compiuto il male. Il senso di colpa, perciò, non è un criterio sufficiente per giudicare il bene e il male della nostra vita, ma è un semplice indizio.
Esso deve stimolarci ad esaminare più in profondità le azioni compiute, per individuarne le motivazioni e soprattutto le conseguenze per la crescita personale. L'adeguato e definitivo criterio delle scelte umane è costituito dai frutti vitali. Diceva Gesù dei falsi profeti: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,16). I frutti vitali sono la maturazione personale, la capacità di amare, la forza di sopportare il dolore, la facilità di perdonare ecc.: in una parola la crescita dell'uomo interiore. I frutti delle azioni, però, non appaiono subito: alcuni mali, conseguenti a scelte errate, si manifestano solo dopo lungo tempo.
D’altra parte, non è possibile agire solo quando si conoscono, per esperienza propria, le conseguenze di ogni azione. Se si vuole acquisire una retta coscienza, perciò, 
– è indispensabile imparare ad analizzarsi, 
– è essenziale misurarsi con le leggi per valorizzare le esperienze passate, 
–è necessario dialogare per confrontarsi con risultati di altri comportamenti.
Così s’impara ad accogliere le invenzioni che il Bene cerca costantemente d’introdurre nella storia umana.

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Il Paradiso non può attendere: dobbiamo già cercare il nostro Cielo qui sulla terra! Questo blog tratterà di argomenti spirituali e testimonianze, con uno sguardo rivolto al Carmelo ed ai suoi Santi