AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

domenica 23 novembre 2025

- LE ULTIME REALTA’ [I “NOVISSIMI”] 5 – INFERNO - quinta conferenza di Padre CLAUDIO TRUZZI OCD


 Illustrazione di Gustave Doré per la Divina Commedia di Dante

LE ULTIME REALTA’ [I “NOVISSIMI”]
5 – INFERNO
► Ma l’Inferno è così?
Da anni, durante le prediche, non sento più agitare lo spauracchio dell’inferno. Quand'ero ragazzo, negli Anni Cinquanta, il parroco del mio paese indugiava spesso e volentieri sull'inferno e sui suoi inimmaginabili tormenti eterni. A distanza di oltre trent'anni ricordo ancora con inquietudine quelle cupe disquisizioni. Oggi noto che l'argomento è quasi scomparso: è effettivamente così o mi sbaglio? 
Mia moglie,... ricevette in omaggio L'imitazione di Cristo, dove, a pagina 65, leggo: «... Colà i pigri saranno incalzati da pungoli infuocati; e i golosi saranno tormentati da grande sete e fame. Colà sui lussuriosi e sugli amanti dei piaceri saranno versati in abbondanza pece ardente e zolfo fetido, e gli invidiosi, per il gran dolore, daranno in ululati, quali cani rabbiosi. Non ci sarà vizio che non abbia il suo speciale tormento... Un'ora trascorsa colà, nella pena, sarà più grave di cento anni passati qui in durissima penitenza».
Ora mi domando, e le domando: in base a che cosa è possibile una descrizione tanto dettagliata e decisa dei tormenti infernali? Non le pare eccessivamente dantesca quella pagina? 
Nel 1979 mi trovavo in vacanza in Scozia con una comitiva di cui faceva parte un sacerdote di grande cultura e preparazione. Un giorno, contemplavamo un lago sulla cui superficie scintillavano pagliuzze luminose, e tutto appariva dolce, acquerellato. Gli chiesi: «Padre, lei crede veramente nell'inferno?». Mi guardò sorpreso, meditò un attimo la risposta, quindi disse: «È un argomento tutto da studiare, approfondire». La sua risposta non mi bastò, perciò aggiunsi: «Lucia, la pastorella di Fatima, dice chiaramente che durante la terza apparizione la Vergine aprì le mani e i pastorelli si trovarono di fronte a una visione terrorizzante. Videro l’inferno e in esso le anime dei demoni e dei dannati». Il sacerdote non si scompose e aggiunse: «Lucia vide il “suo” inferno, lasciando intendere la soggettività della visione. Poi concluse: «Resta ancora un argomento tutto da discutere, studiare, analizzare. Un dibattito nuovo». Se è così, padre, che cosa si aspetta ad aprirlo?» N.N di Pavia
•  Alla tradizionale predicazione sull'inferno è accaduto di ritrovarsi fra le mani parole, frasi ed immagini ormai consunte, che non riescono più ad esprimere il messaggio lanciato da Gesù sulla sorte finale dell'uomo. Questa è senz'altro la ragione del diffuso silenzio sul tema. Anche se bisogna riconoscere che a volte la mancanza della parola "inferno" non coincide con il silenzio: di ogni cosa si può parlare in tanti modi diversi.
Ora, il fenomeno della consunzione degli strumenti espressivi della fede è un dato abbastanza diffuso nella nostra cultura. Dipende dal fatto che l'uomo di oggi non ha più quella visione mitica del mondo in cui le cose e i fatti dell'esperienza quotidiana sembravano nascondere in sé significati misteriosi. Allora l'uomo combinava audacemente cose spirituali e materiali, accavallava i fatti più disparati l'uno sull'altro e si serviva del fantastico complesso che ne risultava, con il suo alto potenziale emotivo, per indicare le cose sublimi della fede che altrimenti non riusciva ad esprimere.
Pure Gesù usò più volte il linguaggio mitico: per esempio quando – proprio a proposito del nostro problema – parlò della possibile ultima rovina dell'uomo come d’un essere precipitato nella Geenna [che era la fossa-discarica dove si bruciavano i rifiuti di Gerusalemme]; parlò del «fuoco inestinguibile», che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l'anima che il corpo. Gesù annunzia con parole severe: «Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno [...] tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente» (Mt 13,41-42), ed Egli pronunzierà la condanna: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!» (Mt 25,41).
Delle cose, ormai, l'uomo moderno ne conosce assai l'interno ed esterno, il diritto e il rovescio: esse sono sempre meno misteriose e quindi sempre meno manipolabili per indicare altre realtà più grandi di lui. Ecco perché oggi pensare il diavolo con le corna e le zampe di capra o l'inferno di fuoco, pece e zolfo appare ridicolo. Come ugualmente ridicolo è immaginare Dio Padre con la barba seduto in trono sopra l'arco del cielo.

Il problema, quindi, non consiste nell'abbandono, ormai definitivamente avvenuto, della effervescente massa d’immagini con cui s’illustrava l'inferno, ma piuttosto nella necessità di cogliere il senso del messaggio che Gesù e la tradizione della fede ci hanno inteso trasmettere in proposito. 
Non si può, però, pretendere di dare una risposta a tutte le curiosità – pur naturali – dell'uomo sull'Aldilà. 
La rivelazione biblica è particolarmente avara di notizie, ed avventurarsi oltre il poco che troviamo nelle Sacre Scritture, inseguendo le visioni o le cosiddette "rivelazioni private" di questo o quel personaggio – per quanto illustre in santità –, è molto rischioso. Diceva molto bene quel sacerdote, sulla panchina, in Scozia, a proposito della veggente di Fatima: «Lucia vide il suo inferno».
►   Qual è, allora, il significato del discorso di Gesù sulla sorte finale dell'uomo?
– Gesù, prima di tutto intende renderci responsabili della nostra vita. Ricordiamo le parabole? L'erbaccia cresciuta fra il grano verrà strappata e bruciata; i pesci raccolti nella rete del Regno di Dio verranno selezionati e quelli cattivi scartati via; le ragazze con la lampada spenta non saranno ammesse alla festa di nozze; il ricco impietoso finirà nel fuoco, mentre il povero Lazzaro sarà beato «nel seno di Abramo»; il ladrone pentito sarà con Gesù in Paradiso; chi avrà sfamato, vestito, accolto e consolato il povero e il sofferente sarà accolto dal Padre nel Regno, mentre chi si sarà rifiutato sarà spedito «nel fuoco eterno» ... eccetera.
•  Molti obiettano – a simile visione delle cose – l'estrema debolezza dell'uomo e suoi molteplici condizionamenti. Troppa la responsabilità di cui Dio vorrebbe caricata la nostra coscienza! 
Ma, in realtà, nel Vangelo è pure evidente che Dio conosce le sue creature ed ha compassione dei peccati degli uomini. Per Gesù, Dio è un padre che giudica il cuore, la profondità delle intenzioni dell'uomo e non i suoi successi od insuccessi esternamente appariscenti. La sua giustizia è fatta di misericordia senza fine.
Però, se il messaggio evangelico non rendesse noi responsabili della nostra esistenza, neppure avrebbe qualcosa da dire sulla storia degli uomini; né potrebbe voler cambiare in essa alcunché: si ridurrebbe ad un puro messaggio consolatorio. Per Gesù, invece, ogni istante dell'esistenza dell’uomo, con la sua libertà giocata nella scelta delle cose da fare o evitare, ha la capacità di “costruire” la nostra eternità. Gesù si paragona ad un ladro che viene di notte. Curiosa, a prima vista, ed antipatica, immagine, ma ricca di significato: essa   sottolinea che ogni cosa che l'uomo realizza nella libertà della sua coscienza, ha un tale valore che Dio stesso potrebbe volerla per sé; cioè che ogni momento terreno ha tale grandezza da poter diventare eterno.
Naturalmente quanto simile discorso è entusiasmante nel suo risvolto positivo, tanto suona terribile nel suo lato negativo. Gesù ci lascia con questo sconcerto. Egli, però, non ritratta una sola virgola della sua rivelazione della buona, clemente, perdonante paternità di Dio.
►   Che cosa ci insegna la Chiesa, sull’Inferno?  (Cfr. Catechismo 1033-1037 – IV. L'inferno)
1 – Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo. Ma non possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di Lui, contro il nostro prossimo o contro noi stessi: «Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in sé la vita eterna» (1 Gv 3,14-15) ... Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l'amo-re di Dio, significa restare separati per sempre da Lui per nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola «inferno».
2 – Gesù parla ... della «geenna», del «fuoco inestinguibile» ... riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire e l'anima e il corpo. Gesù annunzia con parole severe: «Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente» (Mt13,41-42), ed egli pronunzierà la condanna: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!» (Mt 25,41).
3 – La Chiesa afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, il fuoco eterno». La pena principale dell'inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.
4 – Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l'inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l'uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7,13-14).
►   Se Dio è Amore, perché l’Inferno?

«Come si può concepire Dio-Amore, se permette la perdizione di esseri da Lui creati per amore? Nel Vangelo, a proposito di giudizio finale, Gesù afferma: "Andate lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e gli angeli suoi". 
Da tale espressione sembra che Dio sapesse che angeli e uomini avrebbero disobbedito, per cui già preparò per loro la pena eterna. Se così fosse, come si concilia con l'amore infinito di Dio?».
Il problema che si pone è cruciale anche oggi: perché mette in crisi l'oggetto stesso della fede cristiana: cioè: Dio-Amore e la sua buona novella di salvezza in Gesù, per tutti gli uomini. [Il tema “Predestinazione” ]
Il nostro Dio si è rivelato pienamente e definitivamente come Amore, come Padre. 
Infatti: «Dio usa pazienza verso di noi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi». «Se ci amiamo reciprocamente come Gesù ci ha amato, Dio rimane in noi, e l'amore di Lui è perfetto in noi... E questo amore scaccia il timore» (2Pt. 3,91 – Gv. 4, 12,17-18;).
Gesù è proprio morto e risorto per la salvezza di tutti gli uomini; è partito da questo mondo per “andare a prepararci un posto nel suo paradiso”.
Certo, il peccato continua ad essere commesso dagli uomini; la tendenza al male è sempre attiva nella storia dell'umanità e catastrofi del cosmo. E l'uomo con la sua libertà, terribile e meravigliosa, corre il rischio di ostacolare tale disegno di salvezza, di fallire il suo destino, di costruirsi il “suo inferno”: cioè questo dolore indicibile, che lo tiene separato per sempre dal suo Dio che lo ama, estraneo a tutti i suoi fratelli, in una orrenda solitudine, che si auto-genera eternamente, in opposizione al senso della sua vita nel mondo.
Per questo il magistero della Chiesa, fondato sulla Parola di Dio, da sempre ha affermato «l'esistenza dell'inferno», cioè la possibilità reale di fallimento definitivo dell'uomo. 
A tale riguardo, essa cita giustamente una frase, che trae dalla drammatica rappresentazione dell'ultimo giudizio dei popoli, fatta da Gesù. (cfr. Mt. 25, 31-46)
[Il genere letterario di questo testo rimanda alla cultura apocalittica, predominante al tempo del Signore: il testo di Gesù, pertanto, va letto come un discorso con tante figure, che rivela il criterio della ricompensa eterna nel giudizio finale; non quindi come descrizione, cronaca di ciò che accadrà alla fine dei tempi come il lettore sembra intenderlo] 
Questa lettura va accordata con la dottrina della morte eterna affermata in altri testi del Nuovo Testamento, in cui il giudizio di condanna di Dio va inteso esplicitamente come auto-giudizio del peccatore stesso. Non è necessario che Cristo condanni qualcuno; l'uomo basta a se stesso per perdersi, quando si sottrae all'offerta di salvezza (cfr. Gv. 3, 16-19:12, 47-50). I rigettati di cui si parla nel Vangelo di Matteo sono tali; non perché il Signore li collochi in quello stato – costruisca, cioè, per loro l'inferno –, ma perché loro stessi si sono preparati un destino di condanna, chiudendosi alle opere dell'amore fraterno verso gli ultimi, con i quali Gesù si identifica.
La difficoltà espressa dal lettore, insomma, nasce da un pensare che egli non tiene sufficiente-mente conto che Dio non vuole o crea l'inferno, ma che è l'uomo, con il suo libero e definitivo peccare, che si crea l'inferno.
Certo, Dio è l'eterno presente dell'Amore vivente per l'uomo, per la sua storia, per il suo fine. Dio è onnisciente ed onnipotente, ma questi attributi sono radicati nell'amore. Dio, in Gesù, non poteva amare di più la sua creatura-capolavoro, che chiedendo e donando la libera decisione nell'adesione al suo messaggio d'amore e di salvezza sconfinata. Dio vuole e lavora con la sua grazia per la salvezza; si aspetta la salvezza dell'uomo senza esclusioni. 
È significativo che la Chiesa – mentre sancisce, con la canonizzazione dei santi, la salvezza definitiva dei fedeli – mai ha osato emettere un verdetto di condanna definitivo per alcuno, [neppure su Giuda!).
Così possiamo pensare ed augurarci che nessun uomo sia giunto a quel destino tremendo, e dobbiamo lavorare e pregare affinché nessun uomo vi giunga.
►   SCOMUNICATI ANCHE NELL'ALDILA’?
«Vorrei sapere dove vanno a finire nell'aldilà coloro che muoiono scomunicati senza pentimento, come colui che dai pulpiti era detto il “diavolo in carne e ossa”, cioè Martin Lutero. Cambierà forse “appartamento", ora che la Chiesa l’ha riabilitato? … Più serenamente: Non vi pare che queste riabilitazioni postume siano una concessione al gusto corrente, col rischio di confondere le anime semplici?». 

Occorre distinguere bene tra peccato e pena giuridica, per districarsi nei problemi posti dalla domanda. 
–  La scomunica è una pena giuridica, riguarda cioè il buon ordinamento della vita comunitaria ecclesiale. In quanto tale, la scomunica non esclude la possibilità di salvezza eterna, e neppure la santità di una persona. In altre parole, la scomunica viene inflitta per gravi atti che provocano disordini o scandali. Con essa un fedele viene estromesso temporaneamente dalla comunione con la Chiesa, ed è privato di alcuni beni spirituali.
Ma anche se l'azione punitiva (la scomunica) è considerata giusta o anche doverosa da chi la commina, la pena inflitta non suppone necessariamente un peccato (= cioè che il soggetto sia un peccatore, un delinquente). 
E ben vero che il Codice di Diritto Canonico sancisce che «nessuno è punito se la violazione esterna della legge o del precetto da lui commessa non sia gravemente imputabile per dolo o per colpa» (can.1321 par. 1). Ma è pure stabilito che «posta la violazione esterna, l'imputabilità si presume, salvo che non risulti altrimenti» (ib. Par.3). Il che significa, in parole povere, che l'autorità può infliggere una pena quando vi è una grave violazione della legge, e che il colpevole può non riuscire a provare la sua buona fede o la retta intenzione.
Tutto ciò nella storia è capitato varie volte. Si pensi ad esempio alla scomunica inflitta dal papa Alessandro VI al domenicano Girolamo Savonarola (1452-1498). Questi fu condannato dai commissari apostolici come «eretico e scismatico» e consegnato al braccio secolare per essere arso vivo. Ciò non è sufficiente perché egli debba essere considerato un peccatore. Anzi ben presto molti conventi toscani ne celebrarono la festa liturgica ed alcuni domenicani hanno avanzato la richiesta all'Ordine affinché sia avviata la procedura per ottenere la sua canonizzazione. Anche le recenti affermazioni fatte dal Papa sulla religiosità di Lutero non sono entrate nel merito del giudizio storico sulla scomunica comminatagli. Essa aveva un significato disciplinare e riguardava il buon ordinamento della vita ecclesiale di quel tempo. Ciò non significa che la scomunica fosse la via migliore per regolare la vita comunitaria. Tant’è vero che l'attuale Codice di Diritto Canonico sancisce che «il legislatore non costituisca censure, soprattutto la scomunica, se non con la massima moderazione e soltanto contro i delitti più gravi» (canone 1318). In altri tempi s’era più inclini a comminare pene, con risultati aleatori, come la storia insegna. In ogni caso, anche oggi scelte come quelle di Lutero non sarebbero accolte con molto entusiasmo, e qualche pena gli sarebbe certamente comminata.
Ma per uscire dal terreno storico e tornare all'aspetto teorico della domanda, la scomunica non significa dannazione eterna, anche se chi è morto non ha sconfessato le azioni per cui è stato condannato. E quando la storia rivede giudizi o sentenze formulati in altri secoli, non v’è nessuna necessità che gli interessati debbano “cambiare appartamento”. La giustizia di Dio non conosce i limiti o i ripensamenti degli uomini.


►   Cristo discese negli Inferi 
«Quando recitiamo in Credo, proclamiamo che Gesù risorto “discese negli Inferi”. Che significa: discese agli Inferi? Mi sembra una cosa strana, se così fosse. E a fare che cosa?. Mi può schiarire le idee?».
È uno dei numerosi casi in cui ripetiamo formule della fede, senza comprenderne la sostanza, il senso, le implicazioni. Non è sempre colpa dei semplici fedeli; tutt’altro! 
Cerchiamo di essere concisi e possibilmente chiari, seguendo ciò che il Catechismo ci illustra (n. 632-635)
Le frequenti asserzioni del Nuovo Testamento secondo cui Gesù «è risuscitato dai morti» (1Cor15, 20) presuppongono che, prima della risurrezione, egli abbia dimorato nel “soggiorno dei morti”. 
È il senso primo che la predicazione apostolica ha dato alla discesa di Gesù agli “inferi”: cioè, che Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti, con la sua anima, nella “dimora dei morti”. 
La Scrittura chiama inferi (Shéol) il “soggiorno” dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovavano erano privi della visione di Dio. Naturalmente noi immaginiamo un “luogo”, perché siamo abituati così, avendo un corpo che occupa spazio, ma le anime sono spirito! Più rettamente dovremmo parlare di “condizione”, di “stato”. [Ciò si applica anche a “inferno”, “paradiso”, “limbo”, ecc.]
Tale infatti era, nell'attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti – cattivi o giusti –.” Tutti”, d’altra parte, non significa che la loro sorte fosse identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro: soltanto lui accolto nel «seno di Abramo». «Furono soltanto le anime di questi giusti in attesa del Cristo ad essere liberate da Gesù disceso all'inferno». Gesù, infatti, non discese agli inferi per liberare i dannati né per distruggere l'inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l'avevano preceduto.
In proposito, il Catechismo:
634 «La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti...», scriverà san Pietro (1Pt 4,6). La discesa agli inferi è... la fase ultima della missione di Gesù, fase condensata nel tempo ma che si estende a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione.
635 Cristo, quindi, è disceso nella profondità della morte affinché i «morti» udissero «la voce del Figlio di Dio» (Gv 5,25) e, ascoltandola, vivessero. Gesù, «l'Autore della vita», ha ridotto «all'impotenza, mediante la morte, colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo», liberando «così tutti quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb2,14-15). Ormai Cristo risuscitato ha «potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,18) e nel nome di Gesù ogni ginocchio – si piega – nei cieli, sulla terra e sottoterra» (Fil 2,10)


Come possiamo immaginare il PURGATORIO?
«Rev.mo Padre, mi interessa molto sentire parlare del Purgatorio, soprattutto per il dubbio che ho, cioè che molte persone a me care possano esserci... Non le nascondo anche qualche dubbio sulla stessa esistenza del Purgatorio: è difficile capire come la misericordia di Dio permetta questo stato di sofferenza, e un gruppo di protestanti mi ha aumentato tale dubbio. Poi, mentre per l'Inferno il Vangelo ha delle precisazioni (parla di fuoco, pianto, stridore di denti...), resta più difficile immaginare le pene del Purgatorio». Ferrara

Innanzitutto, mi preme sottolineare la sicura esistenza di questo stato provvisorio, molto impor tante da tener presente per le nostre preghiere di suffragio e anche di impetrazione, dal momento che si tratta di anime in grazia di Dio, che hanno una grande forza d’intercessione per noi, con le loro preghiere.
La Bibbia non ne parla direttamente, ma contiene vari accenni che ne suppongono l'esistenza, tanto che Leone X condannò la tesi di Lutero, secondo cui l'esistenza del Purgatorio non potrebbe essere provata dalla sacra Scrittura (Denz. 777). Molte volte la Bibbia ribadisce il concetto che, anche dopo che un peccato è stato rimesso, restano da espiare delle pene temporali. Ed insegna pure che, quando tali pene non sono state scontate in questa vita, si scontano nell'altra.
E molto chiaro, a questo proposito, è quanto si legge nel libro dei Maccabei (Il Macc. 12,43 e seg.). All'indomani di una battaglia vittoriosa, il condottiero che guidava la rivolta contro il tentativo di “paganizzare” i Giudei, Giuda Maccabeo scoprì che, sotto gli abiti dei suoi soldati caduti in combattimento, vi erano degli oggetti idolatrici, che essi avevano rubato durante il saccheggio, contravvenendo alle disposizioni della legge. Guida, allora fece una colletta e la mandò a Gerusalemme, affinché fosse offerto un sacrificio in espiazione per quei peccati. Agì così perché, da uomo pio e religioso qual era, credeva nella resurrezione della carne: se infatti non avesse avuto questa certezza, sarebbe stato inutile pregare per i morti. 
Il sacro autore approva l'operato del grande condottiero e vi aggiunge una propria osservazione: «È un pensiero santo e salutare quello di pregare per i morti, perché siano liberati dai loro peccati».  
Anche nei Vangeli leggiamo che il Signore allude al Purgatorio quando afferma che vi sono dei peccati (i peccati veniali) che possono essere perdonati nell'altra vita (Mt 12,32). E pure chiaro il testo di s. Paolo (2 Cor 3,11-15) ove si afferma che Cristo, al giudizio, vaglia le nostre opere: quelle difettose ne soffriranno danno, ma l'autore di esse «sarà salvo, come passando per il fuoco». (Da qui alcuni autori hanno pensato che anche in Purgatorio ci fosse un fuoco purificatore).
•  Si noti che la fede della Chiesa nel Purgatorio risale ai primi tempi e troviamo un'esplicita definizione di questa realtà fin dal Medio Evo. Nella professione di fede dell'imperatore Michele Paleologo, che fu accettata dal 2° Concilio di Lione (a. 1274), si dichiara che «le anime separate dal corpo nel pentimento e nella carità, dopo la morte, vengono purificate con pene purificatrici». Tale dichiarazione fu ripetuta dal Concilio Fiorentino (a. 1439) e più tardi dal Concilio di Trento (a. 1545-1563) che, per combattere la negazione dei protestanti, riaffermò l'esistenza del Purgatorio (Denz. 983).
Non ci pare neppure difficile conciliare questo stato con la misericordia di Dio che ci vuole tutti salvi, ossia tutti in Paradiso. È proprio un grande atto di bontà quello di offrire la possibilità, a quanti non hanno completato la loro purificazione sulla terra, di potervi rimediare nell'altra vita. 
Certo, l'esistenza del Purgatorio è pure un invito per noi a non commettere peccati veniali, a purificarci per le nostre mancanze dovute a debolezza, e quindi ad attuare una continua conversione. 
Che ciò avvenga con sofferenza, fa parte di quel mistero che trova nella Croce la più alta espressione.
•   Piuttosto, è più arduo farci un'idea delle pene del Purgatorio, come non possiamo farci un'idea dello stato futuro, se non per via di qualche analogia. 
Un'osservazione che ci pare molto suggestiva è quella di un Vescovo, che è fu impressionato, studiando le sofferenze descritte dai mistici, quando parlano della «notte dei sensi e dello spirito» [san Giovanni della Croce]. Il vescovo pensa che tale “notte” possa dare un'idea delle pene del Purgatorio. Si tratta infatti di uno stadio di purificazione, in cui l'anima si sente immensamente distante da Dio, di cui intuisce la santità assoluta, mentre d'altro canto prende coscienza piena della propria miseria, dello squilibrio che il peccato ha prodotto in lei. Ella, perciò, sperimenta il bisogno impellente, quasi tormentoso, di purificarsi per potersi riunire al suo Signore.

È una pallida idea dello stato del Purgatorio e, ripetiamo, può valere solo come analogia, perché non esiste un paragone adeguato tra lo stato nostro presente e quello dell'altra vita. Ma ci pare che veramente la «notte dello spirito» ci possa offrire un po' di luce su quelle che possono essere le pene del Purgatorio.






lunedì 17 novembre 2025

Ciclo su Giulio Quaglio il Giovane (1668-1751) didascalie poetiche di Padre NICOLA GALENO OCD





ACCENDERE UNA PICCOLA LAMPADA dall'Ordine Secolare Carmelitano


 Un uomo al termine della sua giornata densa di impegni era solito compiere un gesto quasi a mettere un sigillo a quanto fatto nelle ore precedenti.

         Ogni sera, entrava nella sua camera, accendeva una piccola lampada d’olio e la poneva davanti all’icona del Cristo posto in un angolo, rimanendo per qualche minuto in una attenzione amorosa e silenziosa di fronte a quella luce.

         Il gesto catturò l'attenzione di tanti suoi amici: “Perché accendi la luce davanti all'icona?” A cosa serve?"

       L'uomo rispose: “Perché temo che la luce in me diventi tenebra: se perdo la luce perdo il senso e il significato del mio agire nella vita”

       E proseguì: “La lampada del corpo è l’occhio, ma l’occhio si oscura se il cuore si spegne. Chi non custodisce la propria luce con umiltà, fede, speranza e qualche volta con lacrime perde la luce senza accorgersene.” 

       Gli amici rimasero in silenzio, e qualcuno  pianse: improvvisamente presero coscienza che il loro agire nella vita non aveva la luce che dava un senso.

L'uomo concluse dicendo: “Questa luce non è nostra, ma ci è stata affidata. Questa luce non si difende con la forza, ma abbandonandosi al soffio dello Spirito.

La bellezza non è nel viso;

la bellezza è avere una luce nel cuore…

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"Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio,

ma sopra la lucerna perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa."

(Vangelo di Matteo 5, 14-16)

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"Chi non vuole altra cosa che Dio , non cammina nelle tenebre,

 per quanto si veda povero e al buio."

(S.Giovanni della Croce)


domenica 16 novembre 2025

La privatizzazione del futuro e i suoi disertori di Padre Mauro Armanino

La privatizzazione del futuro e i suoi disertori


(Il 1984 è stato un anno bisestile caratterizzato da eventi storici significativi, progressi tecnologici e sviluppi nella cultura popolare, ma il 1984 fu l'anno in cui si svolgeva l'omonimo romanzo distopico di George Orwell, pubblicato nel 1949. L'anno reale non vide l'avverarsi delle peggiori profezie del libro su una società di sorveglianza totalitaria, ma la coincidenza della data stimolò molte riflessioni culturali sul controllo statale e sulla manipolazione della verità.)

Chi controlla il presente controlla il passato. Chi controlla il passato controlla il futuro. Lo scrisse il romanziere e militante George Orwell nel suo libro dal titolo ‘1984’. Ci troviamo nell’altro millennio e siamo testimoni più o meno consapevoli del progressivo spossessamento del futuro dei poveri. Si trovino essi nella parte ‘sud’ o ‘nord’ del mondo così com’è stato ridotto in questi ultimi decenni della storia. La tragedia provocata delle oltre 50 guerre in atto nel pianeta e la conseguente creazione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo non è altro che un futuro trafugato e che mai più troverà dimora. La strategia di controllo mirato e spesso istituzionalmente violento delle migrazioni internazionali conferma, specie nelle migliaia di morti alle frontiere, l’arbitraria e spesso definitiva sottrazione del futuro a che aveva il diritto di cercarlo altrove. Non c’è nulla di più grave, nella vita umana, della confisca o dell’esproprio del futuro. Prendere come ostaggio il futuro di un popolo, di una classe sociale o di età è commettere un crimine le cui conseguenze sono irreparabili.

Non casualmente i politici, i generali, i commercianti e i religiosi promettono, ognuno a suo modo, un futuro differente ai sudditi, cittadini, fedeli o semplicemente clienti. Passato, presente e futuro si giocano nell’oggi che sfugge per distrazione, manipolazione o per scelta. I tempi sono stagioni che abbiamo comunque vissuto, sperato e atteso nell’apertura all’inedito di un futuro che pensiamo possibile. Tutti inconsciamente crediamo, come fanno i contadini, che si seminano oggi i grani conservati dal passato per raccoglierne, domani, i frutti. Si ha fiducia che il futuro non sia totalmente deciso o addirittura precluso dal luogo della nascita o dalle circostanze avverse del destino. Attentare alla speranza che domani non sia la banale ripetizione dell’oggi o di quanto già vissuto nel passato ma avventura di un altro mondo possibile è il più spietato dei genocidi. ‘Della perdita del passato’, dice in un romanzo lo scrittore libanese-francese Amin Maalouf, ‘ci si consola facilmente, è dalla perdita del futuro che non ci si riprende’.

L’orchestrata rapina del futuro passa anche attraverso la propaganda, la società dello spettacolo, le ideologie millenariste che si ostinano a promettere la felicità e l’eldorado per domani. Prima però sono necessari sacrifici, rinunce e sofferenze. Domani, certamente, arriverà Godot, personaggio enigmatico nel teatro dell’assurdo dell’irlandese Samuel Beckett. Godot non arriverà mai sulla scena e i due protagonisti passeranno il tempo in una tragica attesa senza futuro. Si mutila il futuro dei poveri tradendone i sogni con politiche economiche basate sull’esclusione e la morte. Si instilla nell’educazione in famiglia e negli istituti scolastici la paura del futuro perchè non controllabile o semplicemente incerto. L’inverno demografico dell’occidente economicamente abbiente non è che un sintomo, peraltro di un’eloquenza unica, dell’espulsione del futuro di un’intera civiltà. Non è dunque casuale che, nella presente fase storica ci sia una moltiplicazione di campi di detenzione per i migranti e carceri contestualmente saturate. In entrambi i casi il futuro è letteralmente sospeso o spento.

Fortuna ci sono loro, i disertori. Non seguono le indicazioni di percorso tracciate anzitempo dai maestri del tempio e i dottori della legge. Non aderiscono ai progetti confezionati o ai piani stabiliti dagli illuminati del sistema o l’intelligenza artificiale. Tra loro si trovano i poeti e i resistenti di ogni tipo che ridanno senso, gusto e vita alle parole cadute in disuso. Disertano come possono i paradisi occasionali e tutto ciò che sembra assicurare il successo. Si contano numerosi tra i marginali e in genere i poco importanti della società che conta. Non hanno fatta propria l’arte della guerra. Vivono nella loro patria ma come stranieri, ogni patria straniera è patria loro e ogni patria è straniera.


 educatori, sacerdoti e Vescovo. 

Sestri Ligure

  Mauro Armanino, Casarza Ligure, novembre 2025

LE ULTIME REALTA' - PECCATO-GIUDIZIO - Quarta Conferenza di PADRE CLAUDIO TRUZZI OCD



LE ULTIME REALTÀ [I “NOVISSIMI”]

4 – PECCATO-GIUDIZIO

► “BRUTTO COME IL PECCATO”
«Si sente spesso dire: “È un peccato!”, oppure “Che peccato!”. Tale espressione, tipica della nostra cultura italiana, è usata per le situazioni più differenti, ma pare che non abbiano nulla a che fare con quello che veramente s'intende per peccato. Anzi, ne sviliscono il senso o la stessa realtà. Sbaglio?»

Infatti il termine peccato è adoperato per un'incredibile quantità di significati: È un peccato, una giornata piovosa, come un piatto rotto. Spesso per dare più peso all'espressione si dice che «è proprio un peccato!». Ma tale inflazione di “peccato” e di “peccati” fa correre il rischio di perdere il vero significato del termine e, si sa, quando tutto è peccato, niente è peccato. 
–  Come lo definisce il Catechismo? [1851]: «...Come il primo peccato, è una disobbedienza, una ribellione contro Dio, a causa della volontà di diventare «come Dio» (Gn 3,5), conoscendo e determinando il bene e il male. Il peccato, pertanto, è amore di sé fino al disprezzo di Dio. Per tale esaltazione di sé, il peccato è diametralmente opposto all'obbedienza di Gesù, che realizza la salvezza». [Cfr in appendice; Catechismo: IL PECCATO]
–  Il peccato secondo il Vangelo
Nei libri dell’Antico Testamento – e questo forse può sorprendere – non c'è nessuna parola che significhi peccato in cui oggi lo s'intende e lo definisce il Catechismo.
• I termini che si trovano nella Bibbia corrispondono ad infedeltà – intesa come la rottura di un patto –, ad iniquità, deviazione, ribellione –, tutti intesi come infrazioni di un ordine sociale e religioso.
• In seguito, con il fariseismo (corrente spirituale contemporanea a Gesù), si ebbe un'esasperazione di simile concetto di “peccato”. I farisei stabilirono in ben 613 i precetti dati da Mosè, di cui 365 proibizioni e 248 obbligazioni, con una scrupolosa attenzione per le norme riguardanti la “purezza rituale”, l'osservanza del riposo in giorno di sabato e tutti i numerosi tabù su ogni aspetto della sfera sessuale.
† Si deve purtroppo a tale periodo e al movimento farisaico la nascita di alcuni concetti che s'infiltreranno, inquinandola, anche nella spiritualità cristiana, come: 
– l'immagine del “dio-contabile”.  Un dio “vendicativo” che, con estrema pignoleria, scrive tutte le azioni dell'uomo in un libro, per poi enumerargliele al momento del giudizio;
– o l'idea del Dio che, già durante la loro esistenza terrena, ricompensa i buoni secondo i loro meriti e punisce i malvagi per le loro colpe. [Es., il caso del Cieco nato, del Vangelo – E noi: “Che cosa ho fatto di male, perché Dio mi castighi mandandomi …!”]
Quando poi i Farisei si resero conto che i malanni, le disgrazie, non colpivano soltanto i cattivi, ma pure i buoni, elaborarono la dottrina dell’“espiazione vicaria”, cioè il principio secondo cui, quando Dio invia una punizione per i peccati degli uomini, essa cade prima sui buoni. Si legge infatti nel Talmud:
«Quando in una generazione vi sono dei giusti, i giusti sono puniti per i peccati di quella generazione; se non vi sono dei giusti, allora i bambini che vanno a scuola soffrono per il male del tempo» (Shab. 33b).
•  Gli Evangelisti, invece, si distaccano in maniera abbastanza netta sia dal senso di colpa dell'Antico Testamento sia da quello dei contemporanei di Gesù, per i quali il peccato era un'offesa contro Dio.
Per cogliere il significato di peccato, come essi l’intendevano, esaminiamo i termini usati per indicarlo.
1 – Il primo aspetto che stupisce è la piccola parte che vi hanno proprio le considerazioni sul peccato e sulla sua natura. Probabilmente perché Gesù, pur riconoscendone la realtà, non ha parlato del peccato.
Delle tante parole con cui la lingua greca, in uso all'epoca della stesura dei vangeli, poteva indicare il “peccato” nelle varie sfumature, gli Evangelisti escludono la parola iniquità (= l'azione contro la Legge). Il termine “iniquità”, nei Vangeli, si trova presente soltanto 4 volte – tutte in Matteo –, ed è da Gesù applicato ai falsi profeti, agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 7,23; 13,41; 23,28; 24,12).
2 – Ugualmente escluso dal Vangelo è il termine “disubbidienza”, intesa come trasgressione di un comandamento. Ne deriva che la norma di vita del cristiano non si fonda nella fedeltà ad un codice scritto, ma alla persona di Gesù. Il credente non è chiamato all'ubbidienza ad una Legge, ma alla somiglianza al Padre. 
3 – È assente pure l'idea di peccato come mancanza ad un dovere, e pure quella di peccato involontario.
A questo punto, che cosa rimane?
Restano solo tre termini che gli evangelisti usano per indicare la realtà del peccato. 
1 – Il più importante è quello indicato con un termine greco (Amartya) che significa letteralmente mancare il bersaglio/ sbagliare direzione, e nei Vangeli riguarda sempre il passato dell'uomo, prima del suo incontro con Gesù e con il suo messaggio. È usato per indicare una vita contraria al progetto che Dio propone, un rifiuto del dono di vita che il Padre fa, una vita ingiusta e deviante. 
Questo peccato può essere cancellato mediante la conversione e l'adesione a Gesù. La fede in Gesù – che è l'accoglienza di Lui e del suo messaggio – cancella il passato peccatore dell'uomo: «Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: Figliolo, ti sono cancellati i tuoi peccati» (Mc 2,5).
2 – Inoltre, per indicare il peccato ci sono altri due termini: azione ingiusta (disonestà) e caduta (mancanza) 
che riguardano il presente dell'uomo dopo l'incontro con Gesù, e sono usati per indicare le mancanze commesse verso gli uomini. Tali colpe sono cancellate perdonando le mancanze altrui – secondo l'insegnamento di Gesù: «Se voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi» (Mt 6,14). È certo singolare osservare come gli evangelisti indichino il peccato – ciò che incrina o può spezzare il rapporto con Dio –, esclusivamente come atteggiamento ingiusto e dannoso verso il prossimo, una rottura della relazione con gli altri uomini, e mai verso Dio.
Nei Vangeli non si prendono, quindi, in considerazione le mancanze cultuali o rituali, ma esclusivamente atteggiamenti che possono portare danno all'altro. Gesù insiste sulla preminenza della misericordia verso gli uomini e non sul sacrificio a Dio, e che il bene e la felicità degli uomini prevalgono sull'osservanza della Legge. Egli sostiene con forza che ciò che rende “impuro” l'uomo – e che pertanto rompe il contatto con Dio –, sono gli atteggiamenti ingiusti verso il prossimo: «cattivi pensieri, prostituzione, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, frode, lascivia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7,21-22), e non la trasgressione di determinati riti o la non-osservanza di precetti religiosi. Precetti che il Signore dichiara di provenienza umana, invenzioni degli uomini (Mc 7,7.8.13). È, infatti, condannato adirarsi contro il proprio fratello (e la riconciliazione diviene più importante dell'atto cultuale); è condannato criticare e giudicare. Tutta la Legge è condensata non in atti cultuali ma in quello che si fa agli altri: «Tutte le cose, dunque, che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la Legge ed i profeti» (Mt 7,12).
Quindi, essenziali per ottenere la vita eterna s'indicano solo quei comandamenti e precetti che riguardano i doveri verso gli uomini: «Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai falsa-mente, onora il padre e la madre, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,18-19), omettendo quelli – considerati, allora importantissimi –, che riguardano gli obblighi verso Dio. 
L'atteggiamento di quei pii e devoti che preferiscono rifugiarsi nel culto verso Dio a scapito del bene concreto al prossimo, è denunciato come falso e sterile, tanto che nel giudizio dei pagani, non sarà chiesto conto alcuno della loro fede, bensì di quegli elementari atteggiamenti di solidarietà tenuti verso l'altro, quali dar da mangiare, da bere, vestire, ospitare, assistere gli infermi e i carcerati (Mt 25,31-46).
•   Quindi, dall'esame dei Vangeli, il peccato si mostra come quell'atteggiamento volontario, dettato dall'egoismo, col quale l'uomo ignora l'esistenza degli altri uomini, se non nell'usarli per il proprio interesse.  
Tale è il peccato dell'umanità, l'ostacolo alla realizzazione della volontà di Dio, che il Concilio definisce «una diminuzione per l'uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza» (GS 1,13).
Lo stesso concetto, la saggezza popolare l'ha formulato con l'espressione "brutto come il peccato". Il peccato è brutto, perché rende brutti. E Gesù: «La lampada del corpo è l'occhio: perciò, se il tuo occhio è buono, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso» (Mt 6,22-23).
Sicché si può concludere che il peccato fondamentale non è tanto trasgredire questo o quell'altro comandamento o precetto, quanto è il non accogliere il dono della vita per portarlo al suo compimento. Da qui il severo rimprovero del Signore: «Conosco le tue opere: tu non sei ne freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo. Ma poiché sei tiepido, non sei cioè ne freddo ne caldo sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,14-16).  
Purtroppo, è lo stile assunto da tanti cristiani: la “via di mezzo”, che pare essere la migliore: «Non sono né santo, ma neanche “peccatore”; non rubo, non ammazzo...; per il resto, sa com'è...». La “via di mezzo”, quella della mediocrità o della tiepidezza, è più pericolosa – agli occhi del Signore – di quella del peccato. Questi, proprio dall'amarezza e dall'inquietudine che nasce dalla sua triste situazione, può trovare il desiderio di con-versione, può incontrare il Signore, perché «dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata» (Rm 5, 20), ma per la persona “tiepida”, e che per di più si “sente a posto col Signore e coi fratelli”, non c’è rimedio, perché il Signore non è venuto a chiamare i “giusti”, ma i peccatori (Mt 9,13).  Per questi, invece, c'è sempre speranza, grazie a quel Dio che «ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti» (Rm Il,32).

► “PECCATO”, MA ESISTE ANCORA?
«Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te!»  (Lc. 15, 17)
L'ammissione del “figliol prodigo” avviene al termine di una riflessione, provocata, sì, da una situazione di disagio divenuto disumano, ma sostenuta ed illuminata da un ricordo: «Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza ... ». È la memoria dell'amore, del bene nella casa del padre che fa sbocciare il desiderio del ritorno, ma pure fa comprendere al figlio la natura del suo agire: si è reso indegno d’essere figlio.
 Nella presa di coscienza del peccato e nella sua definizione è indispensabile, quindi, il riferimento a Dio. 
Il peccato, infatti, è essenzialmente una realtà religiosa, perché tocca il rapporto della persona con Dio; è un rifiuto, un'offesa, un “no” detto coscientemente e liberamente. Per il cristiano, il “no” è rottura dell'Alleanza offerta da Dio e rifiuto della chiamata di Dio al dialogo con Lui e con gli altri. Però...
Che gran confusione!
Confusione, sì! Perché anche tra i cristiani si tende a ridurre il peccato: – a semplice trasgressione di leggi – a identificarlo con il senso di colpa  –  a considerarlo un incidente inevitabile. 
Perciò molti cercano di rimuoverne dalla memoria, e si accostano al sacramento della penitenza semplice-mente per “mettersi la coscienza in pace” o “sentirmi a posto” o “perché serve a ottenere l’indulgenza” (!).
Pio XII osservava – già negli anni '50 – che il peccato più grave che si andava diffondendo era la crisi del senso del peccato, l'attenuarsi nella coscienza della percezione della sua gravità.
Anche tra gli anziani si sente affermare che “Oggi è tutto lecito”, che anche la “Chiesa è cambiata”: prima tutto era peccato, oggi è permesso tutto! E gli studiosi parlano di “cultura dell'innocenza”.
Ma è proprio vero che “Non c'è più religione?”, “Che tutto è permesso?”. Da che cosa sarebbe causata questa nuova mentalità; ma, vi sono solo elementi negativi?
•  La crisi del senso del peccato, oggi
Pur nel vorticoso e frenetico evolversi dei costumi e delle culture è possibile individuare alcuni fattori che più hanno peso nel determinare l'attuale crisi del senso del peccato. Ecco una breve analisi.
La perdita del riferimento a Dio
* In una società permeata di sacralità, di religiosità, il divino si rivelava operante nelle leggi della natura, nei misteri della fecondità e nello sviluppo della vita, nell'organizzazione sociale e nell’autorità, nella cultura e nell'arte, nella guerra e nella politica... Tutta la vita del gruppo era circondata da una sacralità, per la quale l'uomo si trovava in contatto con il divino, sorgente di vita, di sapienza, di potere e di diritto.
*  In una società secolarizzata [la nostra], invece – in un mondo in cui la scienza e la tecnica hanno disincantato, desacralizzato la natura fisica e i misteri della vita, della fecondità e dello sviluppo psicologico dell'uomo –, il riferimento diretto a Dio tende a smorzarsi. Così come l’autorità familiare e politica, e tutta l'organizzazione sociale, non sono più sentite come un'emanazione diretta del divino e, quindi, qualcosa di sacro e inviolabile. Parimenti, l'incontro di culture diverse ha portato alla “scoperta” di sistemi morali differenziati, incrinando l'idea di una morale unica ed assoluta.
Tale nuova concezione dell'uomo pone in crisi la concezione del peccato come pura mancanza alla legge. Si reclama, invece, il valore e la dignità della persona, la responsabilità dell'uomo nella costruzione dell’avvenire suo e del mondo, denunciando l’inattività e la connivenza di fronte a situazioni e leggi ingiuste.
“Tutti colpevoli” (la società), “nessuno colpevole” (l'individuo).
La presa di coscienza dei rapporti d’interdipendenza tra i popoli, del potere di organizzazioni internazionali (sia economiche sia sociali e culturali) tende a far percepire le responsabilità politiche su scala mondiale. Allo stesso tempo, però, si evidenzia il potere delle strutture sulla vita personale, favorendo un senso d’impotenza per la sproporzione tra persona singola e la vastità del raggio d'azione di tali organizzazioni. 
È facile allora la colpevolizzazione collettiva, che demanda ad un’entità astratta (la società) ogni responsabilità e fa sentire il singolo meno colpevole, lasciandolo nella sterilità di una denuncia generalizzata, quanto inconcludente.
•   Discorso “difettoso” sul peccato
Come se ciò non bastasse, anche “chi parla del peccato” può contribuire non solo a confondere le idee, ma pure a farne perdere il senso. Accenniamo a qualche esempio:
–  si considera il peccato come una condizione quasi necessaria affinché l'uomo scopra la propria povertà e si apra incondizionatamente alla salvezza;
–  si parla del peccato accusando gli altri, per scusare se stessi: la colpa sarebbe del diavolo, d’Adamo ed Eva… del Papa, vescovi, preti, ecc, ecc;
–  s’insiste sulla fragilità della natura, e si dimentica la Grazia che Cristo ci ha donato per farci liberi;
–  oppure si pronunciano discorsi sulla gravità del peccato; si insiste sul castigo, senza lodare la misericordia di Dio che non cessa di offrirci il Suo aiuto;
–  si elencano più i peccati contro le leggi e i precetti, trascurando quelli di mancanza d’amore, gratitudine e lode vera a Dio… L'elenco potrebbe continua
•• La contestazione del nostro modo di parlare del peccato, tuttavia, esprime l'esigenza, magari inconscia, di ascoltare la Rivelazione che di esso Dio fa all'uomo.  
E, ancora, esigenza di ritorno alla Parola dove il peccato è sempre letto in relazione a Dio e ai fratelli:

► “PIENA AVVERTENZA”: CHE SIGNIFICA?

«Il catechismo afferma che: il «peccato mortale è una disobbedienza a Dio in materia grave, fatta con piena avvertenza e deliberato consenso (n. 1857). 
Ma che cosa significa esattamente "piena avvertenza..."?».
Per poter parlare di peccato “mortale” non basta che una determinata azione sia in grave contrasto con la volontà di Dio, ma occorre che vi sia coinvolta la responsabilità personale. 
Ora, responsabilità, come sappiamo, comporta innanzitutto l’essere consapevoli di ciò che facciamo e delle conseguenze che ne derivano. Applicata al nostro problema, "piena avvertenza”. allora, vorrà dire essere pienamente consapevoli che quella determinata azione è in grave opposizione al comandamento di Dio e che, di conseguenza, ci porta lontano da Lui.
Scendendo al concreto, “piena avvertenza” significa: 
a – In primo luogo essere pienamente presenti a noi stessi quando compiamo una data azione. E questo, ovvia-mente, dipenderà dalla presenza di certe condizioni fisiche: uso di ragione, stato di veglia, sanità mentale, ecc. Ad esempio, è evidente che un bambino, sprovvisto dell'uso di ragione, oppure un adulto immerso nel sonno, non possono essere presenti a se stessi e, quindi, non possono essere responsabili delle azioni che compissero. Così si dice delle azioni compiute durante il dormiveglia, in stato di ebrezza o di grave alterazione mentale, dovuta a forte eccitazione passionale oppure agli effetti della droga, ecc. In tali casi si può avere l'impressione di essere presenti a se stessi, ma in realtà tale presenza o manca, oppure è notevolmente ridotta. Per cui il peccato non lo si dovrà cercare nelle azioni compiute durante gli stati suddetti, ma casomai più a monte, cioè nell’essersi posti spontaneamente in tali condizioni, pur sapendo le gravi conseguenze che ne potrebbero derivare.
Tuttavia, per poter parlare di peccato “mortale” non basta essere presenti a se stessi. 
Non dimentichiamo che il peccato mortale, come suggerisce la parola, comporta conseguenze estreme per chi lo commette. Perciò la piena consapevolezza, da esso richiesta, dovrà comportare anche la capacità concreta di valutare una data azione in tutta la sua portata morale. In altre parole, non sarà sufficiente avere avuto notizia del messaggio cristiano, ma si richiederà che tale messaggio abbia fatto presa nella coscienza della persona tale da diventare il giudice interiore delle sue azioni. 
Ora, nella vita concreta tale presa di coscienza incontra difficoltà che non si posso trascurare. 
Innanzitutto, si deve riconoscere che per loro natura le indicazioni della morale cristiana – data la forte resistenza che incontrano da parte dei nostri istinti e data la complessità delle situazioni che la vita moderna presenta – richiedono un certo tempo per essere assimilate. Tale difficoltà, oggi soprattutto, è notevolmente  accresciuta dalla confusione di idee che si è creata in campo morale e dalla erosione lenta ma inesorabile del-le coscienze, operata da stampa, radio, televisione, ecc. È un fatto che per il cristiano comune diventa  sempre più difficile smascherare i falsi argomenti, con cui la morale laica cerca di giustificare le proprie posizioni.
A tutto questo s’aggiunga la pressione psicologica che ad un certo momento viene esercitata sulle coscienze da parte della mentalità collettiva, cioè dalla constatazione che "fanno tutti così". 
È un altro dato innegabile che l'uomo comune è fortemente condizionato dall'ambiente.
•   Simili constatazioni dovrebbero indurci ad un atteggiamento nuovo verso le persone: un atteggiamento veramente evangelico. Una cosa, infatti, è la capacità di rispondere dei propri atti davanti a Dio; altra cosa, invece, sarebbe la pretesa, o anche la semplice tentazione, di voler giudicare la coscienza dei nostri fratelli. Tale giudizio infatti, ci avverte Gesù, spetta solo a Dio. 
Attenzione! Ciò riguarda il giudizio sulla persona, ma non il fatto in se stesso: se è l’azione è sbagliata, è sbagliata! Bontà non equivale a buonismo! Gesù assolve le persone [“Padre perdonali perché non sanno ciò che fanno!”], ma nel contempo non lesina un giudizio severo sulle azioni malvagie!]  
►    SENSO DI COLPA.  CHE COS’È?
«La coscienza è la voce di Dio che ci rimprovera se compiamo il male. Ora, come può un’educazione errata alterarne la voce e renderci colpevoli quando non lo siamo? Al contrario, come mai se non abbiamo avuto una giusta educazione, possiamo fare del male senza che la coscienza ci rimproveri? 
Che cosa è dunque il senso di colpa?».
In poche righe sono posti molti problemi, e tutti importanti. 
•  Iniziamo dalla definizione di coscienza come “voce di Dio”. La formula è metaforica e non deve essere, perciò, intesa in senso proprio. In realtà la coscienza può diventare eco della voce di Dio, ma non lo è per nascita. D’'altra parte non lo diventa automaticamente solo con il passare del tempo. È necessaria un’attenta formazione affinché la coscienza possa cogliere le leggi del bene iscritto nelle dinamiche delle cose. La voce di Dio, infatti, risuona nella coscienza, solo attraverso gli echi della storia e delle esperienze. Gesù rimproverava ai contemporanei di non avere maturato una coscienza retta: «Siete capaci di capire l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?». 
Il fatto che: “Io la penso, sono convinto, sento così… non è automaticamente “retta coscienza”! Anzi!”.
La formazione della coscienza deve costituire il primo impegno d’ogni persona che voglia vivere serenamente ed imparare a decidere in modo autonomo secondo il bene. La preoccupazione principale degli educatori [e genitori] dovrebbe essere quella di stimolare nei giovani il senso del bene.
•  Che cosa è allora il senso di colpa? 
È la reazione che una “coscienza bene formata” ha di fronte al male compiuto (o supposto tale). 
Quando, però, un'educazione imperfetta ha presentato come male ciò che invece non lo è, il senso di colpa può sorgere anche dopo azioni buone o indifferenti. 
E quando un'educazione inadeguata ha presentato come buone azioni cattive, il senso di colpa può essere assente anche dopo aver compiuto il male. Il senso di colpa, perciò, non è un criterio sufficiente per giudicare il bene e il male della nostra vita, ma è un semplice indizio.
Esso deve stimolarci ad esaminare più in profondità le azioni compiute, per individuarne le motivazioni e soprattutto le conseguenze per la crescita personale. L'adeguato e definitivo criterio delle scelte umane è costituito dai frutti vitali. Diceva Gesù dei falsi profeti: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,16). I frutti vitali sono la maturazione personale, la capacità di amare, la forza di sopportare il dolore, la facilità di perdonare ecc.: in una parola la crescita dell'uomo interiore. I frutti delle azioni, però, non appaiono subito: alcuni mali, conseguenti a scelte errate, si manifestano solo dopo lungo tempo.
D’altra parte, non è possibile agire solo quando si conoscono, per esperienza propria, le conseguenze di ogni azione. Se si vuole acquisire una retta coscienza, perciò, 
– è indispensabile imparare ad analizzarsi, 
– è essenziale misurarsi con le leggi per valorizzare le esperienze passate, 
–è necessario dialogare per confrontarsi con risultati di altri comportamenti.
Così s’impara ad accogliere le invenzioni che il Bene cerca costantemente d’introdurre nella storia umana.

BENVENUTO|

Il Paradiso non può attendere: dobbiamo già cercare il nostro Cielo qui sulla terra! Questo blog tratterà di argomenti spirituali e testimonianze, con uno sguardo rivolto al Carmelo ed ai suoi Santi