Ipocrisie, sofferenze e profezie nel quotidiano
Assistiamo e talvolta operiamo come attori consumati in una quotidiana commedia che poi, abusivamente, chiamiamo storia. L’ipocrisia è proprio questo continuo recitare parti, copioni o improvvisando, sul palcoscenico dell’effimero. Si programmano e, infine, producono bombe, armi, missili e si ricomincia a parlare di test atomici come eventuale deterrente per il prossimo nemico. Il tutto per arrivare alla pace perpetua, occasionale e ovviamente precaria. La pace si trasforma in tregua prima di riprendere in mano le armi. L’ipocrisia, ossia l’arte della recitazione, finzione o dissimulazione possiede vari sinonimi che, senza pretesa di completezza parlano di falsità, doppiezza, simulazione o semplicemente menzogna. Sono tutte variazioni sul tema che rispondono al senso etimologico della parola di origine greca. L’ipocrita era l’attore che interpretava la parte che il copione gli affidava. Risulta dunque oltremodo difficile distinguere la finzione dalla realtà perché tutto o quasi si è convertito in spettacolo di intrattenimento per i passeggeri di una nave senza meta. La frase, attribuita al teologo e filosofo danese Soren Kierkegaard è ancora di attualità. ’State attenti: la nave è ormai in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani’.
La realtà è ostinata, testarda come il quotidiano che ci opprime, seduce o semplicemente ‘accade’. In essa diventa ineludibile ciò che chiamiamo, spesso con poco pudore, sofferenza. Essa accompagna la storia, quella vera, fatta di lavoro, precarietà, lotta per la sopravvivenza, minacce, guerre, esili e deportazioni. La sofferenza di un mondo in perpetua gestazione e come sorpreso lui stesso dall’umana coerenza nel crearla. Essa, la sofferenza, muta, silenziata o confiscata dall’abitudine, trova spesso nel grido e soprattutto nelle lacrime l’unico cammino per manifestarsi. Scrisse a questo proposito il filosofo e saggista francese Jaques Derrida ...’ Nel momento stesso in cui velano la vista, le lacrime svelerebbero il proprio dell’occhio. Ciò che fanno uscire fuori dall’oblio in cui lo sguardo le tiene in riserva, sarebbe niente meno che la verità degli occhi di cui le lacrime rivelerebbero la destinazione suprema. Avere in vista l’implorazione piuttosto che la visione, indirizzare la preghiera, l’amore, la gioia, la tristezza piuttosto che lo sguardo’. L’indicibilità delle sofferenze dei padri, delle madri, dei giovani, dei bimbi, di coloro che non nasceranno mai e del tradimento perpetrato censurandone le cause. La memoria della sofferenza scava ferite e come dei solchi nel quali si può scegliere, a volte, cosa potervi seminare dentro. L’odio, la vendetta o l’inizio di un futuro diverso per tutti.
I profeti sono coloro i cui occhi sono stati velati e poi svelati dalle lacrime. Hanno negli occhi l’implorazione e la preghiera perché sono passati e hanno ascoltato la ‘grande tribolazione’. Spesso perseguitati, incompresi, travisati, abbandonati, vilipesi e non raramente ignorati. I profeti del nostro tempo come di quello passato sono coloro che parlano e tacciono quando a parlare è il martirio dei loro corpi e delle loro parole. Passano frontiere e scelgono di camminare le strade che hanno un cuore. Raccontano storie lontane e, nelle loro mani, le parole tornano a vivere e a credere che ci sia un altro mondo quando le lacrime saranno seminati nei solchi della vita. I profeti scrivono sulla sabbia e poi affidano al vento le minute e fragili parole rubate di nascosto ai sogni dei bimbi che giocano sulle strade
Ipocrisia
poesia di Aldo Palazzeschi
Mauro Armanino, Genova, 2 novembre 2025