Ricordi d’infanzia
Sprofondare
nel passato: a volte basta un odore particolare, un panorama, un oggetto, per
far riaffiorare quel tempo che oramai è solo ricordo. Così come successe a
Rebecca durante un solitario Capodanno.
E’
una tersa sera invernale e mille pensieri le ronzano in testa, ballando una
samba. Spalanca la finestra della sua stanza, un freddo pungente le pizzica il
volto ma almeno quei pensieri voleranno fuori, lasciandola tranquilla. La luna
è piena, gonfia e rotonda come se fosse incinta. Giove e Venere brillano
intensamente, in questo cielo nero, insieme a stelle più piccole, lucenti e
ammiccanti. Le scie bianche di due aerei, paiono righe tirate col gesso, sulla
superficie di una lavagna.
La
mente si è snebbiata, i pensieri che gravavano pressanti, si sono dileguati.
Sta
bene, la tristezza della solitudine è volata via! La natura è panacea, disintossica
dalle ovvietà della vita, poiché nulla è ovvio, nell’universo.
Tra
poco i botti di Capodanno esploderanno con fracasso infernale, e illumineranno
ancor più una notte che è già splendente di suo.Rebecca guarda le stelle e
ritorna improvvisamente bambina:
“Stella stellina, la notte si avvicina la
fiamma traballa, la mucca è nella stalla, la mucca e il vitello, la pecora e
l’agnello, la chioccia e il pulcino, ognuno il suo bambino, ognuno fa la nanna
sul cuore della mamma”.
Recitava
questa filastrocca all’incirca verso i due anni, al massimo tre.
La notte di Capodanno riporta alla mente anche un’altra poesiola, che il nonno
ascoltava estasiato quando lei, due anni appena compiuti, la recitava in piedi
sul tavolo della cucina, nella vecchia casa di campagna, davanti al camino dove
ardeva un grosso ceppo, e nell’aria aleggiava il profumo dello zucchero
caramellato col quale il nonno preparava il croccante di mandorle.
“Dai
piccola, recita quella bella poesia per l’Anno Nuovo!”
E
Rebecca, tenendo l’orlo del vestitino tra le mani e dondolando un poco
nell’enfasi del declamare, comincia:
“Anno ovo avanti avanti
ti fan festa tutti i guanti
tu la pace e la salute
doni ai cari genitori
ai parenti agli amici
d’esser buona io prometto
anno ovo e l’ometto!
Rebecca,
sorridendo alla luna incinta, la ricorda proprio come la pronunciava da
piccola, perché tutti quanti per lei
non aveva un senso, ma i guanti sapeva cos’erano, perché li indossava quando
fuori c’era la neve e lei voleva giocarci. Neppure di nuovo conosceva il significato, mentre l’ovo la nonna glielo faceva
sbattuto con lo zucchero, o alla coque e a lei piaceva in entrambi i modi. E l’ometto? Ma come poteva conoscere, una
bimba tanto piccola, il significato dell’aggettivo benedetto? Ma sapeva che l’ometto di neve, o l’ometto di zucchero,
erano cose concrete, con cui aveva avuto a che fare. E allora gli applausi dei
nonni e degli zii erano assicurati…e anche le risate! E lei felice di tanto
entusiasmo, s’inchinava reggendo la gonnellina come il vezzo delle dame del
settecento.
Rebecca
sorride…quanti anni sono trascorsi da allora? Un tempo immemorabile! Eppure
sono ricordi che riemergono così vivi, da parer vecchi di un giorno. I’aroma
dei mandarini appesi all’abete vero, cresciuto nel bosco di famiglia e portato
a casa dallo zio, il profumo della resina e del mugo si confondeva a quello
degli agrumi e del croccante, all’acre odore di fumo sprigionato dal ceppo di
legna bruciata nel camino, unica fonte di riscaldamento della grande cucina
avita. Quei profumi sembrano aleggiare nell’aria…ancora adesso.
Altri
sprazzi d’infanzia riemergono così dalla memoria.
Un
giorno, il frate francescano Padre Clemente era venuto a far visita alla
famiglia. Persuasa che la mamma non avrebbe offerto nulla a quel grande Padre
con la barba lunga, Rebecca corse in giardino, colse una rosa, e gliela offrì.
Poi si accomodò in braccio a quel signore (la piccola non comprendeva la differenza
tra un religioso e un uomo comune) e cominciò a giocare con quella barba lanosa
che a lei piaceva molto. Gli poneva molte domande, e gli raccontava tutto
quello che le passava per la testa. Così, ridendo, il Padre disse: “Questa
bambina, quando diverrà grande, se deciderà di farsi suora, diventerà di certo
superiora, e se si sposerà, farà ammattire il marito!”. In realtà, Rebecca era
molto timida, ma se una persona le suscitava immediata simpatia, si rivelava
chiacchierina.
Rebecca
vedeva molto spesso il medico di famiglia, perché era soggetta a febbri
altissime, a bronchiti e polmoniti. La mamma doveva assisterla notte e giorno,
per timore di complicazioni. Quando il medico, per auscultarla, appoggiava
l’orecchio al suo piccolo petto, o alla schiena, Rebecca strillava: “Acciami
tale, che hai la babba che becca come quella del mio papà!”. Il medico arrivava
di notte, o la mattina all’alba, per assistere questa bambina spesso ammalata,
non aveva dunque tempo di radersi.
Così,
quando Rebecca sentiva il rombo della Gilera rossa del dottor Panitz, si
infilava sotto le coperte, e non voleva saperne di venir fuori. Non aveva
timore di un’iniezione, piuttosto di quel cucchiaio che il dottore le metteva
in bocca per abbassare la lingua, e osservarle la gola irritata. Le faceva
venire conati di vomito, e poi…quella barba pungente, proprio la detestava.
Rebecca era il nomignolo che le aveva affibbiato il dottore, perché lei si
ribellava quando doveva essere visitata, e gli rispondeva a trionfo. Rebecca
foneticamente assomiglia al vocabolo ribelle,
e anche al verbo rimbeccare. Perfetto
quindi per quella mocciosa dispotica e indocile.
Suo
padre, che lei vedeva due volte l’anno, per Natale e Pasqua, lavorava in
Svizzera, vicino a Zurigo, e per tornare in famiglia, gli ci voleva quasi una
giornata di viaggio, così che quando bussava alla porta di casa, la sua barba
era ispida e pungeva le guance della piccola, quando se la stringeva a sé.
Insomma,
da quegli uomini che pungevano, a Rebecca non piaceva essere baciata, anche se
voleva a entrambi un mondo di bene. Per questo adorava la barba di Padre
Clemente che, essendo lunga, aveva una morbidezza tutta particolare: era come
accarezzare un gattino.
Ma
se voi pensate che Rebecca fosse sempre ammalata, vi sbagliate. Quando stava
bene, viveva possibilmente all’aria aperta e ne combinava di cotte e di crude.
Un giorno, all’età in cui comincia questo racconto, vide una scala di legno, a
pioli, appoggiata al susino cresciuto nel cortile di nonna. Un grande albero
dalla chioma ampia, colmo di susine. Un piolo alla volta, pian piano, e Rebecca
arrivò alla forcella formata da due rami, e lì si sedette, felice di aver
completato la scalata, e di aver così raggiunto la sua meta. Che bello guardare
giù, tutto appariva piccolo, e lei si sentiva una regina che ammirava il suo
regno. Però, quando si trattò di scendere, si rese conto di non essere in grado
di raggiungere la scala, le appariva troppo distante e fu colta da una
sensazione di vertigine. Che fare? Rimase sull’albero, mangiando le susine che
erano vicine, inghiottendo anche il nocciolo, perché nessuno le aveva insegnato
che non va mangiato, e attese. Dopo qualche ora (così a lei pareva, magari
erano trascorsi solo pochi minuti) sentì che la chiamavano. E lei non rispondeva,
temendo di buscarle. Poi qualcuno alzò gli occhi in alto, forse per chiedere
aiuto al Cielo, probabilmente pensando che avessero rapito Rebecca. Fu così che
la videro. La recuperarono…e lei guadagnò sonori ceffoni, che però non le
impedirono di cercare nuove avventure.
Un
giorno, con il cuginetto quasi coetaneo, salì in soffitta. Le finestre erano a
filo del pavimento e i due bambini, con le gambe penzoloni nel vuoto, si
divertivano a lanciare pannocchie di granoturco nel pollaio sottostante,
intenzionati a dare da mangiare alle galline. La nonna, dalla finestra della
cucina, vedeva le pannocchie precipitare nel pollaio, spaventando le galline.
Borbottò: “Ma che topi grossi ci sono, per far rotolare le pannocchie fuori
dalla finestra?”. Immaginava certo di quali topi si trattasse, e non erano di
sicuro Topolino e Minnie, e neppure Stilton, tanto meno Speedy Gonzales. La
nonna, in silenzio e a piedi scalzi, salì le scale per non farsi sentire, e
giunta in soffitta e, scoperto gli autori della marachella, disse: “Ma che
bravi bambini, cosa state facendo?”. “Stiamo dando da mangiare alle galline,
poverine!”. “Bravissimi!” disse nonna, e li afferrò per la collottola,
tirandoli via dal pericolo e poi gliele suonò di santa ragione.
Le
avventure finirono così? Rebecca non aveva paura di nulla, né del pericolo, che
non conosceva, né delle sculacciate degli adulti. Era troppo bello esplorare il
mondo, per rinunciarci. Fu così che un altro giorno, scoperto che la nonna
tagliava a spicchi sottili le mele, e poi li appoggiava su una specie di
graticola, esponendoli al sole fuori dalla finestrella dell’abbaino che si
affacciava direttamente sul tetto di casa, decise di andare a rubarle. Le mele
così trattate, duravano tutto l’inverno, ed era una delizia sgranocchiarle nelle
vicinanze del camino. L’estate stava terminando, ma era l’inizio di una nuova
avventura.
Con
il cuginetto, salirono ancora in soffitta, presero una sedia, si arrampicarono
sull’abbaino, e poiché la graticola era appoggiata alle tegole del tetto,
niente di meglio per loro, sedersi direttamente sul tegolato.
La
nonna – ah, quella donna dagli occhi di lince! – li vide dall’orto, e come suo
fare, risalì in silenzio le scale, li afferrò per un braccio, li trascinò fuori
dal pericolo, e somministrò loro una bella dose di sculacciate. Era spaventata,
la nonna Ina, però i nipotini non si sentivano così colpevoli da essere puniti.
Ma come? Avevano avuto una bellissima avventura, e la nonna invece di
applaudirli, battendo le sue mani tra loro, usava una sola mano, e applaudiva
sul loro sederino? Roba da non credere!
Tra
avventure di questo tipo, qualche anno passò e Rebecca, che aveva quasi cinque
anni, aveva una gran nostalgia della casa dei nonni, distante circa due
chilometri dalla sua abitazione. La strada la conosceva bene, era una lunga
serpentina di polvere bianca, affiancata da filari di gelsi, che offrivano more
nere e bianche, dolcissime. Niente di meglio, dunque, decidere di affrontare la
lunga passeggiata fino alla fattoria dei nonni, in compagnia di un’amichetta,
Strada facendo le due bimbe coglievano pratoline, miosotis e botton d’oro,
riunendoli in mazzolini da offrire alla nonna. Dai rami pendenti del gelso
staccavano more, impiastricciandosi mani bocca e vestitini. Arrivati a metà del
percorso, sotto il solleone, incontrarono un contadino con il carretto tirato
dall’asino. “Dove state andando, bambine?” Chiese garbatamente l’uomo. “Dai
nonni che stanno al Fieno D’Oro”. “Ah, so chi siete, salite sul carro, che vi
porto io!”. Tutte felici, le bambine avrebbero arricchito l’avventura con
un’altra ancora più interessante: viaggiare in carrozza, come Cenerentole! Ma
l’uomo cambiò strada, e di lì a poco, furono riconsegnate alle rispettive
madri. E ricevettero, al posto della merendina, una buona dose di sculacciate.
Se quell’uomo, a loro sconosciuto, invece di portarle a casa, avesse cambiato
direzione con idee malvagie, cosa sarebbe potuto accadere loro? Non ci voglio
pensare.
Ora
la solitudine è fuggita via, anche i ricordi sono una buona compagnia.
E
quella bimba dov’è? Se guarda un cielo stellato, o il nostro satellite che
splende in una notte di plenilunio, ne resta incantata come allora. Ognuno
conserva dentro di sé il bambino che era.
Danila
Oppio