Dipinto ad olio di Domenica Luise |
Ero stata operata di ginocchio valgo alla gamba sinistra e tutto era andato bene.
Uscii in trionfo dall’ospedale, medici compiaciutissimi, io molto sollevata, mia sorella e mio cognato mi portarono a casa loro perché riprendessi le forze e fossi assistita per tutto il tempo necessario. Scalpitavo per la voglia di rientrare nel mio regno, tra quadri, quaderni di poesie e le mie bestiole momentaneamente affidate alle cure della vicina. Mi sfogavo su un tappeto di fiori a uncinetto surricamato inventato da me, che suscitava lo stupore di chiunque lo vedesse per il pazzesco lavoro strano e sgargiante che ne usciva.
La pressione era bassa, ma non me ne curavo perché era tale da una vita.
Al primo controllo camminai senza stampella davanti agli occhi sbalorditi dei medici, il professore mi fece andare su e giù elogiandomi. So io i dolori provati per piegare le gambe come mi avevano detto di fare e cosa significava un millimetro di movimento in più guadagnato in ore di fatica.
Incominciai a dire che volevo tornare a casa mia, ma la sorella, da quell’orecchio, non ci sentiva.
Dimenticavo la stampella dapertutto: accanto al letto quando mi alzavo, in bagno, nell’altra stanza.
Ero proprio pimpante, solo quella pressione troppo bassa ci spingeva alla prudenza.
Lavoravo al mio tappeto e sgranavo i piselli nel letto. Anche quel pomeriggio, per quanto mi sentissi strana, ricamai un po’, quel punto del lavoro è venuto più sbilenco del resto. Ero uscita dall’ospedale da circa un mese dopo l’operazione.
Mia sorella mi aveva dato un campanello per chiamarli in caso di bisogno , lo tenevo sul comodino, che era di quelli antichi, piuttosto alto rispetto alla piccola branda di fortuna che mi avevano sistemato nel salone.
Sopra c’era anche la bottiglina dell’acqua, penne e quaderno per scrivere in caso di ispirazione immediata. Di fronte un carrello con la televisione. La mia porta restava sempre aperta, notte e giorno, per un’eventuale necessità. Appena suonavo il campanello arrivava qualcuno: la nipotina oppure il nipote o la sorella o chiunque fosse più vicino ed anche tutti insieme
Quella mattina mi svegliai presto, stavo malissimo e sembrava che il cuore andasse fuori da ogni regola. Seppi poi che era la fibrillazione. Dapprima tentai di non lamentarmi per non disturbarli, ma subito capii che dovevo chiamare.
La mano destra incominciò a formicolare, pensai: ” La manina con cui dipingo… “
Volli raggiungere la sommità del comodino per prendere il campanello, ci riuscii con enorme fatica, ma non potei agitarlo per farlo suonare.
Pensai che bere mi avrebbe fatto bene, dopo molti stenti presi la bottiglina, ma non fui in grado di aprirla. Rimasi col campanello e con la bottiglia sul petto e pensai che, quando mi avrebbero trovata così, avrebbero pensato che avevo chiamato perché mi aiutassero e non si erano svegliati. Non volevo che si sentissero colpevoli, capita sempre quando muore qualcuno. Allungai il braccio e rimisi campanello e bottiglia sul comodino, spingendoli bene in fondo, svenni per lo sforzo.
Dopo un poco ripresi i sensi e stavo ancora peggio, incominciai a lamentarmi involontariamente, mio cognato sentì, svegliò mia sorella, i figli dormivano tranquilli, vidi Iole accendere la luce ed entrare da me, si buttò le mani ai capelli.
In seguito mi disse che ero tutta chiazzata di viola, le labbra, le occhiaie e la punta delle dita. Chiamarono subito per telefono il medico e lui rispose che stavo morendo, di fare venire l’ambulanza. Mentre aspettavamo, sentivo che Iole e mio cognato Giuseppe gridavano ai figli:
< Restate a letto, non venite qui >, i bambini, invece, si alzarono per vedere cosa succedesse, ricordo uno sguardo sbalordito su di me, non so se di Giovanni o di Maria Chiara, con l’ultimo fiato dissi: < Ciao >. Cercai l’altro nipote e dissi nuovamente < Ciao > con ancora meno fiato.
Dopo mi confessarono: < Avevamo capito che era un piccolo addio >.
Arrivai al policlinico di Messina con un minuto e mezzo di vita, mi salvò una giovane dottoressa in servizio, che mi diede uno sguardo e disse a Iole: < Forse sua sorella ha fatto anticoagulanti e li ha interrotti di colpo? >.
Così era stato. Avevo la pressione a 20. Immediatamente mi hanno messo l’ossigeno ed infilato un piccolo ago in vena, le chiamano “farfalline” e dentro poi seppi che hanno fatto cinque iniezioni di non so che, ho sentito che dicevano:
< Ricoveriamola in rianimazione >, di nuovo mi hanno messa nell’ambulanza e, con la sorella accanto che supplicava: < Resisti, Mimma >, siamo partiti.
Un’infermiera anziana ed esperta, in quel momento in cui arrivai, stava per andarsene a casa, mi dette uno sguardo e tornò indietro per aiutare i giovani che erano rimasti perché, mi ha detto poi, magari non sapevano come sbrogliarsela.
Mi hanno sistemata in un letto badando a spostarmi delicatamente, ho sentito il primario ordinare di mettere nella prima flebo trenta fiale di urochinasi, lo ricordo perfettamente.
Mi sentii subito bene, in pratica ripresi a respirare. Avevo avuto una trombosi venosa profonda a tutti e due gli arti inferiori con embolia polmonare massiva bilaterale, non ero morta perché il cuore era in perfette condizioni e non fumavo. Eppure avevo un battito talmente sconvolto che i medici, appena arrivata, mi chiesero se fossi ammalata di cuore, risposi di no, ma sul momento non ci credettero.
Quando giunse l’ora delle visite i miei poterono vedermi da dietro il vetro e parlarmi col citofono. Io sorridevo da un’orecchia all’altra e li tranquillizzavo. Loro quattro erano semplicemente felici di trovarmi viva.
Non ho mai avuto paura e nemmeno pregavo o chiedevo perdono per i miei peccati: ero entrata in uno stato di benessere totale, eppure avevo sentito parlare i medici e sapevo quello che avevo, ero cosciente che potevo morire da un momento all’altro.
Avevano dato la diagnosi di embolia polmonare a occhio e dovettero trasportarmi al piano inferiore per una scintigrafia col mezzo di contrasto. Mi dissero di non fare movimenti e mi sollevarono servendosi del lenzuolo dal letto alla barella, io però tentai di aiutarli spostandomi sul fianco. Quel piccolo affaticamento bastò a sconvolgermi.
Partimmo con la bombola dell’ossigeno su di un carrello ed una dottoressa al seguito, al ritorno mi raccomandarono nuovamente di restare immobile e stavolta obbedii. Con grande cura mi sistemarono nel letto e si allontanarono.
In quel reparto, riscaldato alla temperatura giusta e costante, eravamo maschi e femmine, ognuno in un lettino, nudi sotto le lenzuola per essere subito pronti alle cure in caso di necessità. Quando me ne resi conto mi feci mettere una maglia per evitare che i miei cari mi vedessero in quelle condizioni, e non fu faccenda facile infilarmi testa e maniche in mezzo a tutti i tubi ai quali ero legata. Di fronte a me c’era un ragazzo, sul quale era caduto un cancello e gli aveva portato via una parte della testa. Alcuni giorni dopo, una notte, lo sentii morire perché le macchine che continuamente ci monitoravano subito davano l’allarme, proprio come in un film.
I medici mi avevano appena lasciata che mi sentii male, malissimo, volevo dire: < Sto male >, ma non potei parlare e sprofondai come in un pozzo nero. All’improvviso mi trovai in un tunnel di luce, levitavo nel centro volando in avanti senza fare nulla da me, ero semplicemente trasportata. La luce non abbagliava, era fatta di un fascio di luminosità con sfumature gialle orizzontali, come prodotta da lampadine più o meno potenti. Quello che contava era lo stato d’animo, una pacificazione perfetta, uno stare bene appagato oltre ogni immaginazione. Sentii puzza di gomma, che mi disturbò dal mio benessere profondo: sotto il letto tenevano due palloncini dell’ossigeno, detti volgarmente “ va e vieni ”, ne avevano acchiappato uno e mi pompavano ossigeno in faccia, battevano una cosa sul viso, sentii gridare: < Respira, respira, respira, tu devi vivere! > , era il primario, come poi seppi, circondato da tutti, medici, infermieri, vidi una folla intorno al letto appena riaprii gli occhi. “ E va bene ”, pensai, “ accontentiamolo, respiriamoci dentro, così forse me lo toglie ” .
Il palloncino dell’ossigeno mi dava non poco fastidio, ma forse erano piuttosto i loro schiaffoni, così tirai un pugno e, come poi seppi, glielo spaccai. Sentii che qualcuno diceva: < Reagisce. Si sta riprendendo >. Subito afferrarono l’altro e ricominciarono. A questo punto respirai, visto che erano tanto seccanti. Dopo mi dissero che c’era stato un arresto cardiaco.
Non ho potuto mai sapere quanto tempo sono stata in coma perché nella cartella clinica non è scritto. Intanto, mentre io avevo l’arresto cardiaco, Iole, che era andata a casa a preparare il pranzo a marito e figli per poi correre di nuovo tutti insieme da me, ha visto un’ombra scura uscire dal salone dove c’era il mio letto, ha gridato: < Mimma, sei morta o sei in bilocazione? >, ha lasciato il pranzo, si è messa in macchina ed è arrivata all’ospedale, orario di visite, ma non l’hanno fatta passare perché mi stavano soccorrendo. Quando mi sono ripresa l’ho vista dietro il vetro ed allora l’ho confortata dicendole che non sarei morta, intanto i medici e gli infermieri, come poi ci hanno confessato, ascoltavano acquattati i nostri discorsi d’amore.
Quando il breve tempo di visita finì e se ne andarono, mi addormentai e feci un sogno estremamente vivido: mi trovavo su una zattera con mia sorella, il mare era di un rosa luminosissimo ed immobile. Nessuna onda. Andavamo verso l’altra sponda e d’un tratto lei ha detto:
< Torniamo indietro, siamo arrivate troppo oltre >.
Ho indicato i monti ed una specie di parallelepipedo sul davanti ed ho risposto: < Ma almeno guarda quant’è bello prima. Quello ( il parallelepipedo ) è il monumento alla morte di Nereo >.
Sogni. Non so chi sia questo Nereo e da dove mi sia venuto.
Dopo dieci giorni sempre con flebo ed ossigeno, uscii viva dalla rianimazione, ricordo i corridoi pieni di medici, infermieri e portantini, che non ho rivisto mai più, giovani e meno giovani, sorridenti, che mi salutavano e battevano le mani, mentre la barella procedeva in trionfo ed i miei mi aspettavano più avanti saltando di gioia, e non solo i bambini, contemporaneamente un’altra famiglia piangeva la morte del proprio caro in triste contrasto.
Di nuovo a casa di Iole, ero di carta velina: appena qualcuno si avvicinava al mio letto e mi diceva una parola buona mi scioglievo in pianto.
La pressione era bassissima, per un mese ebbi sessanta di minima e ottanta di massima. Mi alzavo tranquillamente e consolavo mia sorella: < Tu sai che sono abituata a vivere senza pressione >, scherzavo.
In tutto questo c’è una nota comica: quando a scuola si sparse la voce di quanto succedeva, i miei alunni hanno detto il rosario per me insieme al professore di religione. Io all’epoca insegnavo lettere in un istituto professionale, tutti maschi e adulti. Il pensiero di quei diavoli intenti a dire il rosario mi ha fatto sempre ridere di tenerezza. Me ne sento ancora protetta.
Da allora sono passati più di quindici anni: un bel supplemento di vita.
Dedico questa testimonianza, reale in tutto e per tutto, alle persone meravigliose che mi hanno permesso di vivere altri quindici anni entusiasmanti.
Domenica Luise o Mimma
Potete leggere questo scritto, come altri, sul blog della poetessa e pittrice che ha vissuto questa terribile eppur straordinaria esperienza
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