AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

martedì 28 marzo 2023

FIORI LEGNANESI PER COMPLEANNO DELLA SANTA MADRE TERESA D'AVILA - Padre NICOLA GALENO OCD

 












13 martedì sant'Antonio 2023- Terza video-meditazione



Ciao Danila,

con la video-meditazione di oggi, riflettiamo insieme a padre Antonio Ramina, Rettore della Basilica, sul significato della parola gentilezza.

Cosa significa agire con gentilezza? Sant'Antonio, nei suoi scritti, ci spiega che nella nostra quotidianità dobbiamo esprimerci con l'umiltà di Gesù: con affidabilità, con pazienza e con misericordia; perché il Signore non sta nel fuoco o nel terremoto, ma in una brezza leggera.

Anche se di questi tempi sembra non andare più di moda, dovremmo coltivare lo stile della gentilezza, per guardare all’altro con apertura di cuore, per essere più accoglienti, soprattutto con chi è più bisognoso.

La gentilezza è segno di forza e grandezza interiori: rende giustizia a chi è più fragile, a chi ha bisogno di noi. Dona pace a chi la offre e a chi la riceve.

 

Buon cammino!

Pace e bene!










Padre Giancarlo Zamengo
P.S. Se vuoi approfondire le riflessioni settimanali puoi scaricare gratuitamente il libretto «13 martedì - Con sant'Antonio sui sentieri della Pace», in formato pdf.
 




Per scaricare il file pdf della tredicina cliccate sul link sovrastante. 


lunedì 27 marzo 2023

Ricorrenza nascita di SANTA TERESA D'AVILA . lirica di P. Nicola Galeno OCD

 


"UN MODELLO DI SANTITA' MODERNA" - 11 conferenza di Padre CLAUDIO TRUZZI OCD

«UN MODELLO DI SANTITÀ MODERNA»

Questa è già l'impressione di Pio XII , dopo i suoi predecessori affascinati da questa ragazza, che con un semplice libretto autobiografico, un po’ manierato – secondo lo stile del tempo – aveva conquistato un'intera generazione di cristiani, ... e non solo cristiani.

Ma non era semplicemente “fascino”: «È l'unico esempio di missione principalmente teologica del secolo XIX..., e fino ad oggi è rimasto l'ultimo» (Von Balthasar).
«Sebbene alunna di un Ordine religioso in cui il serto dei dottori è vanto del “sesso debole” [Carmelitane scalze] non fu nutrita da forti studi; eppure ebbe tanta scienza che conobbe per sé e seppe additare anche ad altri, la via della salute» (Benedetto XV).

«Fatta parola di Dio» (Pio XI), l'ha trasmesso e trasmette sempre al mondo un messaggio di una stupenda penetrazione spirituale».
Dunque a «ragione si osa proclamarla «La più grande santa dei tempi moderni» (Pio XII).
E l’UNESCO ha proclamato 2022-2023 l’anno di santa Teresa del Bambino Gesù.

• Ma che cosa significa: «La più grande santa dei tempi moderni»?

Questa ragazza è in qualche modo “una di noi”: cioè, Teresa fa parte della nostra medesima epoca socio-culturale. Nonostante la relativa distanza geografica e cronologica, noi partecipiamo sostanzialmente dello stesso momento storico: la “modernità”. Cioè, il nuovo modello di uomo e di società, che si è imposto come modello dominante in tutto l'Occidente.

Teresa è contemporanea dei poeti ed artisti “maledetti”, dei “maestri del sospetto”, in un sistema socio-economico di capitalismo già ben avviato, che sarà inarrestabile; in uno stato laico totalmente separato ed ostile o, peggio, indifferente alla Chiesa. La sua è una generazione che ha avuto tarpate le radici e le ali ed ha reagito con passione e disperazione, finendo talora – nei suoi esiti più simbolici e rappresentativi, nella morfina e nella tisi ...

Questo nuovo modello culturale (la modernità):
– Innanzitutto proclama che la persona «è prima di ogni cosa e tutto è relativo ad essa».
– Quest'uomo, libero”, “gestore” delle proprie azioni e attore della propria vita, ha dentro di sé la segreta convinzione che ogni progresso tecnico determini in modo sicuro, presto o tardi, un miglioramento umano e morale. Conseguentemente conclude [e ne facciamo esperienza ogni giorno...]: «Ciò che è tecnicamente possibile, perché non si dovrebbe fare?».

– Tutto questo è causa e conseguenza, assieme, di un altro aspetto essenziale del tempo 'moderno': la secolarizzazione. Un fenomeno, cioè, culturale che sostiene il principio della separazione o della differenza: tra Creatore e creatura, tra Chiesa e Stato, tra individuo e gruppo sociale, tra coscienza personale e legge o cultura sociale..

Conseguenze?

* Sul piano della nuova consapevolezza che l'uomo è l'artefice della sua vita, si è come atrofizzata nella coscienza la forza dell'ideale altruista e solidale; si è legittimato il diritto insindacabile a preoccuparsi soprattutto, o solamente, di sé o (subordinatamente all'io stesso) del proprio “io dilatato” (la famiglia o il partito o la patria o la razza... la religione).

* Sul piano del progresso tecnologico si è “civilizzato” il mondo, sfruttando senza scrupoli intere fasce (o classi) sociali, poi intere popolazioni e territori, perché fondato su un meccanismo letteralmente perverso (cioè, che «porta fuori strada») e riferito, in più, ad un unico criterio che è il suo nutrimento, il suo obiettivo e il suo motore: il proprio profitto.

* Sul piano della secolarizzazione, Dio è «morto», almeno come soggetto pubblico in questa società. La fede è abbastanza in discredito come proposta “evangelica” di vita nuova.

L'uomo moderno, però, corre così il rischio di ritrovarsi sempre più sprovveduto e spaurito di fronte alle immani sfide da lui stesso provocate nella sua storia e nella natura.

Già nel tempo di Teresa, “la modernità»” è stabilmente instaurata come una “super-cultura” onnicomprensiva, che lentamente e inesorabilmente pervade tutte le culture per svuotarle dall'interno: com-presa la “cultura religiosa cristiana”.

••• Teresa del Bambino Gesù, come ha incarnato tutto questo nella sua esperienza religiosa? * Autenticità e coerenza

«Autenticità», è la volontà e capacità di gestire la propria vita da sé, come attore e signore, e farla combaciare con la “propria” verità, in totale coerenza. Come la esprime Teresa?

– Da parte sua Teresa vuole “realizzarsi”, cercando con tutte le forze di far coincidere la propria vita con i propri ideali religiosi. Lo scopo che Teresa persegue è il medesimo fine dell' “io moderno” [ = la propria realizzazione], anche se tradotto nel proprio contesto culturale religioso.
Qui, le sollecitazioni che accoglie ed assorbe, si manifestano così:

«Voglio realizzarmi!; «Voglio essere una santa!»;

«Ho visto l'altro giorno parole che mi piacciono molto... Non sono perfetta, ma VOGLIO diventarlo!». [E, non soddisfatta di sottolineare la parola «voglio», la scrive in caratteri maiuscoli!
Questa forse è la caratteristica di partenza in cui Teresa si mostra più “moderna”.

Ma tale desiderio intenso di “autenticità” – assunta dalla “cultura” del nostro tempo – sarà anche la sua “croce”, proprio perché il dinamismo che pone in atto la obbligherà ad una coerenza spietata con se stessa.

Sin dall'infanzia, infatti, Teresa si addossò uno sforzo titanico per superare lo scarto tra ideale e realtà, tra immaginario e quotidiano, senza lasciarsi tentare dalla “necessità” del compromesso – che media le tensioni più gravi, annacquando la radicalità della “chiamata” col cosiddetto “buon senso”–.

– Teresa, inoltre, fa parte, ovviamente, dell'universo culturale del proprio tempo. E perciò: proprio e soprattutto contro di lei si rivolta tale sua spietata volontà di autenticità.

Ella proviene, infatti, da un ambiente piccolo borghese, impregnato di un cattolicesimo non senza lacune, ma estremamente serio a livello familiare, dove l'atmosfera è così carica di religioso che è quasi “naturale” darsi tutti alla “vita religiosa”. In simile ambiente Teresa è indubitabilmente “regina”, ma anche prigioniera di una ragnatela – di affetto e stima, certo, ma pure di legami e inibizioni – che appaiono bene nel racconto delle varie tappe e “conversioni”, miracoli e lacrime, sconfitte e vittorie – lungo il percorso della sua intensa adolescenza, come lei stessa la descrive –.

• Fattasi monaca, la fedeltà incrollabile all'autenticità la porta a voler vivere a tutti i costi ciò cui si sente chiamata. «Nel Carmelo non è permesso coniare monete false» – afferma – compiaciuta che il “mercato” la costringa a battere soltanto monete valide per tutti. E scopre così che la verità è azione, cioè prassi e realizzazione: «Le parole non bastano..., bisogna donarsi senza riserve».

E a chi la guarda con meraviglia, ribatte:
«Chi non vuol sentire la verità, non deve rivolgersi a me».

Vicina ormai alla morte confesserà dirà di se stessa:
«Sì, mi sembra di aver cercato sempre soltanto la verità»

È con la passione coerente della verità che lei ha corroso qualsiasi barriera di ambiguità, meschinità, opacità si frapponesse nella felpata vita monastica, nella spiritualità inconsistente, nei discorsi devoti ma fantasiosi, nell’agiografia immaginifica e deviante, nella direzione spirituale paternalistica e afona.

Ma – proprio per questa sua consapevole ricerca per la verità – ha rischiato inconsciamente di credere che ci si potesse “disinquinare” col semplice ritirarsi “dentro di sé”, in “clausura”, come tante proposte “spirituali” suggerivano!

* La salvezza “propria” non salva nessuno! 

L’alto ideale – che Teresa ha la “presunzione” santa di conquistare – la spinge ad una dedizione al limite del “patologico”. La parola “impossibile” le sembra sconosciuta; il desiderio di soffrire (come se la sofferenza rappresentasse la più totale possibilità di donazione) le sembra la strada adeguata. La santità, in definitiva, le sembra dipendere tutta dalla propria capacità di sofferenza. E dunque, in definitiva, ancora, da lei stessa! Teresa cita volentieri lo slogan: «La santità bisogna conquistarla sulla punta della spada!».

Ma si ritrova inesorabilmente riportata alla dolorosa 'esperienza dell'impotenza, tanto da giungere ad affermare il contrario del suo grande ideale giovanile:

«No! Io non mi ritengo una grande santa; penso di essere una piccolissimo santa!» ... E ancora: «Io non sono una santa. Non ho mai compiuto le azioni dei santi».

• Che cosa successe? Come giunse a tale convinzione?
Pian piano Teresa scopre quanto Dio sia al di sopra delle proprie forze: la giovane entusiasta, “incrollabile”, comprende che non può farcela da sola se non falsando le cose...

Non per questo, però, si rassegna ed abbassa al proprio livello le esigenze della chiamata, rinnegando così la verità. Capisce, in altre parole, che ci si “realizza” veramente soltanto accettando la vanità dei propri sforzi umani, per dedicarsi unicamente a «far piacere a Dio».
Non è più il suo sforzo (in altre parole, lei stessa) il punto di partenza:

«Sentii che l'amore [la carità] mi entrava nel cuore col bisogno di dimenticare me stessa

per far piacere agli altri; e da allora fui felice». 

L'ardore ascetico si tramuta in «compassione», sia verso Dio che verso gli altri.
Ciò rende automaticamente se stessi e la propria realizzazione un problema secondario.

E questo la purifica da quanto rimane in lei del “Dio di Giustizia” [che esige che noi “ripariamo”] e la convince, invece, che «l'amore è tutto», «... ma per accoglierlo è necessario rimanere sempre poveri e senza forze: ecco la cosa difficile».
Realtà difficile e “rifiutata”, proprio perché, dopo così lungo e arduo percorso, la riporta al punto di partenza evangelico, il punto zero, dove il Regno e i suoi misteri sono donati in regalo ai poveri, ai bambini, ai peccatori...

* Abbandonata da Dio... in compagnia dei fratelli

Simile percorso interiore – che Teresa conduce pressoché da sola: senza maestri, senza libri [solo il Vangelo e un po' di san Giovanni della Croce], affezionatissima e amata... ma “distaccata” dalle sue sorelle –, ha dentro in sé una dinamica eversiva. Dinamica che da sé sola, e malgrado Teresa stessa, porta a conseguenze impensate – seppur accolte da lei molto lucidamente –. 

• E dopo un secolo e mezzo si vede chiaramente quanto fossero coerenti col cammino del “mondo moderno”. È stato Papa Giovanni XXIII ad affermare che lei ci ha fatto passare dalla «Chiesa del diritto e della giustizia» alla «Chiesa del dialogo e della misericordia».

Ebbene, una delle più potenti promotrici di simile cambiamento nell'humus cristiano è stata proprio questa ragazza morta a ventiquattro anni praticamente all'inizio del secolo scorso.
E l'ha pagato caro tale cambiamento (“conversione”)! Sembrerebbe una vendetta del «dio della giustizia», come è pensato e fatto proprio da una spiritualità ascetica, volontaristica, morale.
– Nella visione “contrattuale” del rapporto con Dio [«Io osservo i comandamenti, e Dio mi dà il Paradiso»] l'uomo ha un ruolo grande (è lui il vero protagonista!).
Ma poi, l’uomo si ritrova, invece, inaspettatamente “impotente” e sprovveduto di fronte ad un «Dio mendicante di amore», «bisognoso di aiuto». Da “simile” Dio, infatti, egli – l’uomo – non può attendersi nulla sul piano dell'efficacia e della potenza, e ... neppure della santità.

L'unica cosa che l'uomo possa fare è «convertirsi», cioè mutare radicalmente 1'atteggiamento... per attendere tutto sul piano della povertà: – [si tratta di ricevere, quindi, non di dare...] – ; e nonostante ciò, rimanendo sempre nell'estrema penosa insufficienza! Insufficienza tanto grave da rischiare la disperazione, perché (sembra strano, ma è nella logica del Vangelo!) il desiderio di dedizione e di amore, di «fare qualcosa per gli altri» – dilatato dalla compassione e dalla fame di misericordia per sé e per tutti – diventa sempre più grande, intenso, struggente....

È da simile travaglio che sgorgano i lamenti o le espressioni più “scandalose” per la spiritualità e il linguaggio religioso corrente – ma tanto vicine alle “sensazioni” dell'uomo d'oggi:

«I ragionamenti dei peggiori materialisti affiorano al mio spirito...
È mai possibile pensare simili cose, quando si ama tanto il Signore? ...
Una voce maledetta mi sussurra: “Sei poi sicura che Dio ti ami ancora? Te lo ha detto lui?” – “Non è l'opinione di qualche persona, che ti giustificherà ai suoi occhi?”».

•• E infine, per esprimere quanto sia totale la sua solidarietà esistenziale con il mondo e gli uomini di oggi – cioè, quanto sia vero che lei ne condivide la situazione interiore desolata e affamata – , la drammatica confessione:

«Non credo più alla vita eterna»; mi sembra che dopo questa vita mortale non ci sia più nulla. Tutto è scomparso per me.
Non mi resta che l'amore!» 

•• Forse, all’interno di tale drammatico cammino dell'uomo moderno nel suo deserto, sono più comprensibili proprio il contrasto che affiora dalle confidenze di Teresa, poiché nascondono una tensione tanto drammatica e dolorosa, da farle provare sulla propria pelle che la disperazione può portare al suicidio.
Il motivo segreto e potente di tale costanza «a soffrire pur nella debolezza, senza coraggio e nella tristezza ... » nell'amore al suo Signore che sembra dimenticarla – è la solidarietà con le varie categorie degli uomini.

Già presente, e, anzi, “motivo” della sua entrata al Carmelo, la solidarietà (proprio come “finalità apostolica”, nel suo linguaggio!) diventa sempre più totalizzante: ne coinvolge vita, sentimenti, e corpo, che da questa passione viene consunto: Teresa stessa diventa “una di noi”. Non per niente muore di tisi: l'AIDS del suo tempo!

Dai sentieri difficili e dai castelli impervi (riservati a pochi) della spiritualità e della mistica, Teresa passa ai «sotterranei» della storia, che diventano sempre più “casa sua”, con lo stesse lacrime e lo stesso pane amaro degli ultimi:

«Gesù mi ha preso per mano e mi ha fatto entrare in un sotterraneo ddove non fa né caldo né freddo; dove il sole non risplende, né cade la pioggia, né tira vento; un sotterraneo dove non distinguo altro che un indistinto chiarore ... Poiché il nostro viaggio avviene sottoterra, non vedo se la meta si avvicina... Sono disposta a rimanere per tutta la mia vita religiosa in questo passaggio sotterraneo».

Non è, tuttavia, sola in tale sotterraneo, e se ne accorge.
«Dio ha permesso che l'anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte e che il pensiero del cielo, per me dolcissimo, non fosse più se non lotta e tormento».

«Ma, Signore, la vostra figlia ha capito ...
Vi chiede perdono per i suoi fratelli...; accetta di nutrirsi per quanto tempo vorrete del pane di dolore e non vuole alzarsi da questa tavola colma di amarezza, alla quale mangiano i poveri peccatori...; ma anche lei osa dire a nome proprio e dei suoi fratelli: “Abbiate pietà di noi, Signore!”... La sola cosa che vi chiedo è di non offendervi mai».

Teresa s'immedesima ormai nella preghiera ultima di Cristo in croce, dove pure Lui – dato spazio alla misericordia del Padre come unica soluzione – rimane dov'è – sulla croce –, anche se «abbandonato»: rimane solo per amore: a a costo di rimanere senza il 'suo' DioÈ una grande sfida per il nostro mondo!

CONCLUSIONE

– I primi anni di Teresa sono un periodo dolce, caldo, di crescita, di affermazione alla vita, (1-4 anni)
– il secondo è caratterizzato da una progressiva chiusura in se stessa, da insicurezza, estrema fragilità psicologia (5-14 anni).

– Segue periodo di superamento del suo infantilismo, di apertura alla realtà.

Tale ritardata, difficile, prolungata maturazione e liberazione dalla sua infanzia ha però lasciato in lei la "possibilità di riflettere" sulle caratteristiche tipiche dell'infanzia, quella dell'abbandono, quella dell'ingenuità, quella del "volere tutto"... Peculiarità che Teresa, purificandole, ha trasposto nella vita spirituale, in quella che lei ha chiamato la "Piccola via", cioè il camino dei piccoli passi, dei quotidiani doveri, delle ordinarie virtù e sofferenze, la via della gente "comune".

Sentimentalismo infantile?
In Teresa [sembrerà strano, ma è accertato] non ricorre neppure il termine di "Infanzia spirituale" – come talvolta viene indicata la sua spiritualità. La sua visione, che si conclude nell'amore, è piuttosto la concretezza della rivelazione evangelica che afferma: "La speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato in noi per mezzo dello Spirito che ci è stato donato" (Rom. 5,5).

Ed è una "via", che nella sua semplicità non è meno difficile ed eroica di quella dei "grandi santi".
La sua via è "piccola" ma non meno esigente della scorciatoia diritta ed avventurosa da scalatori di san Giovanni della Croce. Anche lei, infatti, afferma che vuole praticare il "nulla per avere il tutto". Ha sempre cercato, sin da bambina, ostinatamente, il "tutto"; ma ha imparato a perseguirlo con le piccole cose, con gli atteggiamenti quotidiani, con le "piccole vittorie" su se stessa, in una famiglia, in uno sviluppo fisico- psicologico e in un ambiente religioso “normali” (con i suoi pregi e difetti ) ....
In realtà i traguardi raggiunti sono stati grandi.

Teresa ha avuto l'intuizione di "come" diventare lei santa, e poi, "come" l'esperienza umana e spirituale fatta sulla propria pelle, potesse diventare d’insegnamento, di esempio vivo da porgere agli altri.

Ed ha avuto la capacità di vivere tutto questo fino in fondo.

Il suo segreto, il segreto della sua attrattiva, è che li fa sembrare alla nostra portata! Anzi, ci assicura che sono – questi traguardi – alla nostra portata!

*** 

E qui, come conclusione, viene da chiedersi quale sia l'ultimo richiamo, l'ultima espressione che giunge a noi da Teresa: la speranza fiduciosa dell'uomo o l'amore misericordioso di Dio?

Ebbene, la "speranza fiduciosa" è soltanto la penultima parola dell'esperienza di Teresa e del suo messaggio per l'uomo d'oggi. L'ultima parola, quella in cui tutto si risolve e che tutto risolve, è l'amore, l'amore misericordioso di Dio, Cristo!

Infatti, la fiducia c'è, perché ci è stato dato l'amore; e la speranza può sussistere nel cammino di oggi sino all'estremo sospiro e desiderio, perché, sempre e prima, c'è la presenza dell'amore di Dio. Afferma con forza Teresa: "Solo Gesù è; tutto il resto non è" (Lt 96).

Non è pessimismo sui valori umani, ne tanto meno nichilismo... È "la piccola via", che in tutti i livelli ruota attorno al fondamento intaccabile ed insostituibile: l'amore di Dio per noi.

E così l'amore di Dio per l'uomo rimane veramente l'ultima parola per la vita dell'uomo, sia a livello individuale che a quello collettivo.

Tutto ciò costituisce l'estrema sicurezza per il cammino stesso dell'uomo.
Specie in un tempo come il nostro [in cui molti sperimentano i limiti delle forza fisiche e morali" e le certezze dei sistemi politici, sociali ed economici subiscono il più grave ed umiliante sfascio]
risentire che ancora si può contare sull'amore misterioso, ma vivo ed operante di un Dio
– che è sempre con l'uomo e dalla parte dell'uomo,
– che permette all'individuo ed anche alla società di continuare il cammino.

                                       *************

Legnano 25 marzo 2023 – padre Claudio Truzzi 

Prima Messa di Padre Girolamo; domenica 26 Marzo ore 10.00 Parrocchia Sa...

sabato 25 marzo 2023

PADRE POZZI, FERITO DA UNA MINA IN CENTRAFRICA: IL BENE COMUNE, UNICA VIA DI RISCATTO -

 

DA

Padre Pozzi, ferito da una mina in Centrafrica: 
il bene comune, unica via di riscatto
Il carmelitano scalzo parla dal suo letto di ospedale a Bologna: gli hanno impiantato una protesi al piede falcidiato. Racconta la sua avventura per le strade dissestate del Paese e quella lunga più di quarant'anni in una terra dove "basta che hai un'arma e ti senti il padrone dello Stato". Corruzione, traffici sospetti, mire geopolitiche straniere: in una regione contesa, la voglia di riscatto passa anche per la Fiera agricola nata 18 anni fa grazie alla Caritas
Antonella Palermo - Città del Vaticano

“Sono nelle mani del Signore, quindi non ho problemi, ho fiducia”. Il carmelitano scalzo padre Norberto Pozzi, lo riferisce dal letto dell’ospedale Rizzoli, a Bologna, dove da un mese è stato trasferito dal Centrafrica per un doppio intervento al piede che ha reso necessaria l’amputazione a seguito dei danni riportati per lo scoppio di una mina. Il missionario settantunenne, di origini lecchesi, ha un parlare familiare, a tratti ironico, rivelatore di un morale che continua ad essere alto pur in una condizione di sopraggiunta fragilità.
“Non sarà come prima, ma al Signore servo ancora”
“Certo, uno pensa ‘non sarà più come prima, non sarà più semplice come prima’, anche con una protesi. Ma io fin dall’inizio ho pensato che il Signore mi ha lasciato in vita perché gli servo ancora”. Parole disarmanti di un uomo che per la deflagrazione di un’arma ci stava invece rimettendo la vita. Lui che da oltre quarant’anni conosce dal di dentro la Repubblica Centrafricana e che si adopera con i suoi confratelli per promuovere uno stile di convivenza pacifica in una terra pervasa da tensioni, fortissime e continue. “Avevo programmato alcuni viaggi in savana, nei villaggi – ci racconta - ma per alcuni motivi uno ho dovuto rimandarlo. Portavo con me un falegname per riparare tutti i banchi delle scuole, c’erano delle porte da aggiustare. Pensavo di mettermi pure io a preparare un fondo di bianco ai muri che ne avevano bisogno. Era anche l’occasione per vedere un po’ come procedeva l’insegnamento nelle classi. Lungo il cammino un mio operaio mi dice che ai piedi della montagna avevano messo delle mine. Arrivo a un doppio ponte, mi ricordo fino a lì. Poi un vuoto completo”.

La commozione per la premura di tanta gente sconosciuta
Più tardi, ripresa conoscenza, qualcuno gli avrebbe detto che lo aveva salvato l’airbag. La macchina sul ciglio, inclinata. Viene caricato su una moto e portato fino a Bozoum. Si ritrova nell’ospedale della città già con il piede sinistro immobilizzato e un po’ ripulito, aveva perso molto sangue. “Gli infermieri mi dicevano che c’era molta gente, anche fuori a pregare. Al mattino mi ricordo che mi hanno preso in barella per mettermi su un elicottero, all’uscita molti mi hanno salutato, mi sono ritrovato a Bangui, la capitale. C’era un mucchio di miei confratelli che hanno optato per l’ospedale dell’Onu. Mi hanno trasportato là dove mi hanno fatto un primo assesto con dei ferri. E poi di nuovo non mi ricordo più niente”. A Kampala, in Uganda, dove sono specializzati nel riparare le lacerazioni di questo tipo di incidenti, gli venivano lette le mail che arrivavano da ogni dove con l’affetto di amici, ma anche di perfetti sconosciuti. “Ho visto che s’è mossa un sacco di gente (si commuove, ndr). Ho ringraziato il Signore che ci fosse tanta gente a pregare. È un segno di quanta bellezza c’è nella Chiesa, la bellezza per quanto si è attenti agli altri, con gli amici, con le famiglie, con i movimenti. M’ha toccato quella cosa lì, così in grande. La premura”.

La libertà di affidarsi totalmente a Dio
“Nei primi momenti ho detto ‘accidenti, adesso se mettono le mine, cosa ci torno a fare?’. Di saltare su una seconda mina non ho voglia. Però poi mi sono fatto un programmino per tornare probabilmente in dicembre per finire una chiesa che mi sta a cuore, vedere un po’ se posso dare qualche insegnamento, qualche dritta al padre che verrà al posto mio, sistemare la mia camera che è diventato un bazar. Poi vediamo, non mi preoccupo adesso, se posso resterò là, altrimenti mi sposto in una missione dove non si trovano mine. Non ho problemi”. Padre Norberto è arrivato in Centrafrica come missionario laico nell’80 rimanendoci per una prima fase fino all’88, tornando in Italia ogni tre anni. Nell’87 decise di farsi frate; consacrato nel ’95, è stato subito inviato là, prima a Bozoum, poi Baoro, Bouar. Il suo è il racconto di chi, per natura e per allenamento in un territorio ostico, riesce a mostrare quella sana e assai spirituale ‘indifferenza’ che lo rende libero e docile alla provvidenza e alla volontà di Dio, in qualunque posto si trovi a vivere.
La missione nei villaggi remoti, per strade impraticabili
Addentrarsi nei villaggi più remoti cosa significa? “Io vado nei villaggi le domeniche. Quando arrivi devi confessare e le confessioni prendono molto tempo: dalle due alle tre ore. La Messa comincia all’una e si torna a casa alla sera. C’è un catechista che è il pilastro della comunità – racconta ancora il religioso - ma quando arriva ‘il padre’ si possono ricevere i sacramenti, si può chiedere un consiglio, c’è sempre una grande attesa del ‘padre’. Fanno le offerte per le necessità della diocesi e della chiesa. Negli ultimi tre quattro anni ci tengono molto a fare offerte. Durante l’inverno non si va perché si rimane impantanati dentro a due fiumi”.
Un Paese dove la tranquillità non è di casa
Quando la conversazione con padre Pozzi si allarga al contesto più generale in cui vive il Paese e a quel grido di Papa Francesco: “Giù le mani dall’Africa”, lui sorride. E, tra l’amaro, il disincantato e il realista, dice: “Tutto quello che succede qui viene dall’esterno. È giusto il messaggio del Papa. Qui basta avere in mano un’arma che si sentono potenti, grandi e forti. E in effetti possono fare quello che vogliono. Ricordo che nel 2003 una quarantina di ribelli presero Bozoum”. Poi aggiunge: “Chi è a capo delle istituzioni nella capitale può anche dire che il Paese è tranquillo, ma qui non è tranquillo un bel niente. Da un anno i ribelli mettono le mine. Se le mettono da un giorno all’altro, uno passa e salta in aria”.

Il Centrafrica e gli appetiti stranieri
In effetti, il Centrafrica è tra i Paesi più poveri del mondo e si trascina da anni in una serie di guerre mai del tutto spente. Da un paio di anni, come osservano i missionari, è in gioco una guerra per assicurarsi il primato geopolitico. Alla fine dell’anno scorso il contingente militare francese ha lasciato la capitale, mentre gli appetiti russi aumentano. Lo lamenta il padre Aurelio Gazzera, carmelitano di lungo corso nella regione, che cita un proverbio africano: "Quando gli elefanti lottano, chi ci rimette è l'erba". Denuncia che da mesi la comunità internazionale reagisce tagliando fondi e finanziamenti, ed “è molto probabile che prossimamente la Repubblica Centrafricana non sarà più in grado di assicurare il pagamento dei salari dei funzionari”. Intanto, la giudice Danielle Darlan, una delle pochissime voci che si sono opposte all'illegalità e alla prepotenza, è stata deposta dal suo ufficio alla presidenza della Corte Costituzionale. Contestualmente, il Paese si è lanciato nell’avventura fallimentare delle criptovalute, operazione che desta più di qualche perplessità e che, sempre secondo il religioso, rinvia a possibili canali di riciclaggio di capitali. Anche la penuria di carburanti alimenta qualche dubbio: ufficialmente non c’è, ma si trova al mercato nero. “E le opposizioni sono deboli e poco credibili”, aggiunge padre Aurelio.

Fiera agricola di Bozoum, fiore all’occhiello del riscatto
C’è un motivo di orgoglio che nei carmelitani ha trovato il suo volano e che rappresenta una valvola di sviluppo importante: proprio padre Gazzera, confratello di Pozzi, nel 2004 grazie alla Caritas diocesana e nell’ambito di un progetto post-conflitto, ha creato la fiera agricola di Bozoum. Gli agricoltori delle cooperative arrivano ogni anno anche dai villaggi più toccati dalla violenza ed espongono i propri prodotti in vendita. Quest’anno anche la cooperazione belga ci ha messo il suo aiuto per facilitare trasporti e organizzazione: le strade continuano infatti ad essere disastrate. Il giro d'affari di quest'anno equivale a circa 120 mila euro, cifra considerevole in un Paese dove il prodotto pro-capite è intorno ai 400 euro annui. Una festa di colori e anche un momento di ascolto delle problematiche di chi lavora la terra.

Guardare al bene comune
“Tutti i poteri tendono a egemonizzare tutto, accade un po’ ovunque”, chiosa padre Pozzi. “Il problema è che qui sono tutti poveri. Sì, ci sono finanziamenti per fare delle cose ma spesso si ruba e non si riesce a far niente. Perché l’uomo è affamato di soldi e potere – scandisce - soprattutto i governanti. La corruzione è l’unica via per avere le cose. E gli africani si adattano a quella via”. Guardare davvero al bene comune, la sfida resta sempre quella. “Quando le potenze straniere pensano al bene comune, quando la gente al potere di ogni Stato pensa al bene della gente, allora potremo dire che il riscatto pieno c’è”, spiega. “Ma dove succede realmente questo? Chi pensa davvero così? Ciascuno pensa a quello che può essere il bene per lui o si è guidati dalle ideologie. Dovremmo invece pensare se Dio sarebbe d’accordo su ciò che vorremmo fare, quello è il bene. Questo è il criterio per scegliere”.


COME NASCERE IN STRADA A NIAMEY di Padre MAURO ARMANINO

 



Come nascere in strada a Niamey

Una strada sterrata impastata di polvere non lontano dallo stadio Seyni Kountché e adiacente al palazzo che ospita il Ministero della Giustizia. Giusto accanto all’ufficio di accoglienza e registrazione dei migranti dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, OIM. Proprio lì sulla strada, sabato scorso, è nata una bimba.  Mamana è la madre, originaria della Sierra Leone, mentre il padre, della stessa nazionalità è al momento irreperibile. Una bimba nata in esilio a Niamey, sulla strada, luogo di transito, incontro, scambio, compravendita, attesa, passaggio, spazio di vita politica e sociale. La strada è il luogo dal quale veniamo e al quale torniamo se è vero che la vita non è che un viaggio, un pellegrinaggio o un sentiero dove la meta si confonde con lo stile e la modalità del cammino. Lei è nata nella notte come per illuminare il mondo e si trova adesso, assieme alla madre, ospite delle strutture dell’OIM, in attesa di tornare, un giorno, al Paese.
Loro, Francesco e Laura, si erano sposati serenamente in chiesa, una cappella in seminterrato tra pochi intimi con lo statuto di richiedenti asilo. Originari del Sud Sudan che avevano abbandonato a causa della guerra civile che aveva tutto distrutto del loro passato. Cercano ingenuamente futuro a Niamey con l’aiuto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, HCR. Ai loro due figli, domenica scorsa, si è aggiunto un terzo, nato anche lui in esilio e, senza saperlo o volerlo, già richiedente asilo, come tutti i neonati di questo mondo, abituato ormai alle stranezze degli umani. Durante la cerimonia del matrimonio Laura, la sposa, posava la mano sul suo ventre che già annunziava il prossimo arrivo di un nuovo passeggero in cerca d’autore. Laura e suo marito avevano avuto un tempo di apprensione perché, nel recente passato, un figlio si era perduto prima della nascita. La gioia del padre era sobria e intensa come quella di un uomo.
Altre donne migranti sono incinte e potrebbero dare alla luce le loro creature nella capitale del Niger. Stranieri e compagni di esilio con altre migliaia di migranti espulsi, deportati, abbandonati, perduti e ritrovati. Una città nella città fatta di bambini che ancora non sanno che troveranno documenti, frontiere, fili spinati e mani amiche occasionali che non metteranno in discussione il sistema. Dormono in strada o accanto alle stazioni di approdo delle compagnie dei bus con le madri che li nutrono per un miracolo quotidiano chiamato solidarietà tra poveri. Sono in buona compagnia perché, malgrado una recente diminuzione della natalità nel Niger è ancora la più importante del mondo. La speranza di vita alla nascita è di 53,4 anni, ben al di sotto della speranza di vita media nel mondo che è di circa 71 anni.
Si aggiungerebbero ai neonati che fanno del Niger il Paese più ‘giovane’ del pianeta. Poveri nell’economia e ricchi di nuove persone che potranno cambiare il mondo oppure lasciarlo com’è. Tutto dipenderà dal modo col quale saranno assunte le sfide o le opportunità che la sabbia, il vento e il destino non ancora scritto potrà creare. Intanto, nell’altro continente chiamato Europa, continua l’inverno demografico e sulle strade non nascono bimbi ma pannelli pubblicitari, centri commerciali e bar. C’è chi addebita il calo demografico alla crisi economica e all’incertezza per il futuro. Non si vuole che i nuovi arrivi siano nella nave che conduce alla perdizione. In realtà la crisi è ancora più radicale e rivela quanto l’Occidente abbia smarrito la speranza che nasce, appunto, sulla strada della vita.

           Mauro Armanino, Niamey, 26 marzo 2023

venerdì 24 marzo 2023

IL COMBATTIMENTO DELLA PREGHIERA - Esercizi Spirituali Quaresima V Settimana


Il combattimento della preghiera 

Coloro che cominciano a pregare, sperimentano ben presto la prova del vuoto, del sentimento di non fare nulla, persino la prova della noia. Questa difficoltà sorge più̀ o meno rapidamente, con intensità maggiore o minore. In ogni caso, quale ne siano le modalità e le cause, sempre essa ci interroga e mette in questione il nostro impegno nella preghiera. Il dubbio sembra imporsi: perché pregare? Non ci sono molte cose da fare? Proprio in questo momento dobbiamo avere ben chiaro ciò̀ che è il fondamento della nostra preghiera. 

Se non sappiamo perché preghiamo, soccomberemo nel combattimento della preghiera. Quando non succede nulla di sensibile nella preghiera, saper pregare sarà allora null’altro che saper aspettare nella pace. E non sapremo aspettare se non sappiamo da dove veniamo e dove stiamo andando. 

Nella vita spirituale il posto del desiderio è fondamentale. Nei vangeli vediamo che Gesù interroga spesso le persone che incontra per sapere quale è il loro desiderio. Nella nostra vita spirituale, il Signore si appoggerà sulle nostre capacità e sulle nostre attese per educarci, per farci crescere nella fede, nella carità e nella speranza. Per esempio, quando incontra i primi discepoli, secondo quando racconta san Giovanni, Gesù li interroga sulle loro aspettative, sul loro desiderio: «Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì - che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?”» (Gv 1,38). “Che cosa cercate?”: la risposta a questa domanda rivela l’intenzione dei discepoli; vogliono accompagnare il Cristo sino al luogo dove dimora. E nella teologia dell’evangelista Giovanni, questo termine rinvia al Prologo di pochi versetti prima. La dimora del Verbo è la Trinità. La risposta di Gesù invita i discepoli a proseguire il loro cammino dietro a lui. Già̀, all’invito di Giovanni Battista, i due discepoli si erano messi in cammino; ora è Cristo che, appoggiandosi sulla loro domanda, sul loro desiderio, li invita a proseguire il cammino con lui per scoprire la sua dimora. I discepoli non hanno idea di dove verranno condotti seguendo Gesù. Vogliono sapere dove dimora Gesù di Nazareth e saranno introdotti nella dimora del Verbo di Dio, la Santa Trinità. 

I desideri spirituali 

Più volte nel vangelo, Gesù s’appoggerà sulle domande dei discepoli o di altre persone per dare loro molto di più̀. Spesso le risposte o le domande ingenue degli interlocutori di Gesù aprono la porta ad un tesoro spirituale. Egli interroga le persone sui loro desidèri e li colma ben più delle loro aspettative. 

Pertanto, il desiderio, e talvolta un desiderio molto materiale, è sublimato da Gesù per realizzare la vocazione profonda del suo interlocutore. I primi due discepoli che seguirono Gesù e che vollero sapere dove dimorava diventeranno apostoli di Cristo risorto. Alla folle, dona il pare moltiplicandolo e propone poi il Pane di Vita. Alla Samaritana che domanda acqua, promette lo Spirito Santo. La salvezza di Gesù colma e supera le attese e le aspirazioni più̀ profonde dell’uomo

Lo Spirito Santo è presente nei nostri cuori, come una falda d’acqua sotterranea. Siamo creati ad immagine e somiglianza divina e, mediante la fede in Gesù Cristo e la vita sacramentale, siamo stabiliti come figli adottivi di Dio Padre nostro. Nell’uomo, e ben più̀ nel cristiano, c’è qualche cosa che supera l’uomo: lo Spirito del Padre e del Figlio che è stato «riversato nei nostri cuori» (cfr. Rom 5,5). E il fatto di avere in noi desideri spirituali è un segno che siamo mossi dallo Spirito Santo. Non sono desideri velleitari, ma segni della presenza dello Spirito in noi. 

I desideri spirituali manifestano la presenza dello Spirito Santo nei nostri cuori, come le risorgive sono il segno di una sorgente nascosta. Come lo Spirito Santo è la vita della nostra anima, così i nostri desideri spirituali sono il motore e il dinamismo della nostra vita spirituale. Dobbiamo tuttavia riconoscere la veracità e l’esattezza dei suoi desideri. Come sapere se i nostri desidèri sono veramente i frutti dello Spirito Santo? Desideri umani e desideri spirituali possono essere mescolati: ciò̀ non spaventa Gesù che sa partire da ciò̀ che c’è in noi di meglio. Possiamo inoltre sapere che alcuni desideri sono per natura desideri stessi dello Spirito Santo nei nostri cuori. Ascoltiamo san Paolo che ci dice: «Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste [...] Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,16-23). 

Il desiderio svolge un ruolo fondamentale nella pedagogia di Dio per metterci in cammino. E il desiderio spirituale come espressione della presenza dello Spirito Santo in noi è il fondamento sul quale possiamo costruire la nostra dimora interiore. La nostra perseveranza è il tempo che dedichiamo a questa costruzione. 

Il desiderio spirituale è espressione dello Spirito Santo nei nostri cuori, persino il desiderio della preghiera e la preghiera stessa: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6) et «non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rom 8,26). 

Capiamo allora che, ad essere precisi, non s’impara a pregare; in un momento o in un altro si fa esperienza di questa azione dello Spirito Santo nei nostri cuori e ciò̀ ci fa capire che cosa può essere la preghiera. Ma la preghiera in quanto opera dello Spirito Santo, non possiamo darcela da noi stessi: il dono e l’azione di Dio in noi non sono a nostra disposizione. Il desiderio della preghiera, come ogni desiderio spirituale, è già in parte opera dello Spirito Santo in noi. 

È questo l’inizio dell’unione tra il nostro spirito e lo Spirito che Cristo ci ha inviato per farci desiderare la preghiera, per orientarci verso Dio chiamandolo Padre. Ogni preghiera testimonia che lo Spirito si è unito al nostro spirito per produrre ciò̀ che impropriamente chiamiamo la “nostra” preghiera. 

E lo stesso san Paolo ci ricorda nelle sue lettere che nessuno può dire che Gesù è Signore senza lo Spirito Santo, né può dire che Dio è Padre senza quello stesso Spirito Santo. Pertanto, ogni preghiera è trinitaria e testimonia le tre Persone divine che agiscono in noi. 

La risposta della fedeltà 

Pertanto, non c’è differenza di natura tra i grandi santi e noi, peccatori perdonati e credenti. 

La differenza si colloca a livello della manifestazione nella loro vita dell’opera dello Spirito Santo. Hanno permesso a Dio di prendere possesso della loro vita e del loro essere; noi invece diamo allo Spirito solo una piccola parte. Fondamentalmente, la presenza dello Spirito Santo è la stessa nei santi e in noi; noi rimaniamo alle primizie mentre i santi raccolgono i frutti abbondanti. 

Grazie alla fede e ai sacramenti, abbiamo in noi lo Spirito Santo, e la sua presenza in noi si manifesta nei nostri desideri spirituali. Ciò̀ che c’è in gioco spiritualmente è costruire la nostra vita nella fedeltà ai doni ricevuti. Non si tratta quindi di produrre la preghiera a partire dal nulla, ma di lasciar emergere e sviluppare ciò̀ che c’è già in noi. 

Lasciare emergere e sviluppare significa che, una volta ricevuto il dono dello Spirito, e noi tutti lo abbiamo ricevuto, il nostro sforzo nella preghiera si colloca nella durata, uno sviluppo nel tempo. 

Non si tratta di creare qualche cosa, o aspettare un arrivo dall’esterno, ma di lasciare svilupparsi un dono già ricevuto. 

Lasciar emerge e sviluppare il dono dello Spirito Santo nei nostri cuori, ecco il nostro lavoro spirituale. Nella preghiera, questo lavoro somiglia più a un’attesa, una veglia piuttosto che ad una cosa da fare. 

L’attesa è un’attenzione amorevole al dono di Dio, alla sua presenza. Si tratta più di lasciargli il posto che di occuparlo noi stessi con le nostre attività. Coscienti del mistero della nostra comunione intima con il Signore, cercheremo di metterci in una situazione di ascolto e di disponibilità. Il raccoglimento, nei diversi modi che ci sono d’accostarsi alla preghiera, non tende a fare in modo di non annoiarsi durante la preghiera ma all’apertura verso ciò che è già presente in noi. 

L’attenzione amorevole verso ciò̀ che è già presente, la disponibilità all’ascolto della Parola di Dio, è il nostro modo di vegliare, di aspettare. Aspettiamo perché siamo tra due realtà tra i doni già ricevuti e le promesse di Cristo e davanti alla piena realizzazione di quelle promesse e di quei doni. Saper pregare significa dunque saper aspettare. 

La nostra preghiera e la nostra vita spirituale non sono mai talmente aride da non poter ricordare i doni ricevuti e la conoscenza già acquisita del mistero. Fare memoria, l’anamnesi, è un atto religioso fondamentale nella tradizione giudeo cristiana. La nostra attesa, la nostra perseveranza non è mai uno sguardo rivolto solamente al futuro. Ci appoggiamo sul passato, sulla nostra esperienza e sulla nostra conoscenza per confermare la nostra fede e la nostra speranza nei beni futuri. 

Il dono della perseveranza 

Si tratta dunque di non stancarsi, e soprattutto di non stancarsi di non sapere pregare. La preghiera è il frutto, l’inizio dell’unione tra il nostro spirito e lo Spirito Santo: non possiamo prendercelo da noi stessi. Possiamo scegliere i mezzi per favorire questa unione, non possiamo tutta- via costruirla da soli. Pregare come amare, non è un esercizio di ginnastica in cui basta fare questo o quel gesto per raggiungere l’obiettivo. 

Pregare come amare, è un dono e un’esperienza di relazioni. Possiamo preparaci sempre meglio alla preghiera, non realizzare la preghiera, la comunione. Ci si prepara ad un incontro, si veglia senza stancarsi,... l’incontro tuttavia non è opera solo mia. 

Pertanto, non si può disfarsi dell’impressione di non sapere pregare. Pensare di saper pregare è forse il segno che stiamo facendo la nostra preghiera e che non la riceviamo dallo Spirito Santo. E la nostra attesa non è l’aspettativa di essere soddisfatti al termine del tempo della preghiera ma l’attesa di un incontro le cui condizioni non dipendono interamente da noi. Non sappiamo pregare perché non possiamo darci la preghiera. È la manifestazione dello Spirito Santo nei nostri cuori che produce la preghiera autentica (cfr. Rom 8,26). 

Tanto più velocemente ci stancheremo di pregare quanto più penseremo di poter ottenere da noi stessi un risultato tangibile. Pregare come amare è un’apertura del sé per ricevere un altro. Ciò̀ che dipende da noi è l’apertura di noi stessi e il dono di noi stessi, non di forzare l’altro all’incontro. 

Per cui l’atteggiamento dell’orante è quello di chi vigila con perseveranza prima di sperimentare la gioia dell’incontro. Da parte dell’uomo, l’atteggiamento della preghiera è l’attesa stessa. L’incontro avverrà: ne siamo certi perché́ il desiderio è il segno di questa presenza già data dello Spirito Santo in noi. Non siamo tuttavia padroni dei tempi e dei luoghi dell’incontro. La perseveranza ci darà ciò che aspettiamo (cf. Lc 11,9-13). 

Possiamo dare la nostra attesa, la nostra perseveranza. Ci appoggiamo poi sulle promesse di Dio di realizzare la sua opera in noi e anche sui segni e le primizie dello Spirito Santo nei nostri cuori. Sperimentiamo concretamente nella nostra preghiera che ciò che dipende da noi è dimettere all’opera gli atteggiamenti filiali che ci ha insegnato Gesù: prenderci il tempo per stare rivolti verso il Padre, riconoscerlo come Padre, fonte della vita, ricevere la sua Parola come nutrimento, ripetergli la nostra fiducia in un atto di profonda riconoscenza e adorazione, rimanere così nella speranza. 





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Il Paradiso non può attendere: dobbiamo già cercare il nostro Cielo qui sulla terra! Questo blog tratterà di argomenti spirituali e testimonianze, con uno sguardo rivolto al Carmelo ed ai suoi Santi