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lunedì 27 marzo 2023
"UN MODELLO DI SANTITA' MODERNA" - 11 conferenza di Padre CLAUDIO TRUZZI OCD
«UN MODELLO DI SANTITÀ MODERNA»
Questa è già l'impressione di Pio XII , dopo i suoi predecessori affascinati da questa ragazza, che con un semplice libretto autobiografico, un po’ manierato – secondo lo stile del tempo – aveva conquistato un'intera generazione di cristiani, ... e non solo cristiani.
• Ma che cosa significa: «La più grande santa dei tempi moderni»?
Questa ragazza è in qualche modo “una di noi”: cioè, Teresa fa parte della nostra medesima epoca socio-culturale. Nonostante la relativa distanza geografica e cronologica, noi partecipiamo sostanzialmente dello stesso momento storico: la “modernità”. Cioè, il nuovo modello di uomo e di società, che si è imposto come modello dominante in tutto l'Occidente.
Teresa è contemporanea dei poeti ed artisti “maledetti”, dei “maestri del sospetto”, in un sistema socio-economico di capitalismo già ben avviato, che sarà inarrestabile; in uno stato laico totalmente separato ed ostile o, peggio, indifferente alla Chiesa. La sua è una generazione che ha avuto tarpate le radici e le ali ed ha reagito con passione e disperazione, finendo talora – nei suoi esiti più simbolici e rappresentativi, nella morfina e nella tisi ...
– Tutto questo è causa e conseguenza, assieme, di un altro aspetto essenziale del tempo 'moderno': la secolarizzazione. Un fenomeno, cioè, culturale che sostiene il principio della separazione o della differenza: tra Creatore e creatura, tra Chiesa e Stato, tra individuo e gruppo sociale, tra coscienza personale e legge o cultura sociale..
Conseguenze?
* Sul piano della nuova consapevolezza che l'uomo è l'artefice della sua vita, si è come atrofizzata nella coscienza la forza dell'ideale altruista e solidale; si è legittimato il diritto insindacabile a preoccuparsi soprattutto, o solamente, di sé o (subordinatamente all'io stesso) del proprio “io dilatato” (la famiglia o il partito o la patria o la razza... la religione).
* Sul piano del progresso tecnologico si è “civilizzato” il mondo, sfruttando senza scrupoli intere fasce (o classi) sociali, poi intere popolazioni e territori, perché fondato su un meccanismo letteralmente perverso (cioè, che «porta fuori strada») e riferito, in più, ad un unico criterio che è il suo nutrimento, il suo obiettivo e il suo motore: il proprio profitto.
* Sul piano della secolarizzazione, Dio è «morto», almeno come soggetto pubblico in questa società. La fede è abbastanza in discredito come proposta “evangelica” di vita nuova.
L'uomo moderno, però, corre così il rischio di ritrovarsi sempre più sprovveduto e spaurito di fronte alle immani sfide da lui stesso provocate nella sua storia e nella natura.
Già nel tempo di Teresa, “la modernità»” è stabilmente instaurata come una “super-cultura” onnicomprensiva, che lentamente e inesorabilmente pervade tutte le culture per svuotarle dall'interno: com-presa la “cultura religiosa cristiana”.
••• Teresa del Bambino Gesù, come ha incarnato tutto questo nella sua esperienza religiosa? * Autenticità e coerenza
«Autenticità», è la volontà e capacità di gestire la propria vita da sé, come attore e signore, e farla combaciare con la “propria” verità, in totale coerenza. Come la esprime Teresa?
«Voglio realizzarmi!; «Voglio essere una santa!»;
Ma tale desiderio intenso di “autenticità” – assunta dalla “cultura” del nostro tempo – sarà anche la sua “croce”, proprio perché il dinamismo che pone in atto la obbligherà ad una coerenza spietata con se stessa.
Sin dall'infanzia, infatti, Teresa si addossò uno sforzo titanico per superare lo scarto tra ideale e realtà, tra immaginario e quotidiano, senza lasciarsi tentare dalla “necessità” del compromesso – che media le tensioni più gravi, annacquando la radicalità della “chiamata” col cosiddetto “buon senso”–.
– Teresa, inoltre, fa parte, ovviamente, dell'universo culturale del proprio tempo. E perciò: proprio e
soprattutto contro di lei si rivolta tale sua spietata volontà di autenticità.
Ella proviene, infatti, da un ambiente piccolo borghese, impregnato di un cattolicesimo non senza lacune, ma estremamente serio a livello familiare, dove l'atmosfera è così carica di religioso che è quasi “naturale” darsi tutti alla “vita religiosa”. In simile ambiente Teresa è indubitabilmente “regina”, ma anche prigioniera di una ragnatela – di affetto e stima, certo, ma pure di legami e inibizioni – che appaiono bene nel racconto delle varie tappe e “conversioni”, miracoli e lacrime, sconfitte e vittorie – lungo il percorso della sua intensa adolescenza, come lei stessa la descrive –.
• Fattasi monaca, la fedeltà incrollabile all'autenticità la porta a voler vivere a tutti i costi ciò cui si sente chiamata. «Nel Carmelo non è permesso coniare monete false» – afferma – compiaciuta che il “mercato” la costringa a battere soltanto monete valide per tutti. E scopre così che la verità è azione, cioè prassi e realizzazione: «Le parole non bastano..., bisogna donarsi senza riserve».
È con la passione coerente della verità che lei ha corroso qualsiasi barriera di ambiguità, meschinità, opacità si frapponesse nella felpata vita monastica, nella spiritualità inconsistente, nei discorsi devoti ma fantasiosi, nell’agiografia immaginifica e deviante, nella direzione spirituale paternalistica e afona.
Ma – proprio per questa sua consapevole ricerca per la verità – ha rischiato inconsciamente di credere che ci si potesse “disinquinare” col semplice ritirarsi “dentro di sé”, in “clausura”, come tante proposte “spirituali” suggerivano!
* La salvezza “propria” non salva nessuno!
L’alto ideale – che Teresa ha la “presunzione” santa di conquistare – la spinge ad una dedizione al limite del “patologico”. La parola “impossibile” le sembra sconosciuta; il desiderio di soffrire (come se la sofferenza rappresentasse la più totale possibilità di donazione) le sembra la strada adeguata. La santità, in definitiva, le sembra dipendere tutta dalla propria capacità di sofferenza. E dunque, in definitiva, ancora, da lei stessa! Teresa cita volentieri lo slogan: «La santità bisogna conquistarla sulla punta della spada!».
Ma si ritrova inesorabilmente riportata alla dolorosa 'esperienza dell'impotenza, tanto da giungere ad affermare il contrario del suo grande ideale giovanile:
«No! Io non mi ritengo una grande santa; penso di essere una piccolissimo santa!» ... E ancora: «Io non sono una santa. Non ho mai compiuto le azioni dei santi».
«Sentii che l'amore [la carità] mi entrava nel cuore col bisogno di dimenticare me stessa
per far piacere agli altri; e da allora fui felice».
* Abbandonata da Dio... in compagnia dei fratelli
Simile percorso interiore – che Teresa conduce pressoché da sola: senza maestri, senza libri [solo il Vangelo e un po' di san Giovanni della Croce], affezionatissima e amata... ma “distaccata” dalle sue sorelle –, ha dentro in sé una dinamica eversiva. Dinamica che da sé sola, e malgrado Teresa stessa, porta a conseguenze impensate – seppur accolte da lei molto lucidamente –.
• E dopo un secolo e mezzo si vede chiaramente quanto fossero coerenti col cammino del “mondo moderno”. È stato Papa Giovanni XXIII ad affermare che lei ci ha fatto passare dalla «Chiesa del diritto e della giustizia» alla «Chiesa del dialogo e della misericordia».
L'unica cosa che l'uomo possa fare è «convertirsi», cioè mutare radicalmente 1'atteggiamento... per attendere tutto sul piano della povertà: – [si tratta di ricevere, quindi, non di dare...] – ; e nonostante ciò, rimanendo sempre nell'estrema penosa insufficienza! Insufficienza tanto grave da rischiare la disperazione, perché (sembra strano, ma è nella logica del Vangelo!) il desiderio di dedizione e di amore, di «fare qualcosa per gli altri» – dilatato dalla compassione e dalla fame di misericordia per sé e per tutti – diventa sempre più grande, intenso, struggente....
È da simile travaglio che sgorgano i lamenti o le espressioni più “scandalose” per la spiritualità e il linguaggio religioso corrente – ma tanto vicine alle “sensazioni” dell'uomo d'oggi:
•• E infine, per esprimere quanto sia totale la sua solidarietà esistenziale con il mondo e gli uomini di oggi – cioè, quanto sia vero che lei ne condivide la situazione interiore desolata e affamata – , la drammatica confessione:
Già presente, e, anzi, “motivo” della sua entrata al Carmelo, la solidarietà (proprio come “finalità apostolica”, nel suo linguaggio!) diventa sempre più totalizzante: ne coinvolge vita, sentimenti, e corpo, che da questa passione viene consunto: Teresa stessa diventa “una di noi”. Non per niente muore di tisi: l'AIDS del suo tempo!
Dai sentieri difficili e dai castelli impervi (riservati a pochi) della spiritualità e della mistica, Teresa passa ai «sotterranei» della storia, che diventano sempre più “casa sua”, con lo stesse lacrime e lo stesso pane amaro degli ultimi:
«Gesù mi ha preso per mano e mi ha fatto entrare in un sotterraneo ddove non fa né caldo né freddo; dove il sole non risplende, né cade la pioggia, né tira vento; un sotterraneo dove non distinguo altro che un indistinto chiarore ... Poiché il nostro viaggio avviene sottoterra, non vedo se la meta si avvicina... Sono disposta a rimanere per tutta la mia vita religiosa in questo passaggio sotterraneo».
Teresa s'immedesima ormai nella preghiera ultima di Cristo in croce, dove pure Lui – dato spazio alla misericordia del Padre come unica soluzione – rimane dov'è – sulla croce –, anche se «abbandonato»: rimane solo per amore: a a costo di rimanere senza il 'suo' Dio. È una grande sfida per il nostro mondo!
CONCLUSIONE
– Segue periodo di superamento del suo infantilismo, di apertura alla realtà.
Tale ritardata, difficile, prolungata maturazione e liberazione dalla sua infanzia ha però lasciato in lei la "possibilità di riflettere" sulle caratteristiche tipiche dell'infanzia, quella dell'abbandono, quella dell'ingenuità, quella del "volere tutto"... Peculiarità che Teresa, purificandole, ha trasposto nella vita spirituale, in quella che lei ha chiamato la "Piccola via", cioè il camino dei piccoli passi, dei quotidiani doveri, delle ordinarie virtù e sofferenze, la via della gente "comune".
Teresa ha avuto l'intuizione di "come" diventare lei santa, e poi, "come" l'esperienza umana e spirituale fatta sulla propria pelle, potesse diventare d’insegnamento, di esempio vivo da porgere agli altri.
Ed ha avuto la capacità di vivere tutto questo fino in fondo.
Il suo segreto, il segreto della sua attrattiva, è che li fa sembrare alla nostra portata! Anzi, ci assicura che sono – questi traguardi – alla nostra portata!
***
E qui, come conclusione, viene da chiedersi quale sia l'ultimo richiamo, l'ultima espressione che giunge a noi da Teresa: la speranza fiduciosa dell'uomo o l'amore misericordioso di Dio?
Ebbene, la "speranza fiduciosa" è soltanto la penultima parola dell'esperienza di Teresa e del suo messaggio per l'uomo d'oggi. L'ultima parola, quella in cui tutto si risolve e che tutto risolve, è l'amore, l'amore misericordioso di Dio, Cristo!
Infatti, la fiducia c'è, perché ci è stato dato l'amore; e la speranza può sussistere nel cammino di oggi sino all'estremo sospiro e desiderio, perché, sempre e prima, c'è la presenza dell'amore di Dio. Afferma con forza Teresa: "Solo Gesù è; tutto il resto non è" (Lt 96).
Non è pessimismo sui valori umani, ne tanto meno nichilismo... È "la piccola via", che in tutti i livelli ruota attorno al fondamento intaccabile ed insostituibile: l'amore di Dio per noi.
E così l'amore di Dio per l'uomo rimane veramente l'ultima parola per la vita dell'uomo, sia a livello individuale che a quello collettivo.
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Legnano 25 marzo 2023 – padre Claudio Truzzi
martedì 21 marzo 2023
L'AMORE DEL PROSSIMO - Decima conferenza di Padre CLAUDIO TRUZZI
Durante le calde giornate dell'estate 1897 – l'ultimo che doveva passare sulla terra – Teresa, sistemata nella piccola carrozzella, scriveva nel giardino gli ultimi capitoli della autobiografia. Le novizie ed una suora conversa che lavoravano fuori venivano ogni momento ad interromperla. A madre Agnese di Gesù, che si stupiva dell'imperturbabile dolcezza con la quale le accoglieva, Teresa rivelò il motivo:
«Scrivo sulla carità fraterna. È il caso di praticarla. Oh! La carità fraterna è tutto sulla terra; si ama Dio nella misura con la quale la si pratica».
All'inizio della seconda parte del Manoscritto C. Teresa scrive:
«Quest'anno il Signore mi ha concesso la grazia di capire che cosa sia la carità».
Certo, ella non ignorava in che cosa consistesse; qui, però, si tratta di un’insistenza particolare a proposito della carità fraterna. Infatti, Teresa attenta ad amare Dio, capisce che deve amare gli altri come Gesù li ama.
Il verbo “capire” torna molto spesso sotto la sua penna: 4 volte in 14 pagine! Tuttavia, non dobbiamo interpretarlo soltanto al livello intellettuale, sarebbe falsarne il senso! Per Teresa, "capire" è comune¬mente sinonimo di "sentire", nel senso in cui si fa una nuova scoperta, qualcosa, cioè, che si approfondisce e che sarà vissuto meglio. E si chiede: «Come Gesù ha amato i suoi discepoli, e perché li ha amati?».
Ha cercato la risposta nel Vangelo, e ha costatato:
«Ah, non erano le loro qualità naturali che potevano attirarlo; c'era fra loro e lui una distanza infinita. Egli era la Scienza, la Saggezza eterna; essi erano dei poveri pescatori ignoranti e pieni di pensieri terrestri. Gesù, però, li chiama suoi amici, fratelli suoi. Desidera vederli regnare con lui nel regno del Padre, e per aprir loro questo regno vuole morire sopra una croce, perché ha detto: "Non c'è amore più grande che immolare la vita per coloro che amiamo"».
Tale scoperta non è totalmente nuova: Teresa sa che l'Amore di Dio è un Amore misericordioso. Comprende, però, come a sua volta debba amare le consorelle. Si tratta di vivere tale verità del vangelo.
«Dal momento che la nostra miseria non impedisce a Dio di amarci infinitamente, allo stesso modo la miseria degli altri non deve impedirci di amarli come Dio li ama!».
«Meditando su queste parole di Gesù ho capito quanto l'amore mio per le mie sorelle fosse imperfetto; ho visto che non le amavo come le ama Dio. Capisco ora che la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti degli altri, non stupirsi delle loro debolezze, edificarsi dei minimi atti di virtù che essi praticano,... ma, soprattutto ho compreso che la carità non deve restare affatto chiusa nel fondo del cuore: "Nessuno – ha affermato Gesù – accende una fiaccola per metterla sotto il moggio, ma la pone sul candeliere affinché rischiari tutti coloro che sono in casa".
Mi pare che questa fiaccola rappresenti la carità, la quale deve illuminare, rallegrare, non soltanto coloro che mi sono più cari, ma tutti coloro che sono nella casa, senza eccettuare nessuno».
Teresa comprende, cioè, che non deve accontentarsi di “pensieri caritatevoli” verso gli altri ma deve manifestare tale amore in parole e in atti concreti. Deve, perciò, illuminare e rallegrare «tutti coloro che le sono attorno». [– Non basta voler il bene. L’altro deve vederlo – è stato detto]
– Nel proseguire la sua meditazione, ella paragona l'espressione del libro del Levitico (19,18) con il comandamento nuovo di Gesù. Se ci riportiamo al testo biblico, constatiamo che il Levitico si esprime prima in modo negativo: “Non vendicatevi e non conservate rancore contro i vostri connazionali. Ciascuno di voi deve amare il suo prossimo come se stesso”. E Teresa commenta il versetto:
«Quando il Signore aveva comandato al suo popolo di amare il prossimo come se stesso, non era venuto ancora sulla terra; così, sapendo bene a qual punto si ami la propria persona, non poteva chiedere alle sue creature un amore più grande per il prossimo. Ma quando Gesù dà ai suoi apostoli un comandamento nuovo, il comandamento proprio suo – come dirà altrove –, non parla di amare il prossimo come se stesso, bensì di amarlo come Lui, Gesù, l'ha amato, come l'amerà fino alla consumazione dei secoli».
Esiste un progresso nelle esigenze divine. Nell'Antico Testamento bastava amare il prossimo come se stesso; però, ricordando il Vangelo, bisogna amarlo come Lui, Gesù, l'ha amato.
Ora Teresa ha questa profonda convinzione: «La volontà vostra è d’amare in me tutti coloro che voi mi comandate d’amare». La sua fede vivissima nella tenerezza di Dio spiega lo sguardo che pone sugli altri e la condotta che adotta nei loro confronti.
•• La ricchezza del manoscritto C., le Lettere, i Ricordi di suor Genoveffa e le deposizioni delle consorelle al Processo sono tanti che sceglierò soltanto tre aspetti. Vedremo come l'ipersensibile Teresa risolveva le difficoltà nei suoi rapporti con gli altri. Anche noi, un giorno o l'altro abbiamo avuto le stesse esperienze.
1. Astenersi dal giudicare.
«Specie quando il demonio cerca di mettermi davanti agli occhi dell'anima i difetti di quella o quell'altra sorella che mi è meno simpatica, m’affretto a cercarne le virtù, i buoni desideri; mi dico che, se l'ho vista cadere una volta, lei può bene avere riportato un gran numero di vittorie che nasconde per umiltà, e perfino ciò che mi pareva un errore può benissimo essere, a causa dell'intenzione, un atto di virtù».
Lei aveva sempre per le altre un giudizio favorevole. Si ricordava di aver sofferto per una riflessione sfavorevole, espressa in piena ricreazione, mentre il suo gesto era dettato da una intenzione caritatevole:
«Fu durante una ricreazione; la portiera suonò due colpi: bisognava aprire la porta grande degli operai per far entrare degli alberi destinati al presepio. La ricreazione non era gaia perché lei non c'era, Madre cara; perciò, io pensavo che se m'avessero mandato a servire da “terza”, sarei stata ben contenta. La madre Sotto-priora mi disse proprio di andare io o la consorella che si trovava accanto a me. 1o iniziai a togliermi subito il grembiule, ma abbastanza lentamente affinché la mia compagna si liberasse dal suo prima di me, perché pensavo di farle piacere lasciandole la possibilità di essere “terza”. La suora che sostituiva la portiera ci guardava ridendo, e quando vide che mi era alzata ultima, mi disse: – Avevo ben pensato che non sarebbe stata lei a guadagnare una perla per la sua corona: andava troppo piano...–. Certamente tutta la comunità credette che avessi agito per natura, e non saprei dire quanto bene all'anima mi abbia fatto una cosa così piccola, rendendomi indulgente per le debolezze delle altre».
Perciò, quando Celina sarà entrata al Carmelo, Teresa le insegnerà che la malattia o la sofferenza morale indeboliscono tanto che la minima buona azione può essere eroica e redimere largamente le altre azioni che ci sembrano delle negligenze. E Celina ricorda: “Mi ripeteva che bisogna giudicare gli altri con carità, perché spessissimo, ciò che sembra negligenza ai nostri occhi, è eroismo agli occhi di Dio. Una persona affaticata, che ha mal di testa o che soffre interiormente, adempiendo la metà del suo lavoro fa più di un'altra che, sana di corpo e di spirito, lo adempie completamente. Il nostro giudizio dunque, in ogni occasione, deve essere favorevole al prossimo. Si deve sempre pensare il bene, scusare sempre. E se qualche motivo non sembra valido, ci sarebbe ancora l'espediente di dirsi: – La tale ha torto apparentemente, ma non se ne rende conto e se io godo di un giudizio migliore, a maggior ragione devo aver pietà di lei e vergognarmi di essere severa nei suoi confronti –”.
Sappiamo che Teresa sopportava con pazienza le riflessioni sgradevoli e che scusava sinceramente i responsabili di tali “punzecchiature”. Al processo ordinario, suor Maria del Sacro Cuore riferirà l’atteggiamento di Teresa. Invece di giudicare con severità suor Maria di San Giuseppe, Teresa la compativa con tutta la sua anima, perché il suo carattere nevrastenico spiegava il suo temperamento sgradevole.
«Ah, se voi sapeste come bisogna perdonarla, come è degna di pietà; non è colpa sua se è “mal-dotata”! È come un povero orologio che bisogna ricaricare ogni quarto d'ora. Sì, è altrettanto sgradevole! Ebbene, ne avrete pietà? Oh, come bisogna praticare la carità verso il prossimo!».
– Da notare che “astenersi dal giudicare” non significa chiudere gli occhi sui difetti del prossimo. Tuttavia, per aiutare una consorella, prima di “riprenderla”, bisogna “comprenderla”. –
• Teresa – e questo deve consolarci – confessa che non è stata sempre vittoriosa nella lotta per la carità fraterna. Ne parla in termini di guerra, di battaglia, di sconfitta, di vittoria... Non tutte le sue consorelle, le erano «naturalmente simpatiche», al contrario! Scrive:
«C'è in comunità una consorella, la quale ha il talento di dispiacermi in tutte le cose: le sue maniere, le sue parole, il suo carattere mi sembrano molto sgradevoli».
Non potrebbe essere più chiara! Da parte mia sono contento che abbia provato anche lei tali sentimenti, come noi. Ma “sentire”, non è “acconsentire”: l'amore è dell'ordine della volontà e non soltanto della sensibilità. E Teresa subito aggiunge:
«Tuttavia, è una santa religiosa che deve essere graditissima al Signore, perciò io, non volendo cedere all'antipatia naturale che provavo, mi sono detta che la carità non deve consistere nei sentimenti, bensì nelle opere; allora mi sono dedicata a fare per questa consorella ciò che avrei fatto per la persona più cara».
E ci spiega quello che faceva, e non senza sforzo:
«Ogni volta che la incontravo, pregavo per Lei... Cercavo di farle tutti i favori possibili... Quando avevo la tentazione di risponderle sgarbatamente, mi limitavo a farle il più amabile dei miei sorrisi e cercavo di cambiare la conversazione... Quando i miei contrasti intimi erano troppo violenti, fuggivo come un disertore».
Simili modi di comportarsi le sono riusciti perfettamente. Lo constatiamo al termine del racconto di Teresa quando la medesima suora le chiede: – Mi potrebbe dire, suor Teresa di Gesù Bambino, che cosa l'attira verso me, perché ogni volta che mi guarda, la vedo sorridere? –.
La stessa suora doveva dichiarare più tardi ingenuamente: – Non appena ci siamo conosciute, suor Teresa di Gesù Bambino ed io, abbiamo provato l'una per l'altra un’attrattiva irresistibile –
* Fuggire o evitare l'incontro è un atteggiamento pratico, certo. Tale atteggiamento, però, è insufficiente per Teresa, perché è la “politica del male minore”. Per superare la difficoltà bisogna prima pregare e poi agire. Scrive:«Senza dubbio, nel Carmelo non s'incontrano nemici, ma in definitiva ci sono delle simpatie, ci si sente attratti verso una consorella, mentre un'altra vi farebbe fare un lungo giro per evitare d'incontrarla! Così, pur senza rendersene conto, ella diviene un soggetto di persecuzione. Ebbene! Gesù mi dice che questa sorella bisogna amarla, che bisogna pregare per lei, quand'anche la sua condotta mi portasse a credere che ella non mi voglia bene: “Se voi amate coloro che vi amano, che merito ne avrete? Perché anche i peccatori amano coloro che li amano”. Ma non basta amare; bisogna dimostrarlo …».
• E negli ultimi anni, Teresa esprimeva il suo amore fraterno con una cordialità ed una spontaneità che non si sarebbe permessa nei primi anni di vita religiosa. Il suo amore era pervenuto ad una purezza tale che non aveva più da temere di amare troppo umanamente le proprie consorelle.
Ecco un esempio nel ricordo di suor Maria della Trinità, una delle sue novizie:
– “Ero appena giunta al Carmelo e suor Teresa di Gesù Bambino mi sorvegliava ancor più attentamente poiché l'avevo supplicata di segnalarmi tutto ciò che vedesse in me di riprovevole. Mi aveva reso parecchi servizi per i quali mi sentivo molto commossa; non le avevo, però, testimoniato nessuna riconoscenza. Allora lei mi dice: «Bisogna abituarvi a manifestare la vostra riconoscenza, a ringraziare di tutto cuore per la più piccola cosa, e praticare la carità agendo in questo modo; altrimenti, anche se l'indifferenza è solo esterna, questa può gelare il cuore e distruggere la cordialità tanta necessaria in comunità».
Santa Teresa sviluppò più tardi tale pensiero nel suo manoscritto nell’affermare che
«la carità non deve restare chiusa nel fondo del cuore, deve manifestarsi con molta cordialità».
•• Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare che Teresa si è imposta molti sacrifici.
E sarebbe andare contro il suo pensiero d’incoraggiare chiunque a manifestare liberamente il suo affetto per gli altri.
Su questo punto Teresa ha scritto frasi capitali:
«L'amore si nutre di sacrifici: più l'anima si priva di soddisfazioni naturali, più la sua tenerezza diventa forte e disinteressata. (...) Come sono soddisfatta ora d'essermene privata fin dall'inizio della vita religiosa. Già godo la ricompensa promessa a coloro che combattono coraggiosamente. Non sento più necessario rifiutarmi tutte le consolazioni del cuore, perché l'anima mia è rafforzata da Colui che io volevo amare unicamente. Vedo con gioia che, amandolo, il cuore si dilata, e può dare incomparabilmente più tenerezza ai suoi cari che se fosse concentrato in un amore egoista e infruttuoso».
2. «Dare a tutte coloro che chiedono ... prestare senza sperare nulla ...».
Queste proposizioni sono sviluppate lungo tutto il Manoscritto C.
Teresa nota che è più facile dare spontaneamente ciò che abbiamo, che lasciarsi prendere ciò che ci appartiene. In questo secondo caso, infatti, non siamo noi ad avere l'iniziativa del dono: e ciò scontenta il nostro spirito d’indipendenza; di più, non diamo l'impressione di essere generosi ma di accettare supinamente, e ciò scontenta il nostro amor proprio. Ma lei fa notare che la pratica del precetto di Gesù – «Se vi prendono ciò che vi appartiene, non lo richiedete» – dovrebbe sembrare facile e naturale per chiunque abbia emesso il voto di povertà, poiché nulla è ormai proprio.
E lei adempiva con il sorriso ciò che le si chiedeva. Testimoniò sr. Agnese al processo: “Era sua abitudine non la-sciare trasparire nessuna fretta impaziente nei confronti delle consorelle che potevano chiederle qualunque servizio, e così avere l'occasione di seguire il consiglio di Gesù: "Non evitare colui che vuole un prestito da voi” (Mt. 5,42).
* Un’idea sostanziale emerge da queste pagine, vale a dire «il prezzo del tempo». Sappiamo per esperienza che il tempo è una cosa difficile da “dare”.
C'è il tempo consacrato a Dio, quello della preghiera;
c'è il tempo riservato alle opere apostoliche; infine c'è il tempo libero, quello che
occupiamo secondo il nostro volere. E giustamente a proposito del tempo Teresa
cita la frase del Vangelo: “Prestare senza sperare nulla”.
Ella non aveva una mentalità di proprietaria egoistica verso il "suo" tempo. Considerava che i suoi tempi liberi appartenessero tanto alle sue sorelle quanto a se stessa. Trovava del tutto normale essere disturbata in simili momenti. Anche se si preparava ad esserlo. Scrive suor Genoveffa: "Suor Teresa mi disse: «Per aver un cuore libero, mi metto nella disposizione di spirito di essere disturbata e mi dico: – Quest'ora la dedico al disturbo, lo voglio, ci conto; e se resto tranquilla ringrazierò Dio come di una grazia su cui non contavo. Così sono sempre felice»”. Aveva letto nel suo “Manuale di Direzione Spirituale”:
«Una carmelitana sempre deve essere pronta a rendere servizio. Il tempo libero tra Compieta e Mattutino si ha la libertà d’impiegarlo in ciò che si vuole secondo il bisogno e la devozione di ciascuna. Se il santo rosario non è stato detto, sarebbe bene di dirlo. Però, in questo tempo come in ogni altro, se si desidera qualcosa di particolare da voi, dovete andarci, preferire sempre la carità e l'abnegazione a tutte le devozioni personali. Un'anima gelosa della sua perfezione non deve appropriarsi niente, neppure un minuto».
* Non dobbiamo illuderci che ciò avvenisse senza lotta! Celina riporta quest’episodio: –
Mi raccontò che, essendo seconda portinaia, una sera, durante il silenzio, le capitò di dover preparare il lume per l'esterno. Occorreva cercare olio, stoppini; nulla era pronto: ognuna si era ritirata nella propria cella; le porte erano sbarrate.
Teresa mi confidò:
«Ebbi un grande conflitto. Borbottavo interiormente contro le persone e le circostanze; ero adirata con le portinaie di fuori che durante un momento di riposo, quando mi facevano lavorare anche loro, avrebbero potuto fare anche da sé. Ma, di colpo, si è fatto chiaro nella mia anima. Immaginai di servire la sacra famiglia di Nazareth; che preparavo questo lumicino per il Bambino Gesù; allora ci misi tanto amore che camminavo con passo spedito e coi cuore colmo di tenerezza». «In seguito – confidò Teresa – usavo sempre questo stratagemma che mi riuscì a meraviglia» –. E sempre Celina aggiunge: “Le sue domeniche e feste comandate, il po' di tempo libero che aveva lo passava a far piacere agli altri “.
3. Carità e preoccupazione della perfezione delle anime
È l'ultimo aspetto della carità fraterna che del Manoscritto C. Si tratta prima del lavoro del «pennellino». Così chiamava se stessa Teresa quando è stata incaricata delle novizie.
Non dobbiamo credere, però, che soltanto in questo periodo Teresa si sia curata del progresso delle sue sorelle. Ne ha avuto il pensiero fin dalla sua entrata al Carmelo. Consisteva di due aspetti:
– Il primo, vivere lei stessa il più perfettamente possibile le esigenze della Regola [anche questo è una forma di carità fraterna].
– Poi, all'occasione, praticare con delicatezza e forza la correzione fraterna. Perché «la verità trionfa sempre».
La volontà di amare Dio e farlo amare dava una dimensione teologale a tutti i suoi servizi fraterni.
Il primo ammonimento di Teresa è ben noto. Fare capire a suor Marta di Gesù che il suo affetto per la priora era troppo “naturale”. Quest’intervento era delicato ed esponeva Teresa ad essere molto malvista dalla priora Maria di Gonzaga. Che importa! Lei non aveva altro pensiero che questo: fare del bene a suor Marta di Gesù. Quest'ultima riferirà le parole di Teresa al termine del loro incontro: «Se nostra madre si rende conto che voi avete pianto e vi chiede chi vi ha dato un dispiacere, potete dire che sono stata io a dirvi questo. Preferisco essere malvista da lei e mi scacci dal monastero, se lei lo vuole, piuttosto che mancare al mio dovere».
Sappiamo che l'avvertimento portò i suoi frutti, perché Teresa fece capire alla sua compagna che durante i primi mesi della vita religiosa, pure lei aveva sperimentato simile tentazione.
Teresa, poi, diceva la verità alle sue novizie, e la diceva pure alle proprie sorelle che l'avevano preceduta al Carmelo, e persino a Madre Agnese, che ne riporta l’osservazione nelle “Ultime Parole”: «Lei tergiversa ben troppo, mia piccola madre; l'ho notato molte volte nella mia vita».
Una testimonianza di vera carità fraterna ci è data dalla lettera che Teresa scrisse a madre Maria Gonzaga, il 29 giugno 1896. A partire dalla difficile elezione del 21 marzo, madre Maria di Gonzaga si rende conto di un cambiamento dello stato di spirito sopravvenuto in parecchie suore durante il priorato di madre Agnese di Gesù. Teresa, suo malgrado, riceve le confidenze, le lagnanze e le lacrime della sua priora che talvolta progetta di dimettersi oppure di partire per Saigon. Teresa soffre nel sentirla sprofondata in considerazioni umane. Tramite una parabola intitolata “Leggenda di un tenero agnellino”, Teresa prova a consolare la sua priora, amareggiata per la sua elezione avvenuta solo al settimo scrutinio e di ristabilirla nella verità, aiutandola a riconoscere che «la croce le viene dal cielo, non dalla terra».
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• Non penso di aver esaurito tutti i testi di Teresa sulla carità fraterna. Il mio scopo era, tramite alcuni esempi, d’illustrare – vissuta in Teresa – una dimensione essenziale della nostra vita religiosa [o anche semplicemente cristiana].
Ora, a partire da queste riflessioni, ciò che mi sembra emerga e riassuma tutto, è la pazienza di Teresa. Pazienza, secondo il doppio senso della parola.
– Da una parte, sopportare, cioè il senso passivo.
– Dall'altra, perseverare, cioè il senso attivo.
Mi sembra che sia in questa virtù – pazienza – che risiede il segreto della carità fraterna di Teresa. Ed è questo che desidero considerare a conclusione.
Per san Paolo, come per il buon senso popolare, la pazienza è la prima e l'ultima parola dell'amore.
Si vede con chiarezza che l'eroismo della pazienza di Teresa si radicava nella profondità di una fede viva, una fede senza cui è impossibile essere veramente come Gesù lo chiede, «dolce e umile di cuore».
••• Ricordiamo che è necessario distinguere -
il primo movimento d’umore, che sentiamo nostro malgrado,- dall'impeto propriamente detto di collera e d’impazienza.
a – Il primo movimento è inevitabile. Quando scatta in noi il ribollimento della sensibilità, siamo forzati ad "incassare il colpo”. Tale emozione talvolta può essere il punto di partenza di un'azione efficace.
b – Ciò che è male è il lasciarsi trascinare dal primo movimento d'umore e uscire con parole o gesti irragionevoli, che in seguito siamo i primi a deplorare. Tali eccessi sono evidentemente delle mancanze di carità, passeggeri però colpevoli, perché rischiano di ostacolare i nostri ulteriori dialoghi.
Per non giungere a simili eccessi, bisogna saper dominare il primo movimento d’umore.
• Quali sono i consigli che Teresa ci dà su questo punto?
Nella “terapeutica” dell'impazienza, Teresa distingueva due “trattamenti”.
a – Il trattamento «a caldo», applicabile fin dai primi momenti della tentazione, al momento della confusione involontaria della sensibilità ferita nel vivo [per es., da un'osservazione sgradevole nei nostri confronti].
b – Poi, il trattamento "a freddo", applicabile più tardi, quando l'emozione si è calmata.
Soffermiamoci un attimo su questi due trattamenti: se li facciamo nostri, la vita fraterna potrà essere, se non trasformata, almeno molto migliorata.
A – Il trattamento "a caldo".
Nel momento in cui sentiamo salire in noi un movimento di collera, dobbiamo impedirci ogni gesto ed ogni parola d’ira. Ciò suppone che si sia presa una buona volta la decisione di non adirarsi e che se ne si abbia acquistata l'abitudine. È necessario, però, qualcosa più che il semplice dominarsi.
Questa padronanza deve essere accompagnata da un atto di fede e un atto d’offerta.
* Un ATTO DI FEDE, cioè avere la semplicità di considerare la persona che provoca la nostra crisi d’impazienza come uno strumento provvidenziale di cui Dio permette la presenza nella nostra vita, affinché si abbia una nuova occasione di provargli il nostro amore e di salvare le anime. In altre parole, invece di lasciarsi ipnotizzare dalla malevolenza di chi ci irrita, dobbiamo mobilitare la nostra fede, considerandoli, al momento, come strumenti della Misericordia divina per noi. Le persone irritanti fanno parte di questo tutto che concorre al nostro bene se sappiamo approfittare del servizio che ci rendono inconsciamente!
[Certo, ciò non sopprime la responsabilità eventuale di chi è all'origine della nostra irritabilità, né il nostro dovere di sopprimere tutto ciò che, in noi, irrita gli altri!]
* Com’è evidente, tale atteggiamento, in simili circostanze, è più un'attitudine di fede che non un'attitudine di generosità. La difficoltà non sta tanto nel tacere e nel rimanere calmi, quanto di credere che l'Amore del Signore ci conduce fin lì; cioè i comportamenti offensivi – irritanti – di chi ci circonda sono per Lui un modo di “amarci”, una nuova occasione che Lui ci dà di provargli il nostro amore e di salvare le anime.
Quest'atto di fede si accompagna all’ATTO DI OFFERTA del mio esercizio di pazienza. Sorridendo nel dominarmi, posso offrire il sacrificio di non piacere a me stesso. Infatti, non sono fiero di essere turbato da una semplice osservazione del mio prossimo.
Teresa era diventata maestra nell'arte di sorridere nelle difficoltà inevitabili della vita comunitaria. E questo sorriso era veramente per lei l'espressione della sua viva fede nell'efficacia apostolica dei sacrifici dell'amor proprio. Dei sacrifici, ce n'erano molti! Fra gli altri, non è gradevole il sentire mormorare attorno a sé, nel proprio monastero, che una ragazza ha rovinato la salute del padre nell'entrare troppo giovane al Carmelo! Soprattutto quando suo padre si trova a quest'epoca in una casa di cura per aver perso la memoria. Siamo nel 1889. E questa casa di cura è chiamata ospedale psichiatrico.
Sacrificio anche il giorno della Velazione, in cui «tutto era velato di lacrime» a causa delle circostanze. Interviene, però, il riflesso della fede, e Teresa scrive a Celina:
«Oh! Celina, come dirti ciò che provo in me? L'anima è straziata, ma sento che ferita è fatta da una mano amica, da una mano divinamente gelosa!...».
– Quest’esempio è indicativo della coesistenza possibile fra la pace profonda dell'anima e le vibrazioni della sensibilità. Teresa non si rimprovera d’aver pianto tanto. Sa bene che la confusione della sa sensibilità non è sotto il controllo diretto della volontà. Essa fa parte delle “debolezze” di cui parla san Paolo. Per lei, esse sono l'occasione di far esperienza della propria fragilità, e la costringono a rimettersi interamente nelle mani di Dio, che è la sua fortezza, il suo rifugio al momento della tentazione.
Ecco come lei praticava il movimento d'abbandono tanto caro a s. Giovanni della Croce: «Offrirsi a Dio nello stato in cui siamo. Ecco la disposizione a cui dobbiamo tornare sempre, all'inizio come alla fine d’ogni camminata evangelica, al momento della prima conversione come dopo lunghi anni di fedeltà».
* Notiamo bene l'ispirazione evangelica che anima in Teresa la pratica dell'abbandono che abbiamo definita “terapeutica a caldo". Teresa non dimentica l'insegnamento del Getsemani. Poiché Gesù stesso ha conosciuto la tristezza e l'angoscia, poiché è stato turbato nella sua sensibilità al punto di sudare sangue, non bisogna pretendere di fare meglio di Lui. Il discepolo non è superiore al Maestro. Lei l'aveva capito fin dall'entrata al Carmelo, nel ricopiare gli appunti degli esercizi predicati dal padre Pichon: «Gesù ha sofferto con tristezza, senza coraggio; non bisogna stupirsi di provare spesso le stesse reticenze davanti alla sofferenza».
Per lei, il fatto di soffrire con tristezza, ben lungi d’essere un’imperfezione, è una grazia, perché è una partecipazione più stretta alla Passione di Cristo. Scrive a Celina: «Che grazia quando di mattino non ci sentiamo un briciolo di coraggio, un briciolo di forza per praticare la virtù».
Di conseguenza, al momento in cui noi sentiamo “saltarci la mosca al naso”, la sola cosa da fare è andare a rifugiarsi come un bambino sotto la dolce mano di Dio, nel dirGli: «Vedi, Signore, come sono debole! Eccomi ancora sconvolta a causa di tale osservazione, di tale decisione o di tale atteggiamento del mio prossimo. Ti offro il mio sacrificio di pazienza. Tu solo ne conosci il prezzo. Non voglio vedere null’altro che questo: la tua mano d'amore che mi chiede ancora questo sacrificio per la salvezza delle anime».
Tale disponibilità di fronte al Signore e di fronte ai suoi “strumenti”, certo, non deve degenerare in una rassegnazione passiva di fronte alla cattiveria umana. Per rimanere evangelica, infatti, la pazienza deve accompagnarsi ad un atteggiamento coraggioso e combattivo di fronte alla Malvagità e all'ingiustizia umana. Senza tale lotta, la nostra pazienza non sarebbe più conforme a quella di Cristo. In altre parole, quando abbiamo fatto del tutto per vivere in accordo con le persone del nostro ambiente e che noi subiamo sgradevolmente i loro attacchi e i loro scherni, dobbiamo e possiamo in silenzio, offrire al Signore le ferite che ci procurano.
È l'unico mezzo per non cedere alla tentazione di andare in collera con il prossimo.
2. Il trattamento «a freddo».
Finalmente giunge il momento in cui la nostra crisi d’instabilità interiore si calma.
Liberati da ogni movimento disordinato della sensibilità, possiamo posare un altro sguardo sulla persona che era in causa nella nostra irritabilità e riflettere sulle differenti ragioni che l'hanno condotta ad agire o a parlare come ha fatto. Tale riflessione “a freddo” sarebbe stata inutile, persino impossibile qualche ora o qualche giorno prima. Anzi esso spesso manifesterà che abbiamo avuto torto nell’accusare d'ingiustizia o di cattiveria una condotta dove i veri motivi ci sfuggivano.
Anche qui, Teresa ci mostra che l’impazienza di fronte agli altri spesso è dovuta alla nostra ignoranza. Una migliore conoscenza degli altri ci farebbe evitare tali movimenti di nervosismo e ci permetterebbe soprattutto di vincere le nostre tentazioni d'impazienza, facendoci considerare gli altri con lo stesso sguardo di Dio, uno sguardo lucido ed indulgente insieme.
Teresa faceva notare a suor Genoveffa [Celina] che troppo spesso ci lasciamo impressionare dalle imperfezioni naturali del prossimo, da ciò che in lui è più superficiale, e che dimentichiamo l'essenziale, cioè il suo valore profondo, il suo amore dì Dio. Ecco un ricordo di Celina: Un giorno – “passeggiando in giardino durante la ricreazione, mostrandomi un albero da frutto lei mi disse:
«Guarda queste pere in apparenza bruttissime; esse sono l'immagine di suore che non ti sono simpatiche. In autunno, quando ti si daranno questi frutti privi dei corpi estranei che li sfigurano, li mangerai con piacere, senza pensare che tu li avevi disprezzati. Così, nell'ultimo giorno, resterai sbalordita di vedere le tue sorelle prive d’ogni loro imperfezione, e ti appariranno come grandi sante» .
• In breve, si tratta della “terapeutica-a-freddo" di Teresa verso le consorelle. Secondo lei bisogna sorpassare l'essenziale, invisibile agli occhi, le apparenze, e d’intravedere, cioè :
– L'intenzione profonda che anima la condotta degli altri; un'intenzione spesso migliore di quella che immaginiamo spontaneamente.
– Gli sforzi nascosti che, nel caso, le consorelle compiono per correggersi dai loro difetti. Questi sforzi chiedono spesso un eroismo che non possiamo immaginare.
– Le qualità reali della loro personalità che si manifestano soltanto agli occhi del cuore.
– Le circostanze della loro vita che ne spiegano tanto spesso la condotta – anche se non la giustificano.
– Infine, la perfezione alla quale Dio le chiama, a dispetto di tutto.
• Il motivo potentissimo della pazienza di Teresa è la sua comunione alla pazienza stessa di Dio.
Il Signore non si stanca di attendere la conversione del peccatore e non si lamenta della sua lentezza. Teresa non dimenticava che la notte di Natale 1886 Gesù compì in un istante l'opera che lei non era riuscita a compiere in dieci anni. Teresa sapeva che per Dio un solo giorno è come mille anni e che può in un batter d'occhio preparare le anime a comparire davanti a Lui.
«La carità spera tutto», scrive San Paolo.
Notiamo lo stretto legame della speranza con la carità. Per amare il suo prossimo nel profondo del proprio cuore, in ogni circostanza, è indispensabile sperare che Dio sempre possa trasformare in un capolavoro il materiale più mediocre.
Insomma, per essere paziente, la carità deve coprire tutto.
Non si tratta d’illudersi – tanto meno scusarli od approvarli – sui difetti del prossimo –, ma di ricoprirli con tutto ciò che essi hanno di bello; e soprattutto non dimenticare
mai la Misericordia potente del Signore che non cessa di avvolgere e può in un istante trasfigurare.
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