AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

sabato 31 luglio 2021

L'ALBERO DELL'INDIPENDENZA DI SABBIA di Padre MAURO ARMANINO


L’albero dell’indipendenza di sabbia

Era il 3 agosto del 1960, l’anno delle indipendenze di una buona parte dei Paesi dell’Africa sub-sahariana, che il Niger proclamò la sua indipendenza dalla ‘protezione’ coloniale francese. La proclamazione della repubblica autonoma in seno della Comunità Francofona fu il 18 dicembre del 1958. Per la circostanza,  si è affermata l’usanza di piantare un albero, l’albero dell’Indipendenza.La celebrazione della festa dell’Indipendenza e quella degli alberi si congiungono come per dare radici alle promesse di cui questo avvenimento era fautore. Il Niger si era aggiunto ai Paesi africani che avevano già dichiarato l’Indipendenza. La nostra è appesa ad un albero piantato il giorno dell’ Indipendenza di sabbia.

Di questo, senz’altro senza immaginarlo, parlava, nel discorso ufficiale il giorno dell’Indipendenza, il primo presidente del paese, Diori Hamani, il 3 agosto del 1960…’In questo importante momento della nostra storia, c’è un sentimento di profonda fierezza che riempie il cuore degli uomini e delle donne del Niger. Affermo che questa fierezza è legittima, perché affonda le sue radici nella sacra dignità della persona umana, nel suo bisogno di liberà e nel suo desiderio di pace e di fraternità’…Proprio per questo, in seguito, si è cominciato a piantare l’albero, perché l’Indipendenza prendesse radici e, forse un giorno, portare quei frutti che all’inizio solo si potevano immaginare. Un albero piantato nella sabbia e il vento del Sahel. 


Nell’anno in questione, nel mese di gennaio, aveva cominciato la danza delle indipendenze il Camerun, a cui era seguito il Togo, il Madagascar e la RDC in giugno. La Somalia a luglio. Poi seguì il folto gruppo di Paesi: Il Benin, il Niger, Il Burkina Faso, La Costa d’Avorio, il Ciad, il Centrafrica, il Congo- Brazzaville, il Gabon e il Senegal, tutti in agosto, Il Mali in settembre, la Nigeria in ottobre e infine La Mauritania nel mese di novembre del 1960.

La tradizione dell’albero, voluta dal secondo presidente del paese l’ufficiale Seyni Kountché, autore del primo colpo di stato militare, era di piantare alberi per radicare la democrazia dopo la presa di potere nel 1974. L’anno seguente avrebbe istituito la festa dell’albero, il giorno dell’indipendenza.

Eppure, nella nostra vita, tutto parla e grida ‘dipendenza’. Che cosa saremmo senza l’altro, io sono perchè siamo, dice la socialità africana. L’indipendenza è ciò per cui si lotta e perfino si dà la vita, e poi non è che una fitta rete di dipendenze che arriva. L’economia, la politica, la religione, l’amicizia, il matrimonio, il lavoro, e quanto costituisce la vita, non è che una serie indefinita di dipendenze. Gli aiuti, i giochi olimpici, gli orari dei voli e dei treni, le onde del mare e il transito dei migranti nel deserto con i ‘passeurs’, sono solo dipendenze appena mascherate dalla finta autosufficienza. Ecco perché hanno scelto di piantare gli alberi per la festa nazionale. Solo per imparare a dipendere dalla terra con le radici e aggrapparsi all’altro con i rami.

Vivere significa scegliere da chi dipendere. Ci sono legami che liberano e altri che rendono schiavi. Trent’anni fa, nel mese di luglio del 1991 iniziava a Niamey, la capitale, la Conferenza Nazionale Sovrana con le forze vive della nazione. Dopo i primi decenni di stanca democrazia tradita si trattava di contribuire a rifondare su basi consensuali e partecipative una società aperta, libera e portatrice di dignità per tutti. La Conferenza citata era stato  un sussulto di novità che aveva scritto sulla sabbia che un altro Niger era possibile. Dopo trent’anni si è passati ad altre esperienze politiche per arrivare all’attuale ‘rinascimento’ nigerino che non può essere visto come erede della Conferenza. La dipendenza dal denaro rende schiavi.

Martedì pianteremo altri alberi nel Paese che celebra l’indipendenza per rincorrere le frontiere che l’Europa ha comprato e che i trafficanti usano a piacimento per arricchirsi. Pianteremo alberi mentre continuano a massacrare i contadini che hanno il torto di coltivare la terra e di rimanere attaccati alla loro terra. Metteremo altri alberi come una diga contro le prossime invasioni coloniali e uniremo i rami per formare la sola eredità che vorremmo lasciare ai nostri figli. Ci ostiniamo a chiamarla libertà.

         Mauro Armanino, Niamey, 1 agosto 2021


giovedì 29 luglio 2021

LA VOLONTÀ DI DIO - Antica leggenda orientale - di RENATA RUSCA ZARGAR




Vasilij Kandinskij, Il cavaliere azzurro, 1903. Olio su tela.

La volontà di Dio
Antica leggenda orientale


C’era una volta, un antico villaggio arroccato su un'altura. Il suo territorio era dolce e armonioso e il saliscendi delle verdi colline si stendeva tutt’intorno, specchiandosi nei corsi d’acqua che cantavano al cielo le loro canzoni. 
Nei campi, i contadini raccoglievano a piene mani il frutto del loro lavoro, mentre mucche e pecore pascolavano tranquille nei prati. 
A quel tempo, un nobile signore viveva solo in uno splendido palazzo di tufo e mattoni, arredato dai più lussuosi mobili del tempo. 
Spesso il nobiluomo si sedeva alla finestra a osservare il paesaggio che amava tanto: lo sfondo del cielo azzurro sulle colline, le mura della città e le case dei suoi vicini. 
La servitù che sfaccendava su e giù per gli ampi scaloni, non contribuiva, però, a mitigare la sua solitudine e il suo carattere diventava di giorno in giorno più aspro. Allora le sue urla risuonavano da una stanza all’altra e tutti, compreso il maggiordomo, fuggivano a nascondersi nelle stalle. 
Egli aveva, però, un devoto consigliere, Battista, che lo seguiva dappertutto cercando di ispirarlo a compiere il bene e che concludeva sempre i suoi avvertimenti e l’analisi dei fatti dicendo:
-É la volontà di Dio. -
Il padrone aveva tollerato quei commenti senza dar loro molto peso fino a quando, un giorno, si era ferito a un dito con il coltello.
Allora, l’usuale risposta -É la volontà di Dio - era suonata come un’offesa alla sua persona per cui, incollerito, aveva fatto sbattere il consigliere nelle segrete del palazzo a pane e acqua.
Bisogna sapere che, di solito, Carlo, così si chiamava il signore, quando il tempo era buono, soleva andare a caccia a cavallo, seguito da molti altri nobili e servitori. Così, un bel giorno di primavera, l’intera compagnia era partita dirigendosi verso i fitti boschi che non mancavano appena fuori le mura della città. 
Gli alberi alti lasciavano filtrare solo a tratti qualche lama di sole, il profumo dei fiori era così intenso da far girare la testa, l’acqua scorreva tra i sassi cantando sottili ritornelli e il nobiluomo, trascinato dalla malia dei luoghi, aveva gettato il suo cavallo, il migliore, al galoppo, mentre le frasche si spostavano ossequianti al suo passaggio e il sole tardava a tramontare per prolungare il suo momento di fiaba. 
Cavalcando cavalcando, Carlo aveva lasciato indietro il suo seguito ed era rimasto solo, fino a quando non aveva scorto in lontananza le torri e le mura di una città sconosciuta.
- Bene! - aveva pensato - laggiù mi potrò riposare! -
Ma, appena giunto, intento ancora ad ammirare la bellezza dei palazzi costruiti in una pietra dal delicato colore di rosa, era rimasto colpito dalla tristezza dipinta sui visi delle persone. 
Nonostante ciò, era stato accolto con grande onore, accompagnato al castello dove, accudito da attraenti fanciulle, era stato lavato, profumato, abbigliato elegantemente, nutrito e condotto alla presenza del Signore della città, mentre i volti dei cittadini erano diventati improvvisamente allegri.
Non dovete ignorare, cari lettori, che, in quella città, c’era stata una terribile epidemia. 
Né medici né stregoni erano riusciti a farla cessare: la popolazione si era dimezzata e tutti ormai vivevano nella disperazione e nel terrore. 
Un mago, però, aveva predetto che la malattia sarebbe finita con il sacrificio di un nobile forestiero che giungesse da molto lontano. 
Da parecchi giorni, tutti attendevano che un forestiero varcasse le porte dell’abitato!  
Ecco perché Carlo era stato preparato con cura: il mago stava per esaminarlo e decretare la sua morte, mentre l’epidemia, che già aveva mietuto molte vite, sarebbe cessata. 
- Miei cari cittadini, - aveva, però, concluso il mago con la sua voce tonante - quest’uomo non è adatto per il sacrificio perché ha una ferita al dito. Solo esseri integri possono liberare la città dal suo cattivo destino. -
A quelle parole, la tristezza era tornata sui volti di tutti ma non di Carlo che, lieto di averla scampata, aveva ripreso il suo cavallo ed era ripartito al galoppo.
Tornato a casa, Carlo aveva fatto liberare Battista. 
- Ho capito che Dio ha voluto che mi tagliassi il dito per salvarmi la vita. Ma dimmi, - gli aveva chiesto - perché Dio ha permesso che ti facessi rinchiudere nelle segrete del palazzo? 
- Nobile Carlo - aveva risposto il consigliere - come tu sai, io ti seguivo fedelmente ovunque. Se fossi venuto a caccia con te, non ti avrei lasciato solo e avrei raggiunto, insieme a te, la città del sacrificio. Accertato che tu non eri adatto, avrebbero ucciso me che non avevo ferite! Ecco perché mi trovavo prigioniero: la mia vita è cara a Dio. -
Da quel giorno, Carlo divenne più ragionevole e si impegnò a seguire i consigli di chi voleva il suo bene. 

Renata Rusca Zargar

mercoledì 28 luglio 2021

LA STELLA GIALLA DELLA DITTATURA SANITARIA di RENATA RUSCA ZARGAR


La stella gialla della dittatura sanitaria

In questi giorni mi stanno arrivando alcuni messaggi e persino dei filmatini che inneggiano alla “Libertà”, spingono a “respirare aria fresca, uscire, ballare”. unendo agli slogan foto di catene spezzate e di fili spinati a noi ben noti. 

Non solo. Mi si chiede se il prossimo DPCM imporrà un triangolo o una stella gialla per la sicurezza collettiva. Mi si avvisa, inoltre, che i nazisti non hanno iniziato dai campi di sterminio ma dalle restrizioni di alcune libertà.

Purtroppo, queste persone che si sono prese la fatica di insegnarmi la Storia del secolo scorso, hanno, però, la memoria cortissima. 

Non ricordano l’ultimo anno e mezzo della nostra vita.

Solo nel 2020, si sono registrati, in Italia, 100000 morti in più dell’anno precedente (ISTAT). Inoltre, si è trattato di persone decedute da sole, con un tubo in gola, senza un parente a stringergli la mano per accompagnare il passaggio. Un orrore per sé stesse e per chi le amava e non potrà mai farsene una ragione. Abbiamo, poi, già dimenticato i camion che portavano via file interminabili di bare perché non c’era più spazio nei cimiteri? Peggio delle Guerre Mondiali. 

Io penso, però, anche a quelle persone che non sono state ricoverate in ospedale perché non c’era più spazio neppure là: terapie intensive, reparti, Pronto Soccorso, assediati dagli infermi.  

Mi sono chiesta molte volte se, ipoteticamente, ci fossimo ammalati io e mio marito e avessero potuto (come è successo ad altri) portare in terapia intensiva uno solo di noi, chi avrebbero scelto: me o lui? 

Un interrogativo devastante.

Per questo, io non ho dimenticato e credo che dobbiamo grande rispetto agli esseri umani che hanno sofferto così tanto.

Libertà! Tutti vogliamo essere liberi, soprattutto dalla malattia e dalla morte perché, dopo, non ce ne faremmo più nulla della libertà.

Mi viene citata, quindi, la “dittatura sanitaria”!

Nel mondo, nei paesi che ironicamente chiamiamo in via di sviluppo, cioè poveri, non esiste la Sanità Pubblica. Praticamente, tutte le persone sono liberissime di ammalarsi e di morire senza potersi curare se non sono ricchi. 

Io credo che se si offrisse loro la nostra “dittatura sanitaria” e la nostra lunga aspettativa di vita, sarebbero ben contenti di fare cambio con noi. Penso all’India, ad esempio, all’Africa, dove, spesso, gli ospedali pubblici sono strutture in cui noi non andremmo neppure a toglierci un callo e le medicine sono pure a pagamento.

È vero, però, che certi popoli sono meno colpiti da questo virus che è talmente subdolo e orrendo che uccide chi non è più giovane o ha delle patologie (che, normalmente, qui siamo in grado di curare) e, per altri, invece, si presenta asintomatico o paucisintomatico.

Quando sono andata in Togo, con l’Associazione di volontariato “Savona nel cuore dell’Africa”, eravamo alloggiati in un ostello nella brughiera (non un comodo resort), e siamo stati, poi, anche due giorni e una notte in un villaggio dove non c’era acqua né elettricità. Parlando con il figlio del capo villaggio, egli ci aveva spiegato che loro hanno grande rispetto per gli anziani. Abbiamo chiesto, allora, di conoscerne uno e siamo stati condotti a una tomba perché nel villaggio non c’erano anziani (che poi, magari, per loro, come un tempo da noi, anziano significa cinquant’anni o anche meno). 

Ovvio che il Covid colpisca poco e, poi, da quelle parti, quando muore una persona, chi gli farebbe mai un tampone?

Io sostengo che tutti i Paesi, invece di spendere nelle armi, dovrebbero avere la sanità pubblica ma, per ora, non è così.

Dunque, io provo pietà e dolore per chi non si può curare e non penso affatto che sia più libero di me, anzi!!!

Infine, nominare i Campi di concentramento e di sterminio per non fare un vaccino (quando i nostri figli li fanno appena nati, - per fortuna- e anche noi ci siamo salvati da poliomielite, vaiolo, difterite e molto altro), mi sembra una vergogna.

Oppure indossare la stella gialla per non avere un Green Pass perché lede la privacy, cioè tutti sapranno che abbiamo fatto un vaccino, è un’offesa alla Memoria della Shoah.

Mio padre, durante la Seconda Guerra Mondiale è dovuto rimanere nascosto per non essere mandato in campo di concentramento oppure arruolato nelle milizie fasciste. Tanti Italiani sono stati, invece, deportati e tanti sterminati.

Lo sterminio, la stella gialla, il triangolo, sono soggetti che non dovrebbero essere ridicolizzati per qualche proprio fine. Rappresentano milioni di morti.

Tra l’altro, ho notato che, negli assembramenti di protesta, spiccano gruppi e partiti che mai hanno rinnegato la dittatura fascista e mai hanno dichiarato il male che ha fatto a noi e al nostro Paese tale dittatura assassina.

Sono loro che ci renderanno liberi?

Infine, le Big Pharma guadagnano troppo.

È vero.

Il vaccino deve essere libero per tutti. Chi l’ha scoperto ha diritto di essere ampiamente ricompensato ma non deve avere un extra-guadagno. 

Esiste per questo una Petizione da firmare affinché il vaccino sia un bene della società tutta, in tutti i paesi

Petizione · Presidenza del consiglio dei ministri, Governo Italiano: Vaccino Bene Comune · Change.org (in caso, sempre su Change.org, ce ne sono anche altre).

Poi, si può scendere in strada, non per “spezzare le catene” della nostra ricca società, ma per spezzare quelle di chi non ha nulla: i bambini in Africa che non possono essere vaccinati perché le famiglie non hanno denaro, che muoiono di morbillo, di fame e di malaria. Possiamo manifestare contro la mancata speranza di vita delle donne che partoriscono ancora in terra a fianco della loro capanna o contro di noi che portiamo via le ricchezze ai Paesi che abbiamo reso poveri rendendo queste mostruosità possibili.

Per queste cose, sì, sarebbe sacrosanto manifestare e spezzare le catene della nostra crudeltà.

Renata Rusca Zargar


martedì 27 luglio 2021

LA RESISTENZA MAPUCHE di RENATA RUSCA ZARGAR


LA RESISTENZA MAPUCHE 
di
RENATA RUSCA ZARGAR
 
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SAVONA: Domenica 25 luglio, presso la Società Mutuo Soccorso “Fratellanza Leginese”, a Savona, l’USEI APS (Unione di Solidarietà degli Ecuadoriani in Italia-APS) ha organizzato un incontro in presenza per parlare del popolo Mapuche in collaborazione con l’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba (Circoli “Granma” di Celle Ligure e Savona), il Comitato di Solidarietà col Cile di Genova e con il contributo del CO.LI.DO.LAT (Coordinamento Ligure Donne Latinoamericane) e dell’associazione culturale “SOCONAS INCOMINDIOS”.
Il convegno è stato iniziato e concluso dal coro “Canto senza Frontiere”, una perfetta contaminazione di persone di differenti etnie, diretto dal soprano ecuadoriano Johanna Mosquera.
Antonio Garcia, rappresentante dell’Usei, ha, prima di tutto, invitato la numerosa platea (con il distanziamento e le mascherine previste dalle misure anti-Covid) a un minuto di silenzio in ricordo di Youns El Boussetaoui, l’uomo in difficoltà ucciso a Voghera da qualcuno che girava per le strade con in tasca un’arma pronta a sparare e uccidere.
Il primo a parlare, poi, è stato Gino Mirabelli Badenier, umanista, membro del Comitato di Solidarietà col Cile di Genova. In una appassionata relazione, l’ex esule cileno ha spiegato come le proteste del 2019 in Cile per l’aumento del biglietto della metro, fossero, in realtà, la risposta a 30 anni di soprusi. Infatti, dopo la fine della sanguinaria dittatura di Pinochet, molto è rimasto uguale, in Cile, persino la Costituzione! Inoltre, non esiste la sanità pubblica, la scuola pubblica, gli asili nido, la pensione può essere solo privata, tutto deve essere pagato. E quel che è peggio, è che le risorse del paese, persino l’acqua e l’energia, sono in mano a società spagnole, australiane, americane e italiane (ENEL).  In Cile rimane il 25% della ricchezza nazionale, mentre il resto va alle imprese straniere. E di quel 25%, il 10% finisce alle forze armate, una vera e propria élite che ha scuole e ospedali riservati ai militari e alle loro famiglie.
Nel 2020, si è svolto un referendum ed è stato chiesto ai cittadini se volessero adottare una nuova Costituzione o mantenere quella attuale: l’85% dei votanti si è espresso a favore di una nuova Costituzione (avevano partecipato al voto il 65% della popolazione). Nel maggio 2021, è stata eletta, dunque, l’Assemblea costituente, in cui sono presenti molte donne e 17 membri provengono dalla popolazione originaria del paese, tra cui alcuni Mapuche.
I popoli indigeni sono stati massacrati, disconosciuti, sterminati, molti estinti, da tutti i governi succedutisi dalla conquista coloniale, cioè, negli ultimi 500 anni.
Infatti, tutti i governi hanno sempre e solo salvaguardato gli interessi di chi gode già della ricchezza.
Per ultimo, Mirabelli ha citato l’attualissimo caso cubano: gli abitanti non possono essere vaccinati contro il Covid perché l’embargo non permette loro di avere le siringhe.
(Su Change.org è disponibile una petizione per chi volesse firmarla Petizione · Biden rompa l’embargo a Cuba sulle siringhe per somministrare il vaccino anti-Covid19 !! · Change.org. Qualche volta, l’opinione di molte persone è riuscita a smuovere, per interesse politico, anche i cuori più duri. Nda)


Maria Eugenia Esparragoza, docente dell’Università degli Studi di Genova, Laureata in Comunicazioni Sociali (UCAB di Venezuela), Dottore di ricerca in Antropologia Filmica (Università di Parigi) e socia fondatrice del CO.LI.DO.LAT (Coordinamento Ligure Donne Latinoamericane), ha presentato, quindi, all’uditorio la forza di alcune figure femminili che hanno fatto la storia della Resistenza Mapuche attraverso l’insegnamento, la filmografia e il recupero della saggezza ancestrale. Infatti, a fronte di vari Trattati che fissavano delle zone dove poter vivere in pace, si è sempre operato per rinnegare i diritti di questo popolo, persino si è preteso che i bambini ripudiassero la lingua e le tradizioni dei loro avi. Tali donne eroiche hanno mostrato la via dell’anti-colonialismo, dell’ecologismo rispettoso dei popoli indigeni e l’importanza di considerare degne tutte le vite.
Naila Clerici, già Docente di Storia delle Popolazioni Indigene d’America presso l’Università di Genova, Presidente dell’associazione culturale “SOCONAS INCOMINDIOS”, direttrice della rivista “TEPEE”, interamente dedicata ai nativi delle Americhe, ha parlato della letteratura con la voce della Poesia.
“Non mi uccideranno con i decreti / Non con i proiettili / di calibro appena inventato. / […] Recupererò il sangue /dai miei ovuli in fiore / Continuerò a procreare bambini indomabili / per difendermi. / Perché sono padre-madre, forza della terra […]” scrive, tra l’altro, Maria Teresa Panchillo.
Infine, è intervenuta Flor Agustina Calfunao Paillalef, Ambasciatrice della Missione permanente del popolo Mapuche presso l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite),
Ella ha raccontato con molti particolari ciò che noi sappiamo sia successo ovunque siano arrivati i popoli europei per impossessarsi di territori e risorse altrui: la conquista, la colonizzazione, il disprezzo e la distruzione di qualsiasi cultura e tradizione che non fosse quella europea guerrafondaia.
Trattati, lotte, indipendenza dai padroni di un tempo, presunte democrazie, non hanno restituito libertà ai popoli originari perché a comandare sono sempre i discendenti dei vecchi colonizzatori.
Bambini strappati alle loro famiglie e collocati in altre, case distrutte, campi di concentramento, spoliazione dei beni (tra cui i gioielli delle donne, indossati per vivere in armonia con la natura), pulizia etnica, imposizione di ruoli sociali che essi non conoscevano, sono alcuni dei trattamenti da sempre riservati ai nativi.
Alcuni gruppi di indigeni, considerati da noi europei solo dei selvaggi da addomesticare, erano stati addirittura portati in Europa per essere mostrati come se fossero animali allo zoo.
Ma non ci sono limiti per noi, che, spesso, ci definiamo “cristiani”.
Il pomeriggio si è concluso con una riflessione: quando gli stranieri vengono qui chiediamo loro di integrarsi, quando siamo andati là, noi non li abbiamo rispettati ma sterminati.



L’incontro è visibile sulla pagina Facebook dell’USEI 

Renata Rusca Zargar

sabato 24 luglio 2021

IL DIRITTO ALL'OPACITÀ, FILOSOFIE DI SABBIA di PADRE MAURO ARMANINO



EDOUARD GLISSANT

Il diritto all’opacità,

 filosofie di sabbia

…’Per questo io chiedo per tutti il diritto all’opacità. Non mi è più necessario ‘comprendere’ l’altro, cioè ridurlo al modello della mia propria trasparenza, per vivere con quest’altro o costruire con lui. Il diritto all’opacità sarebbe oggi il segno più evidente della non-barbarie’… Scriveva così, tra l’altro, Edouard Glissant, poeta, scrittore e saggista francese, originario delle Antille. Parole ancora più vere se messe nel contesto del ‘nuovo’ mondo nel quale, grazie anche all’invasività dei mezzi di comunicazione, tutto dev’essere visto e ‘compreso’ in tempo reale. La frontiera tra pubblico e privato è stata da tempo, almeno in Occidente, cancellata dalle confessioni pubbliche dei vizi e delle virtù di chi conta. Di riflesso, anche nel nostro continente che, a suo modo, cerca di resistere all’attacco incessante della ‘trasparenza assoluta’. Transparency International, ad esempio, è un’organizzazione non governativa che si occupa dell’ingiustizia della corruzione, non solo politica, in un centinaio di Paesi. Detta lodevole istituzione diventa, suo malgrado, come una parabola della strategia di rendere tutto ‘trasparente’, leggibile, comprensibile e soprattutto controllabile. Una società che, come quella occidentale, si avvicina paurosamente a ciò che ha ripudiato nel recente passato: la dittatura attraverso il sistema di controllo dei propri cittadini.

In Africa, come in altre parti del Sud del mondo, il colonialismo si veste e si presenta in modo differente ma, nella pratica, ribadisce il principio guida che lo anima da sempre: perpetuare il potere di dominazione sull’altro. Ciò si articola tramite i tecnici dello sviluppo e delle ‘religioni’, antropologi assoggettati e funzionali al sistema, organismi internazionali che vincolano gli aiuti e i progetti al pensiero unico egemonico dell’interesse. Alla base di tutto ciò si trova quanto Glissant afferma nel testo sopra citato e cioè la ‘riduzione’ dell’altro al modello della mia ‘trasparenza’. Adeguare l’altro al tipo di interpretazione del mondo che considero l’unica possibile e necessaria. Gli studi, i piani di sviluppo, le ricerche, le indagini e financo i più sinceri tentativi di avvicinamento culturale, risulteranno come viziati da questa postura, autentico ‘peccato originale’ di chi possiede il potere dello sguardo e della parola. Smarrito lo sguardo contemplativo, che ‘accarezza’ la realtà, sapendola più grande di sé, da rispettare nel suo silente mistero, si preferisce lo sguardo del ‘mercante’. Questa figura non è in sé banale perché è ciò che ha guidato, almeno in buona parte, le conquiste, i possedimenti, gli imperi e le guerre come conseguenza. Lo sguardo del mercante possiede come degli artigli che usano la realtà, persone e cose, da conoscere per sfruttare. L’idea della conoscenza come potere ha prodotto il mercante di cui anche la scienza è ormai una componente essenziale. Strada facendo abbiamo dimenticato che la conoscenza è fatta per contemplare la verità originaria da scoprire . Abbiamo smarrito questa maniera di conoscere e siamo diventati dei commercianti. 

L’altro potere è quello sulla parola, un potere che crea e profana allo stesso tempo la realtà. Il potere di dichiarare una guerra, per esempio quella sanitaria, che si dice di ‘combattere’ in certe parti del mondo o di dichiarare uno stato permanente di urgenza temporanea. L’ordine di abbigliarsi con indumenti che, come le maschere, rendono solo più trasparente il regime nel quale si è costretti a vivere oggigiono, in alcune parti del globo terrestre. Si maschera il volto e, nel contempo, si smaschera il sistema che ordina i coprifuoco, i giorni possibili di preghiera e il numero di persone a tavola per un giorno di festa. Perché la parola abbia l’effetto sperato c’è dunque bisogno della trasparenza dell’immagine. Per questo ci sono le forze di polizia,  telecamere in ogni angolo di strada, i droni a volteggiare e se questo non bastasse, i vicini di casa che, zelanti come sempre, denunceranno le infrazioni alla buona condotta imposta da leggi e decreti senza fine. 

Ecco perché, di fronte allo sguardo che riduce l’altro a cosa e alla parola che lo umilia, qui si rivendica l’opacità. Il senso del mistero della vita, il ritorno e il ricupero delle iniziazioni in parte dimenticate o tradite, il segreto nelle parole che solo il rispetto può cogliere nel profondo, il silenzio dinnanzi al mistero della vita e la prossimità nel tempo del dolore e della morte, i legami con coloro che ci hanno preceduto e la paziente tessitura dei fili sottili che costituiscono la trama delle relazioni umane. L’opacità per evitare la barbarie.

        Mauro Armanino, Niamey, 25 luglio 2021

domenica 18 luglio 2021

I SACRIFICATI DEL SAHEL di Padre MAURO ARMANINO

 


I sacrificati del Sahel

Sono anzitutto loro, i capri, che occupano senza averlo scelto, tutti gli spazi utili lungo le strade della capitale Niamey. Bene in vista per gli acquirenti che, con l’auto, possono imbarcare l’animale e spesso il fieno necessario per nutrirlo fino alla festa di martedì. La Tabaski, Aid el- kebir, ricorda il sacrificio chiesto ad Abramo, patriarca nella fede delle religioni monoteiste. I capri non sono soli in questo drammatico, beninteso per loro, frangente. Altri animali, piccoli ruminanti e bovini, sono anch’essi possibile bersaglio del sacrificio rituale che consisterà a sgozzare l’animale, svuotarlo delle interiora e poi cuocerlo a fuoco lento fino a cottura completa. La crisi economica, securitaria e le conseguenze delle politiche restrittive legate al Covid, rende l’acquisto degli animali più complicato del solito. I commercianti deplorano un minore afflusso di clienti. Non è chiesto il parere degli animali perché, si sa, la storia è scritta dai vincitori.

Oltre agli animali, il rito della Tabaski implica altri elementi ugualmente indispensabili alla festa: la legna o il carbone per cuocere l’animale, i pali di legno, gli utensili per le varie operazioni legate alla cottura e alla consumazione. Tra questi troviamo oggetti di fabbricazione locale e altri provenienti da commerci trans-frontalieri. Coltelli, ‘machete’, padelle, necessario per gli spiedini, i barbecue, filo di ferro, griglie, fornelli a gas e grosse pentole. I venditori sanno che i clienti verranno all’ultima ora come sempre per l’acquisto della vigilia, quando ci sarà il pienone di gente. Infine ci sono le spezie per dare sapore alla carne e sono le donne a farle da padrone al mercato dei peperoncini, il condimento più ricercato dalle clienti. Una carne senza piccante non è concepibile e questo le donne lo sanno per esperienza culinaria tramandata di generazione in generazione.

Il settimanale governativo offre ampi spazi agli auguri della festa. Ola energia, l’Ecobanca, la Banca dell’Habitat nel Niger e, infine, la Banca Islamica, con una foto in primo piano di un capro con le corna girate in modo classico. Un sacrificato di lusso che evidenzia l’orgoglio caprino per la scelta operata dal fotografo pubblicitario. La lista dei sacrificati del Sahel, meno nota, è lunga e va ben aldilà degli animali citati. Nel vicino Burkina Faso nei primi sei mesi dell’anno si sono registrati oltre 237 mila sfollati, nel Mali e nel Niger siamo su cifre analoghe. Nella confinante Algeria, a un ritmo quotidiano, settimanale e mensile, vengono espulsi e buttati nel deserto centinaia di migranti e rifugiati, madri e bimbi compresi. Si sacrifica la politica all’economia e i giovani all’incertezza permanente sul tipo di furto che sarà perpetrato sul loro futuro. Si immola la libertà e la democrazia in cambio di una un finta pace sociale senza giustizia e verità.

A guardare i capri lungo le strade o nei mercati, insieme e isolati, poco consapevoli di quanto loro accadrà tra qualche giorno, non è difficile immaginarli come un simbolo dei sacrificati di oggi. Insieme, eppure ognuno per sé, preparati per anni di svuotamento etico neo-liberale alle dittature che si disegnano all’orizzonte non lontano. I proletari di tutto il mondo non si uniscono più come una volta e pochi credono ancora in una rivoluzione possibile. La salvezza arriverà improvvisa sulle ali di una farfalla chiamata dignità

Mauro Armanino, Niamey,

 20 luglio, festa della Tabaski 

giovedì 15 luglio 2021

FESTA DELLA MADONNA DEL CARMINE - dalla Scuola per l'Infanzia della Parrocchia carmelitana di Legnano (MI)

Ciclo su Fiori della nostra Scuola per l'Infanzia di Legnano per la Madonna del Carmine 2021


カルメル山の聖母にささげたうちの幼稚園の花です

LA STATUA DELLA MADONNA DEL CARMINE

Le rose gareggiavano per fare
le Damigelle della Vergin Santa,
che disse al Pargoletto: “Scegli tu!”.
E lui col suo ditino le toccò,
sapendone aumentare la fragranza!












 IL TRICOLORE

E pur il Tricolore compiaciuto
della felice scelta sventolò!

 (Legnano 15-7-2021), Padre Nicola Galeno

sabato 10 luglio 2021

IL DOVERE DI TESTIMONIARE - Un ricordo di MARIA BOLLA - testo di RENATA RUSCA ZARGAR



Il dovere di testimoniare

Un ricordo di Maria Bolla

 Ieri, 6 luglio, è mancata la signora Maria Bolla, presidente dell’ANED (Associazione ex deportati nei campi di sterminio) di Savona e Imperia per una malattia di quelle che definiamo “brutte” e che lo sono veramente. Tanti anni fa, quando sono stata trasferita al Liceo Artistico, ho trovato, in sala insegnanti, una circolare che dava notizie dell’Aned e dei Concorsi che l’Associazione bandiva per organizzare i pellegrinaggi ai campi di sterminio.

Oltre alle informazioni storiche che avevo come docente di materie letterarie e alle poche familiari (i miei parenti non ne volevano sapere di parlare della guerra, anzi, dicevano addirittura che non bisogna mai dire a nessuno per chi si vota!), ero rimasta molto colpita, anni addietro, poco più che bambina, dalla lettura di un libro: La casa delle bambole: https://www.sololibri.net/La-casa-delle-bambole-ka-tzetnik.html


In quel romanzo, si parlava delle torture e degli esperimenti che i nazisti facevano usando il corpo delle donne. Non avendolo mai dimenticato, ho fatto poi leggere il libro anche alle mie figlie perché l’ho sempre ritenuto uno stimolo emozionale importante per spingere a studiare e comprendere la storia.

Dunque, trovata quella circolare, mi ero subito messa in contatto con l’Aned. Da allora, per parecchi anni, ho collaborato, tanto è vero che numerosi miei alunni, hanno avuto la grande opportunità di aderire alle varie attività dell’Associazione: non solo viaggi ma incontri, conferenze, testimonianze, pubblicazione di libri. La signora Maria era un turbine di proposte e non si occupava solo degli ex deportati e di quel periodo storico, spesso mi richiamava alla drammatica situazione attuale.

Abbiamo condiviso, avendo io stessa accompagnato gli alunni vincitori, ben cinque pellegrinaggi a Mauthausen, Dachau, Gusen, Ebensee, poi uno a Terezin, infine, con mio marito Zahoor Ahmad e mia figlia minore Zarina siamo stati ad Auschwitz-Birkenau. Ho avuto l’opportunità di essere presente ad alcuni Congressi Nazionali dell’Aned, esperienze di grande valenza intellettuale oltre che umana. Infine, la mia collaborazione con l’Aned si è conclusa perché, come pensionata, non ho più alunni e non frequento più nessuno. Ora tocca ad altri, che sono nel pieno dell’attività lavorativa.

Tra me e la signora Maria è rimasto, però, sempre un rapporto affettuoso, fuori da qualsiasi ruolo e competenza istituzionale.

Ogni tanto, mi mandava nel negozio di mio marito, magari dai suoi amatissimi nipoti, un tortino di verdure fatta con le sue mani perché sapeva che io non le faccio. Oppure, mi regalava un libro da leggere, di solito, di deportate donne. O mi diceva: “Meno male che hai telefonato, pensavo proprio a te.” Maria aveva un carattere molto forte, e disgraziatamente anch’io, era spiccatamente decisionista e, forse, anche perfezionista.

L’ultimo suo progetto è stato un libro, “Il dovere di testimoniare”, che, oltre a raccogliere le testimonianze dei nostri deportati/e liguri, traccia la via maestra della sua essenza e arriverà a settembre nelle scuole. Infatti, ella ha dedicato il suo tempo (fin dagli anni ’70) a far capire cosa sia stato il nazismo e il fascismo, a quali mostruosità siano riusciti ad arrivare.


Credeva, come credo anch’io, che sia necessario battersi perché queste cose non tornino, seppure in forma diversa, anche se travestite da faccine sorridenti, occhi dolci, slogan che, a prima vista, potrebbero sembrare di buon senso.

Ma i travestimenti scompaiono presto, quando si trova giusta la tortura dei carcerati o non si possono accettare le evidenze scientifiche che ognuno nasca con la sua natura. O che sia meglio difendere la vita di un cane piuttosto che quella di un bambino, magari nero.

La signora Maria è arrivata a una bella età ed era perfettamente cosciente e consapevole. Per questo, ha dovuto soffrire a causa della malattia e ciò mi dispiace infinitamente. Io mi auguro, e so che lo pensa anche lei, che la sua Associazione continui a operare. Certamente, non esiste un’altra Maria Bolla.

Speriamo, però, che si trovi una persona molto competente e capace che possa dedicare una parte della sua esistenza a un compito tanto duro quanto quello di formare le nuove generazioni.

 Il funerale si è tenuto nella Chiesa della Villetta a Savona, l’8 luglio alle ore 9,30. La Presidente Maria Bolla Cesarini aveva lasciato disposizione perché, invece dei fiori, si facesse una donazione all’AIRC o a Savona Insieme.

Nella foto in alto (scattata da me), l’ingresso al campo di Dachau, nel 2003, con la Presidente Maria Bolla, gli ex deportati Eugenio Largiu e Antonio Arnaldi, insieme ai ragazzi delle superiori in pellegrinaggio.PUBBLICATO SU:

https://www.liguria2000news.it/societa/il-dovere-di-testimoniare-un-ricordo-di-maria-bolla/

Renata Rusca Zargar 

PER UN ELOGIO DELLA LIMITATEZZA: INDICAZIONI DAL SAHEL di P. MAURO ARMANINO



Per un elogio della limitatezza: indicazioni dal Sahel

Ho scoperto la limitatezza, in questo mese di luglio, anni fa, nell’ospedale San Martino di Genova. Un mese esatto di degenza, per un neoplasma nel cervello, felicemente asportato: trenta giorni immobili e il mondo, cielo compreso, in una stanza comune, e qualche altro giorno, nel reparto di rianimazione. A trent’anni la carne e l’anima hanno compreso che la vita è limitata nel tempo, nello spazio e nel movimento. L’onnipotenza degli anni operai, delle teologie di carta e delle speranze a buon mercato se n’è andata per sempre. L’ultimo giorno del mese, uscendo dal reparto di neurochirurgia ho visto le nubi e sentito l’aria al sapore di mare per la prima volta. I primi incerti passi col timore di aver dimenticato come si cammina e l’attenzione ai dettagli di un mondo che appariva colorato come mai prima. Il primo giorno della creazione era passato.

Nel Sahel sappiamo di non essere onnipotenti e neppure ci proviamo. La vita dura poco e, quando c’è, è fragile, limitata e provvisoria come tutto il resto. Si arriva per caso o comunque senza volerlo, si parte talvolta all’improvviso e raramente preparati come si deve. Nessuno pretende di dettare legge alla vita o semplicemente immaginare di pretendere ciò che non si possiede. Si vive ogni giorno per miracolo o per abitudine e questo basta perché le ore abbiano un senso e una direzione. Si nasce in qualche modo con una promessa da compiere che sta scritta sulla sabbia e basta un poco di vento per imbrogliarne il tracciato. Lo sanno tutti che i diritti sono un lusso che pochi possono permettersi. La vita non si spiega ma si vive.

Non parliamo poi del lavoro che arriva, si perde, scompare una mattina e poi si nasconde per qualche settimana per riapparire, come se niente fosse, un paio d’anni dopo in un ufficio qualsiasi dell’amministrazione penitenziaria. La limitatezza dei contratti inesistenti e il precariato che va in giro con forbici, macchina per cucire, pantaloni da vendere, liquori da spacciare, thermos e il thé per la colazione ambulante, sono il nostro lavoro. Ci sono, è vero, industrie di estrazione e qualcuna di trasformazione, treni che non passano e binari in attesa di treno e mercanzie, ma tutti sanno che, in fondo, a dare il lavoro è solo Dio, inshallah. Noterete negozi di ‘Prêt-à-Porter’, pannelli pubblicitari e bar d’occasione. Passate una settimana dopo e di tutte queste illusorie entità lavorative non troverete traccia. Il Comune le ha demolite.

Se c’è un ambito nel quale la limitatezza si realizza con squisita fattura, è quello della politica. Anche i bambini che giocano nei cortili o lungo le strade lo sanno bene. La politica e l’economia sono l’arte del limite applicato ai cittadini. Solo con i mandati presidenziali, per un attimo, questo principio sembra cedere alla realtà del prolungamento indefinito. Ma arriva, inesorabile, l’età, gli acciacchi di stagione e i colpi di stato militare per ricordare agli incauti attentatori del limite costituzionale stabilito, che tutto ha una fine. Progetti, partiti politici, piani di aggiustamento, strategie di sviluppo sostenibile, azioni di contrasto al cambiamento climatico, ruolo imprenditoriale accresciuto per le donne, tutto ciò e molto altro si sposa con la limitatezza delle previsioni più ottimiste. La politica degna di questo nome è quella che rispetta i poveri.  

Eppure tutto ci parla di limitatezza, a partire dal corpo, dall’età che li scolpisce, dagli affetti e dalla vita che un giorno ci lascia per emigrare altrove. Educare al limite, inteso come frontiera aperta all’accettazione riconoscente della creaturalità che ci costituisce, dovrebbe essere uno dei compiti della scuola. È però soprattutto nella famiglia che si dovrebbe imparare a comporre l’elogio della finitezza perché lì la vita si rivela nella sua quotidiana avventura. Qui nel Sahel sappiamo che tutto parla di fragilità. Il presente, il futuro, il cibo, la semina, il raccolto, lo stato di urgenza dovuto ai gruppi armati, l’incertezza di tornare a una casa che forse è stata spazzata via dall’ultima inondazione e del matrimonio, che dura finchè lo porta il vento. Qui amiamo la materialità, la prossimità, la vicinanza degli antenati e crediamo nella follia dei corpi.

Il capitalismo è nato da recinzioni che hanno segregato quanto era patrimonio comune solo per iniziare ad abbattere tutti i limiti che incontrava sul suo cammino. La lotta al capitalismo, se vuole essere onesta con sé, non può non passare attraverso il ricupero della limitatezza che ponga le premesse per la sconfitta totale di questa dittatura. La stessa ecologia, slegata dal limite creaturale, rischia di trasformarsi in un inedito e ambìto nuovo settore del liberalismo. Ritorno alla natura, e l’applicazione abusiva dell’ingegneria genetica è uno dei paradossi drammatici del nostro tempo.  La limitatezza nasce dall’ascolto della pioggia che cade, del fiore che sboccia nel deserto, del vagito di un bimbo, del silenzio paziente delle stelle, del volto scavato di un padre, di una madre che carezza il futuro della figlia e di nostra sorella morte, che ci prenderà per mano.


         Mauro Armanino, Niamey, 11 luglio 2021

       (Ndr: è stata scelta l'immagine di una croce, perché indicata all'articolo)                    

lunedì 5 luglio 2021

PER NON DIMENTICARE ...VITTORIO POZZO, allenatore della Nazionale Italiana di calcio

Ciclo sulla Tomba di Vittorio Pozzo nel Cimitero di Ponderano (BI)

PER NON DIMENTICARE..

All’indomani della vittoria

della nostra Nazionale di calcio

contro il Belgio

mi sono sentito in dovere

di una riverente visita

alla tomba del leggendario 

VITTORIO POZZO,

l’allenatore che la portò

a ben due titoli mondiali consecutivi

negli anni Trenta del secolo scorso.


Forse ben pochi sanno

che si trova sepolto

nel Cimitero piemontese 

di Ponderano (BI).


LA CAPPELLA DELLA FAMIGLIA POZZO


LA LAPIDE DI VITTORIO POZZO

 

UNA VETRATA MARIANA DEL CIMITERO

…………………………..


(Ponderano 3-7-2021), Padre Nicola Galeno


venerdì 2 luglio 2021

VITA E DESTINO DEL SAHEL di Padre MAURO ARMANINO

 

      Vita e destino del Sahel

Non smetteva di piangere. Attaccata a sua madre continuava a lamentarsi per fame, sonno e stanchezza. Maria Paola non avrebbe dovuto esserci. Lei, frutto di uno stupro operato da militari o sedicenti tali, nel Cameroun travagliato da anni di insofferenze politiche e spinte autonomiste nella parte anglofona del Paese. Sua madre la stringe a sé e racconta che ha scelto di farla vivere in lei per i mesi necessari alla nascita perché crede in Dio che dice di non uccidere. Le avevano detto che non avrebbe rimpianto di farla nascere, un giorno. Lei ha tre figli di tre padri differenti perché il primo è morto, il secondo se n’è andato perché non ha riconosciuto la sua paternità e il terzo è quello che l’ha violentata. Maria Paola si addormenta perché il pianto e il calore di sua madre l’hanno cullata. Poteva non esserci, stamane, quando sua madre è passata per raccontare la sua vita di rifugiata con tre bambini a cui accudire. Senza un padre che le stia accanto, una casa degna di questo nome e un futuro fatto di frammenti umanitari da incollare.

Abdal ha perso la sua famiglia a causa della guerra che la malattia chiamata Ebola ha scelto di combattere nel suo Paese, la Sierra Leone, in Africa Occidentale. E’ un Paese inventato dal nulla per dare una terra agli schiavi africani resi liberi da un decreto di sua maestà il re d’Inghilterra del 1792. La guerra civile degli anni novanta, con amputazioni e massacri inenarrabili, hanno reso i diamanti del Paese ancora più insanguinati. Abdal, dopo aver valutato i messaggi su ‘Facebook’ di alcuni compatrioti, opta per la migrazione in Algeria, dove sembra che ci siano lavoro, soldi e possibilità di un destino migliore. Dopo Gao, nel Mali, è naturalmente fatto prigioniero dai gruppi di banditi ribelli che estorcono denaro ai migranti in transito. Terminati i due mesi di detenzione e pagato il riscatto di 300 dollari, Adbal arriva finalmente in Algeria e da Adra passa nella città di Oran dove, con altre decine di migranti dell’Africa subsahariana, lavora in un cantiere edile. In questa città i cinesi costruiscono un nuovo stadio e lo pagano regolarmente, col vitto assicurato, a 1 200 dinari al giorno. Decide poi di raggiungere la capitale e impara il mestiere di piastrellista.

La madre di Maria Paola, bimba di un anno e mezzo e innocente frutto di una violenza di cui lei ancora non sa nulla, cerca un altro lavoro. Quanto riceve dall’Alto Commissariato per i Rifugiati (HCR) non arriva a soddisfare i bisogni dei tre figli senza padri. Si era impegnata, come donna di pulizie, nella casa di una signora dal mattino a sera, che naturalmente la sfruttava. Si è licenziata ieri e cerca lavoro, formazione, consiglio, riconoscimento e soprattutto l’opportunità di ricostruire la sua vita spezzata dal destino. Il Niger, Paese più giovane e più povero del mondo, si è trasformato in questi ultimi e convulsi anni, in terra di transito e di rifugio per migliaia di persone le cui radici sono state divelte. La madre di Maria Paola, fuggita dal suo Paese perché perseguitata, ha raggiunto il Niger perché ha saputo che qui l’HCR offre possibilità che altrove non esistono. Lei, la madre, torna alla casa di asilo con la bimba che dorme appesa al suo dorso.

Abdal, ormai con un mestiere, ha trovato lavoro in un cantiere della capitale Algeri. Nel ricuperare del materiale cade con un amico dal settimo piano dell’immobile. Rimane sei mesi all’ospedale mentre il suo compagno muore sul posto. Con una colletta di amici riprende il viaggio di ritorno che si ferma, almeno per ora, a Niamey. Abdal, operato più volte, mostra le cicatrici ritagliate sul suo corpo e si muove con una stampella. Dice che tornare al suo Paese, dove non c’è più nessuno, è inutile. Abbisogna di una visita specialistica ed è incapace di lavorare. Abdal ha 27 anni e una stampella per puntellare il suo destino.

                         

         Mauro Armanino, Niamey, 4 luglio 2021


BENVENUTO|

Il Paradiso non può attendere: dobbiamo già cercare il nostro Cielo qui sulla terra! Questo blog tratterà di argomenti spirituali e testimonianze, con uno sguardo rivolto al Carmelo ed ai suoi Santi