AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

domenica 3 febbraio 2013

REBECCA


Avrà avuto due anni, forse meno, ma possedeva già una parlantina sciolta.
Un giorno, Padre Clemente, che era passato a trovare sua madre, sorella di zia Maria, una focolarina molto legata ai Padri Francescani, pensando che la mamma non avrebbe offerto nulla a quel grande Padre con la barba lunga, corse in giardino, colse una rosa, e gliela offrì. Poi si accomodò in braccio a quel signore (Rebecca non comprendeva la differenza tra un religioso e un uomo comune) e cominciò a giocare con quella barba lanosa che a lei piaceva molto. Gli poneva molte domande, gli raccontava tutto quello che le passava per la testa. Così, ridendo, il Padre disse: “Questa bambina, quando diverrà grande, se si farà suora, la nomineranno subito superiora, e se si sposerà, farà ammattire il marito!”. In realtà, Rebecca era molto timida, ma se una persona le suscitava immediata simpatia, si concedeva tutte le confidenze del mondo.
Rebecca vedeva molto spesso il medico di famiglia, perché era soggetta a febbri altissime, a bronchiti e polmoniti e ogni due per tre si ammalava. La mamma doveva assisterla notte e giorno, per timore di complicazioni. Quando il medico, per auscultarla, appoggiava l’orecchio al suo piccolo petto, o alla schiena, Rebecca strillava: “Acciami tale, che hai la babba che becca come quella del mio papà!”. Il medico arrivava di notte, o la mattina all’alba, per assistere questa bambina spesso ammalata, non aveva dunque tempo di radersi.
Così, quando Rebecca sentiva il rombo della Gilera rossa del dottor Panitz, si infilava sotto le coperte, e non voleva saperne di venir fuori. Non aveva timore di un’iniezione, piuttosto di quel cucchiaio che il dottore le metteva in bocca per abbassare la lingua, e osservarle la gola irritata. Le faceva venire conati di vomito, e poi…quella barba pungente, proprio la detestava. Rebecca era il nomignolo che le aveva affibbiato il dottore, perché lei si ribellava quando doveva essere visitata, e gli rispondeva a trionfo. Rebecca foneticamente assomiglia al vocabolo ribelle, e anche al verbo rimbeccare. Perfetto quindi per quella mocciosa dispotica e indocile.
Suo padre, che lei vedeva due volte l’anno, per Natale e Pasqua, lavorava in Svizzera, vicino a Zurigo, e per tornare in famiglia, gli ci voleva quasi una giornata di viaggio, così che quando bussava alla porta di casa, la sua barba era ispida e pungeva le guance della piccola, quando se la stringeva a sé.
Insomma, da quegli uomini che pungevano, a Rebecca non piaceva essere baciata, anche se voleva a entrambi un mondo di bene. Per questo adorava la barba di Padre Clemente che, essendo lunga, aveva una morbidezza tutta particolare: era come accarezzare un gattino.
Ma se voi pensate che Rebecca fosse sempre allettata, vi sbagliate. Quando stava bene, viveva possibilmente all’aria aperta e ne combinava di cotte e di crude. Un giorno, all’età in cui comincia questo racconto, vide una scala di legno, a pioli, appoggiata al susino cresciuto nel cortile di nonna. Un grande albero dalla chioma ampia, dai rami estesi e colmo di susine. Un piolo alla volta, piano piano, e Rebecca arrivò alla forcella formata da due rami, e lì si sedette, felice di aver completato la scalata, di aver raggiunto la sua meta. Che bello guardare giù, tutto appariva piccolo, e lei si sentiva una regina che ammirava il suo regno. Però, quando si trattò di scendere, vide che non era in grado di raggiungere la scala, che le sembrava troppo distante e fu colta da una sensazione di vertigine. Che fare? Rimase sull’albero, mangiando le susine che erano vicine, inghiottendo anche il nocciolo, perché nessuno le aveva insegnato che non va mangiato, e attese. Dopo qualche ora (così a lei pareva, magari erano trascorsi pochi minuti) sentì che la chiamavano. E lei non rispondeva, temendo di buscarle. Poi qualcuno alzò gli occhi in alto, forse per chiedere aiuto al Cielo, probabilmente pensando che avessero rapito Rebecca. Fu così che la videro. La recuperarono…e lei guadagnò sonore sculacciate, che però non le impedirono di cercare nuove avventure.
Un giorno, con il cuginetto quasi coetaneo, salì in soffitta. Le finestre erano a filo del pavimento e i due bambini, con le gambe penzoloni nel vuoto, si divertivano a lanciare pannocchie di granoturco nel pollaio sottostante,intenzionati a dare da mangiare alle galline. La nonna, dalla finestra della cucina, vedeva le pannocchie precipitare nel pollaio, spaventando le galline. Borbottò: “Ma che topi grossi ci sono, per far rotolare le pannocchie fuori dalla finestra?”. Immaginava certo di quali topi si trattasse, e non erano di sicuro Topolino e Minnie, e neppure Stilton, tanto meno Speedy Gonzales. Facendo piano, scalza, salì le scale per non farsi sentire, e giunta in soffitta e, scoperto gli autori della marachella, disse loro: “Ma che bravi bambini, cosa state facendo?”. “Stiamo dando da mangiare alle galline, poverine!”. “Bravissimi!”, disse nonna, e li afferrò per la collottola, tirandoli via dal pericolo e poi li suonò di santa ragione.
Le avventure finirono così? Rebecca non aveva paura di nulla, né del pericolo, che non conosceva, né delle sculacciate degli adulti. Era troppo bello esplorare il mondo, per rinunciarci. Fu così che un altro giorno, scoperto che la nonna tagliava a spicchi sottili le mele, e poi li appoggiava su una specie di graticola, esponendoli al sole, fuori dalla finestrella dell’abbaino che si affacciava direttamente sul tetto di casa, decise di andare a rubarle. Le mele così trattate, duravano tutto l’inverno, ed era una delizia sgranocchiarle nelle vicinanze del camino. Era ancora estate, e l’avventura stava per iniziare.
Con il cuginetto, salirono ancora in soffitta, presero una sedia e salirono nell’abbaino, e poiché la graticola era appoggiata alle tegole del tetto, niente di meglio per loro, sedersi direttamente sul tegolato.
La nonna - ah quella donna dagli occhi di lince! – li vide dall’orto, e come suo fare, risalì in silenzio le scale, li afferrò per un braccio, li trascinò fuori dal pericolo, e somministrò loro una bella dose di schiaffi. Era spaventata, la nonna Ina, ma i nipotini non si sentivano così colpevoli da essere puniti. Ma come? Avevano avuto una bellissima avventura, e la nonna invece di applaudirli, battendo le sue mani tra loro, usava una sola mano, e applaudiva sulle loro guance? Roba da non credere!
Tra avventure di questo tipo, qualche anno passò e Rebecca, che aveva quasi cinque anni, aveva una gran nostalgia della casa dei nonni paterni, che distava circa due chilometri dalla sua abitazione. La strada la conosceva bene, era una lunga serpentina di polvere bianca, affiancata da  filari di gelsi, che offrivano more nere e bianche, dolcissime. Niente di meglio che, accompagnata da un’amichetta, decidere di affrontare la lunga passeggiata fino alla fattoria dei nonni. Strada facendo le due bimbe coglievano pratoline, miosotis e botton d’oro, riunendoli in mazzolini da offrire alla nonna. Dai rami pendenti del gelso staccavano more, impiastricciandosi mani bocca e vestitini. Arrivati a metà del percorso, sotto un sole cocente, incontrarono un contadino con il carretto tirato dall’asino. “Dove state andando, bambine?” Chiese garbatamente l’uomo. “Dai nonni che stanno al Fieno D’Oro”. “Ah, ho capito chi siete! Salite sul carro, che vi porto io!”. Tutte felici, le bambine avrebbero arricchito l’avventura con un’altra ancora più interessante: viaggiare in carrozza, come Cenerentole! Ma l’uomo cambiò strada, e di lì a poco, furono riconsegnate alle rispettive madri. E ricevettero, al posto della merendina, una buona dose di sculacciate. Se quell’uomo, a loro sconosciuto, invece di portarle a casa, avesse cambiato direzione con idee malvagie, cosa sarebbe accaduto loro? Non ci voglio pensare.
Rebecca ora è una signora matura, ma le sue avventure, reali, siano di insegnamento a quei bambini che, incuranti del pericolo, rischiano ogni giorno la loro vita, per imprudenza o troppa fiducia negli sconosciuti.
Danila Oppio

2 commenti:

  1. E' un racconto-favola, dolce come questa bambina il cui nome, forse, vorrà dire ribellione, ma Rebecca è come tante o tanti bambini di quell'allora tempo passato, mai perduto nella nostra memoria, in luoghi dove muoversi significava libertà e per tutti
    Anche per i bambini, certo!.
    Cosa che oggi, cara Danila, quelle piccole monellerie non possono avvenire e se avvenissero, credimi, avrebbero altra fine, di cui tu parli, alla fine.
    Ma Rebecca resta Rebecca e sempre tale sarà.
    Molto bella e piena di significato, questa storia. Grazie
    Gavino

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  2. Grazie Gavino, per il tuo commento! E' vero, un tempo i bambini potevano giocare liberamente, magari incorrendo in pericoli, ma non come quelli odierni! Un tempo i bambini si divertivano con niente, bastava ben poco per allietarli. Oggi non sono contenti di nulla, vogliono giochini elettronici, Disneyland, cellulari e quant'altro, e finiscono con l'annoiarsi di tutto. I pericoli attuali sono ben peggiori: dietro l'angolo appaiono mostri che li sequestrano e abusano, o che li uccidono. Mostri individuali e mostri di guerra. Oppure spacciatori che li insidiano e fanno provare loro paradisi artificiali, dei quali poi non riescono più a farne a meno, seminando dolore nelle famiglie e sconvolgendo la loro vita. Vorrei che i bambini avessero ancora quel mondo pulito, non inquinato da sozzure di ogni tipo. E molto meglio le sculacciate dei nonni e genitori, piuttosto che le bastonate della vita!

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Il Paradiso non può attendere: dobbiamo già cercare il nostro Cielo qui sulla terra! Questo blog tratterà di argomenti spirituali e testimonianze, con uno sguardo rivolto al Carmelo ed ai suoi Santi