4 – LO STILE DI FIGLI
c – NON AVRAI ALTRO DIO DI FUORI DI ME
1. RICCO EPULONE C-188
«C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con gli avanzi che cadevano dalla mensa del ricco. Persino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Poi morì anche il ricco e fu sepolto. Finito nell'Ade fra i tormenti, alzando lo sguardo verso l'alto, vide da lontano Abramo e Lazzaro che era con lui. Allora gridò: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che hai ricevuto la tua parte di beni durante la tua vita e Lazzaro, parimenti le sofferenze. Ma adesso lui è consolato, tu invece sei tormentato. Per di più, tra noi e voi c'è un grande abisso. Se qualcuno di noi vuol passare da voi, non lo può fare; così pure nessuno di voi può venire da noi”. Quello disse: “Allora, padre, ti supplico di inviarlo a casa di mio padre. Ho cinque fratelli e vorrei che li ammonisca a non venire anche loro in questo luogo di tormento”.
Abramo rispose: “Hanno Mosè ed i profeti: li ascoltino!”. Quello replicò:”No, padre Abramo; ma se qualcuno dai morti andrà da loro, cambieranno il modo di vivere”. Abramo disse: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno convincere neppure se qualcuno risorge dai morti”». Luca 16, 19,31
Una parabola pericolosa per le semplificazioni abusive cui può dar luogo.
Ad esempio: tutto è rimandato all'aldilà. Solo allora ci sarà il rovesciamento delle situazioni presenti: i ricchi all'inferno ed i poveri in paradiso. Giustizia è fatta. Per cui: i poveri devono solamente pazientare un poco, giusto il tempo che i ricchi finiscano tranquillamente il loro banchetto e ricevano una bella sepoltura... Poi, gli appartenenti alla categoria di Lazzaro si prenderanno la loro strepitosa rivincita.
Nessuna concezione è più opposta allo spirito della Bibbia di simile “rassegnazione”, di questo rimandare all'aldilà le soluzioni delle ingiustizie presenti.
La fede – non dimentichiamolo – è anche principio d'indignazione, di lotta, non solo di rassegnazione.
Il giudizio di Dio va letto e proclamato anche nella storia presente, non rimandato all'ultimo giorno.
Cerchiamo quindi, di cogliere la parabola nel suo significato più genuino.
• Il povero ha un nome piuttosto comune nell'ebraismo: Lazzaro (da Eleazaro, che significa “Dio aiuta”, “Yahweh viene in soccorso”).
Il ricco, invece, non ha nome. Secondo la concezione semitica, il nome esprime la realtà profonda delle persone, riassume la sua storia. Ora, questo ricco non ha nome perché ha costruito la sua esistenza sul vuoto. Ha perso il nome perché ha smarrito le vere ragioni del vivere (non si può vivere per banchettare tutti i giorni).
– Non sono poche, infatti, le persone che hanno smarrito il proprio nome, perché l'hanno sostituito con altri nomi: “denaro”, “carriera”, “potere”, “successo”, “piacere”, “barca”...
E poi chiediamoci: è proprio vero che l'eternità costituisca il rovesciamento radicale della situazione pre-sente? Almeno nel caso del ricco, pare proprio di no.
La sua sorte nell'aldilà non è altro che la fissazione definitiva di ciò che vive (o non-vive) oggi, il prolungamento di ciò che è (o, non-è) sulla terra. Lui è un isolato. Impegnato a guardare nel piatto ricolmo, non vede il povero che sta alla sua porta. I cani vedono meglio di lui.
Ora, l'inferno non è altro che la “consacrazione” di questo stato di separazione: separazione da Dio e dai suoi amici (Abramo, Lazzaro), perché quaggiù è vissuto lontano dagli altri, separato dai veri valori, attaccato unicamente all'avere, appiccicato al piacere egoistico, separato dal se stesso più autentico.
Il ricco in questione era già un “dannato” durante la sua esistenza terrena, scandita da regolari abbuffate, perché imprigionato nel suo “privato”. Perché privato dal senso della vita.
Si obietterà: ci sono però anche i tormenti. Mentre sulla terra l'individuo ha goduto, si è divertito, se l'è spassata. Almeno in questo, sembrerebbe, la situazione dell'aldilà costituisce un capovolgimento.
Ma proprio sicuri che il banchettare spensieratamente, indossare vestiti di gran lusso, accumulare denaro, sia sorgente di felicità?
Ritengo non ci sia tormento maggiore di una vita vuota, o riempita di cose inutili, che è lo stesso. Non ci sia tortura più lancinante dell'isolamento, della chiusura agli altri, del non vedere al di là del proprio “io”, del non saper usare le mani nel gesto del dono, del soffocare le esigenze dello spirito. Anche se questo tormento, quest'angoscia sono soffocati con l'allegria e la spensieratezza, con il chiasso stordente, la dissipazione. Se cadessero le maschere, vedremmo spalancarsi ferite profonde, abissi di disperazione. Un inferno, appunto. Già su questa terra. Un inferno dotato di tutti i comfort.
•• La parabola evangelica, più che descriverci la geografia dell'aldilà, più che informarci di ciò che avviene nell'altra vita, ci ammonisce severamente che la sorte dell'uomo si gioca oggi, quaggiù, in questo momento. È il presente che viene “fissato” in eternità.
È l'al di qua che viene trasformato in al di là. Il ricco pare accorgersi di aver bisogno degli altri (di Abramo, oppure di Lazzaro) quando ormai ha “passato” l'abisso, quando non è più in tempo. E sembra occuparsi degli altri (i suoi cinque fratelli) in ritardo.
Gli incontri, infatti, avvengono quaggiù; gli appuntamenti decisivi sono per l'oggi.
È soltanto l'oggi, qui, che si può essere liberati dal proprio passato, e garantirsi quindi il futuro.
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Esistono ricette per dimenticare il passato e non temere il futuro?
Il rimedio facile non esiste, giacché è impossibile vivere senza dar peso agli avvenimenti che han lasciato tracce in noi, soprattutto riguardo al male. Questi, a loro volta, ci predispongono e ci marcano per il futuro.
Però, sì, deve esistere un’attitudine d’abbandono e di confidenza in Dio, e da questa fede, cercar di vivere soltanto il momento presente. [Approfondimento nell'argomento, cfr. pag. 6 in appendice]
Un proverbio ascetico afferma:
«L'ora che tu vivi, il compito che adempi,
l'uomo che tu incontri in questo momento
sono i più importanti della tua vita».
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«Hanno Mosè ed i profeti: li ascoltino!». E anche noi abbiamo, per questo, “Mosè ed i profeti”, ossia la Parola di Dio. Non abbiamo bisogno di miracoli eccezionali, come quello di un morto che venga ad ammonirci (come vorrebbe il ricco per i suoi fratelli). La fede non nasce dai miracoli. Non è un morto resuscitato ma la Parola di Dio che risuona nel nostro cuore che può farci aprire gli occhi. È la Parola il vero miracolo, che può provocare un risurrezione.
Nessuna conversione può essere fondata su un miracolo spettacolare e la paura.
Certo, la risurrezione di Cristo è un miracolo, il grande miracolo. Tuttavia, anche questo miracolo è trasformato, per noi, in Parola efficace, in predicazione. E siamo beati perché, pur non avendo visto Gesù uscire dal sepolcro, ascoltando la Parola di Dio usciamo dal nostro sepolcro e usciamo alla scoperta dei fratelli.
«Gesù non cerca principalmente di spaventarci con un inferno futuro o di consolarci con un paradiso futuro. Intende, piuttosto mostrarci come il cielo cammini là dove risuona la Parola di Dio che permette ad un uomo di trovare il proprio fratello» (A. Maillot). (Pronzato- Pane per la Domenica C- p. 187)
2 – UN UOMO A COLLOQUIO COI SUOI BENI. (Ricco sazio e stolto)
«Le terre di un uomo ricco avevano dato un buon raccolto.
Egli ragionava tra sé cosi: “Ora non ho più dove mettere i miei raccolti: che cosa farò? E disse: “Farò così: demolirò i miri magazzini e ne costruirò altri più grandi, così che raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso:vAnima mia, hai disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita e a chi andranno le ricchezze che hai accumulato?”.
Così accade a chi accumula ricchezze solo per sé e non si arricchisce davanti a Dio». Luca 12. 16-21
Ciò che colpisce maggiormente in quest'uomo ricco ed avido della parabola evangelica è la sua solitudine. Qualcosa di tetro, terrificante. Nessuno è solo come quest'uomo che è circondato, quasi soffocato dai suoi beni. Può contare le sue rendite; lo vediamo a colloquio con le cifre. La sua voce ha il suono dei soldi.
È un individuo senza nome, senza volto [Come il ricco epulone, non ha moglie, figli, amici. L'unico legame stretto sono i suoi beni materiali. S'identifica con le proprie ricchezze. Lui stesso diventa campo, granaio, frumento, magazzino, portafoglio. Non è più un uomo. È una cosa in mezzo alle cose.
I beni, invece di essere veicolo di relazione con gli altri, per lui sono cose da accumulare, conservare, proteggere, difendere. Invece di essere mezzi [anticamente si diceva, giustamente, che uno aveva tanti “mezzi”], diventano fine cui si sacrifica tutto.
Quest'uomo squallido è un prigioniero. Può anche ampliare i magazzini. Ma non ne uscirà più.
È un uomo chiuso, senz'avvenire. Proprio lui che s'illude di stare al sicuro per molti anni.
Allorché viene pronunziata la terribile sentenza: «Questa notte stessa ti sarà richiesta la tu vita», in realtà lui è già morto da un pezzo. La sentenza l'ha pronunziata lui stesso su di sé. Giustamente è stato rilevato [A. Maillot] che «più che una punizione, è un esaudimento».
• Lo si definisce “stolto”. Perché?
– Perché fonda la propria sicurezza sull'avere e non sull'essere.
– Perché s'identifica con le cose, e non le trasforma in sacramento di comunione con i fratelli.
– Perché crede che molto denaro significhi molta vita.
– Perché pensa che il possesso egoistico dia gioia.
– Perché non sospetta che, anche se i conti tornano, la sua esistenza è un fallimento.
– Perché non capisce che “l'io non ha altra protezione che il darsi, il perdersi” (A. Paoli).
– Perché non si rende conto che non è possibile riempire il vuoto con l'ingombro.
– Perché non si avvede che la vita va riempita di amicizia, di dono, di relazioni, non di cose.
Proviamo, ora a trarre alcune conseguenze.
* Il possesso è sempre una limitazione. “Chiunque acquista un campo e lo recinge, si priva del resto della natura, s'impoverisce di tutto il resto.” (E. Cardenal).
Il possesso è soprattutto limitazione di libertà. «Non avete mai notato che essere ricco si traduce sempre in un impoverimento su un altro piano? Basta dire: “Possiedo questo orologio, è mio!”, e rinchiudere la mano su di esso per avere un orologio, e aver perduto una mano» (A. Bloom). Il nostro spirito, il nostro cuore, tendono a rimpicciolirsi, a restringersi alle dimensioni degli oggetti sui quali si rinchiudono, alle dimensioni dei beni sui quali si ripiegano.
* La ricchezza è falsificazione delle cose, perché falsa i rapporti con esse. Il ricco crede che il suo certificato di possesso lo leghi intimamente ai beni.
Ma è una colossale illusione. Le cose, come le persone, hanno una “soglia d'inviolabilità”, un “limite d'invalicabilità che non possono essere forzati da un diritto derivante semplicemente dal denaro. Una cosa non si lascia “violare dal portafoglio (le persone, qualche volta, sì...). Per questo, anche se mi appartiene, essa rimane inviolata nella sua essenza più vera, e mi lascerò sempre insoddisfatto.
La cosa mi rimane ostinatamente “estranea”; mi sfuggirà di mano anche se la trattengo, anzi, proprio perché pretendo afferrarla, tenerla, mi sorriderà beffarda, intatta, intoccabile.
Per entrare in unione intima con un bene creato, la proprietà legata ai soldi, al diritto, può costituire un ostacolo.
La facoltà di possedere si colloca al livello più profondo di noi stessi, là dove un oggetto esterno può entrare sol-tanto interiorizzandosi. (Liberamente da Pronzato- Pane per la Domenica C- p. 159)
Per possedere veramente una cosa, bisogna stabilire con essa non un rapporto di possesso, di aggressività, ma di partecipazione, di meraviglia, di contemplazione.
È l'uomo liturgico, non l'uomo economico che è in armonia col creato. La terra appartiene ai “miti”, ossia a coloro che non rivendicano nulla. Solo chi prega, avendo le mani vuote, può pregare nelle cose e con le cose.
C'è un momento nella Messa, in cui ci viene ricordato l'uso corretto che dobbiamo fare delle mani. L'offertorio è il momento della consacrazione delle mani; quelle mani che ritrovano la loro funzione più vera nel gesto dell'offerta: “... Dalle tue mani abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell'uomo”
Le mani mi sono state date per dare. Chi le usa, abitualmente, soltanto per prendere, tenere, arraffare, non ha ancora imparato ad adoperarle, anche se è molto avanti negli anni. Soprattutto non ha ancora guatato la gioia più grande: la gioia di donare.
Ci si preoccupa d'insegnare a camminare; e il giorno in cui il bambino muove i primi passi segna un grosso avvenimento in famiglia. Bisognerebbe far festa quando il bambino inizia ad usare le mani nell'unica maniera corretta, che è la maniera di dare.
Ci si preoccupa delle mani sudicie. In realtà, le mani sono sporche soltanto quando “trattengono” qualcosa.
Un cristiano, ossia un cercatore di Dio, supererà la tentazione di fermarsi, soltanto se sarà capace di trasformare le realtà terrestri in “segno” e “dono”. Soltanto se imparerà ad usare le mani nell'unica maniera “giusta”.
I nostri conti, a differenza di quelli dello “stolto” della parabola, tornano, quando tornano i conti degli altri.
3. LA BRAMA DEL POSSESSO PORTA AL “SUICIDIO” (I vignaioli omicidi)
«… C'era un padrone che piantò una vigna e la circondò di una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l'affidò a dei vignaioli e se ne andò.
Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l'altro lo uccisero, l'altro lo lapidarono. Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono allo stesso modo. Gli restava ancora uno: il suo figlio diletto. Inviò anche lui per ultimo dicendosi: “Avranno rispetto di mio figlio!”. Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero fra sé: “Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità”. E presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l'uccisero». Marco 12, 1-8
Quanti elementi in questa parabola! Ma attenzione: come è facile identificare il padrone con Dio, la vigna con Israele, i vignaioli con i responsabili del popolo eletto, i servi con i profeti,... non è necessario indagare sul significato del torchio, della siepe, della torre: tutti elementi che sono soltanto in funzione della narrazione e che esprimono la cura, la sollecitudine di Dio verso il suo popolo.
A proposito dei profeti, bisogna riconoscere che i loro rapporti con la “vigna di Dio” sono stati tutt'altro che idilliaci. O profeti non possono tollerare le deviazioni, la gente e i suoi capi non possono soffrire quegli intrusi. Così la loro storia è sempre piuttosto drammatica.
Sei (6) di loro andarono incontro ad una morte violenta.
[Amos: massacrato a colpi di mazza dal figlio del sacerdote Amasiah – Michea: precipitato giù da uno spuntone roccioso dal figlio del re Joran – Isaia: segato in due – Geremia: lapidato in Egitto dal popolo inferocito. – Eze-chiele: ucciso a Babilonia dal capo del popolo – Zaccaria: trucidato fa Joias, re di Giuda, presso l'altare del tempio.]
Giustificato il lamento di Gesù: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati ...». (Mt 23, 37).
Da una parte abbiamo i ripetuti tentativi di Dio – espressi nella missione di molti profeti – dall'altra il rifiuto costante di Israele. Con la missione del figlio, si mette in evidenza l'ultimo tentativo compiuto da Dio, il suo estremo “messaggio” ai ribelli.
Marco preciserà: «... Ancora uno gli restava, il Figlio diletto». Qualcuno, traduce «Inviò Lui, per ultimo», per sottolineare meglio la drammaticità della situazione. Sembra che Dio si sia ridotto sull'orlo della povertà: gli resta soltanto il figlio. È l'ultimo tesoro da rischiare in quel gioco drammatico.
Adesso Dio è veramente il Povero per eccellenza: povero perché ha donato tutto; nella sua passione per gli uomini, non ha tenuto per sé neppure il Figlio.
•• Qual è il messaggio di fondo?
Siamo – direbbero gli esperti – in una parabola di giudizio. Chi sono gli imputati? Come si configura il capo d'accusa? Quale la sentenza?
– Imputati. Sono principalmente i capi, i responsabili del popolo. Ma neppure Israele, nel suo insieme, è immune dalla colpa. La sua religiosità, infatti, non sempre è gradita a Dio e i suoi frutti non rispondono alle attese di Yahweh [Ma sul banco degli accusati c'è posto anche per il popolo della Nuova Alleanza, perché la situazione denunciata da Gesù può sempre ripetersi].
– Capo d'accusa. L'appropriazione dei frutti, L'aver agito come se la vigna fosse proprietà personale, il non riconoscere di dover rispondere a Dio della gestione. [Cfr parabola del fico sterile].
– La sentenza. Non riguarda la distruzione della vigna, ma il suo passaggio ad altri coltivatori. La punizione più grave che tocca ai vignaioli omicidi consiste essenzialmente nel venir sostituiti da altri. (E questo dispositivo di sentenza scatta in tutti i tempi. E le Chiese che si appellano a Cristo dovranno sempre tener presente simile possibilità. Ecco l'ammonimento).
Dio può anche venir sconfitto dalla malvagità degli uomini. Non per questo s'interrompe il suo progetto. La morte del Figlio non mette fine al suo piano di salvezza. Anzi, questo si realizza proprio a partire dal “misfatto”.
•• Due osservazioni conclusive.
1. La condotta dei contadini si giudica durante la lontananza del padrone. Si direbbe che l'assenza di Dio garantisca il lavoro dell'uomo. Nessuno è disoccupato, grazie ad essa.
È stato notato: «Il Dio della fiducia è anche il Dio dell'“assenza”.
Ma bisogna comprendere esattamente tale “assenza”. Essa significa soltanto che Dio ci prende sul serio, ci lascia il campo libero. Scompare. Lascia il suo posto. Non si tratta né di abbandono, né di evasione, né di diserzione. È un segno d'amore. Si potrebbe affermare che se ne va il “Dio dei filosofi” e dei sapienti, e resta in mezzo a noi unicamente il Dio fiducioso, ma debole, della Rivelazione. Il Dio che intende agire esclusivamente attraverso l'amore che porta agli uomini» (A. Maillot – Pronzato - Pane della Domenica - C ).
2. C'è una specie di inquietante parallelismo tra la condotta dei vignaioli e il comportamento del padrone.
Quelli, ostinati nel rifiuto e nella malvagità. Lui, ostinato nella proposta, nella dolcezza e nella pazienza.
Incomprensibili gli uni, ma incomprensibile anche l'Altro.
E fanno tutti un calcolo errato a riguardo del figlio.
Lui: «Avranno rispetto di mio figlio!». Loro: «Uccidiamolo, e avremo noi l'eredità».
I nostri atteggiamenti e quelli di Dio sono paralleli. Ma vanno in senso contrario.
E il paradosso sta proprio qui: Dio ci raggiunge, ha la meglio su di noi, muovendo da una posizione opposta alla nostra. Non ci rincorre. Ci viene incontro. Ce lo troviamo di fronte (mentre credevamo di avergli voltato le spalle. Siamo costretti a guardarlo in volto.
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Meditazione: VIVERE IL PRESENTE di CHIARA LUBICH
Per amare Dio occorre fare la sua volontà. Ma la sua volontà si presenta momento per momento. Essa può essere espressa da circostanze esterne, dai propri doveri, da un consiglio di persone sagge o che ti rappresentano Dio. O anche da un imprevisto doloroso, e gioioso, o noioso, o indifferente.
E chi la comprende è lo spirito attento, l'anima vigile. Non per nulla il Vangelo parla così spesso di vigilanza.
Ed è proprio il Vangelo che concentra l'uomo sul presente quando, non volendo che si preoccupi del futuro, fa chiedere il pane al Padre solo per «oggi», ed invita a portar la croce di «oggi», e dice che basta l'affanno di «ogni giorno». È ancora il Vangelo che ammonisce: «Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
• Noi, per abituarci a vivere bene il presente, dobbiamo saper dimenticare il passato e non preoccuparci del futuro. E ciò è sapienza: giacché il passato non esiste più ed il futuro sarà quando diverrà presente. (...)
All'inizio forse non è del tutto semplice.
Allora occorre, con perfetto abbandono in Dio, credere al suo amore e compiere con decisione quella che si pensa la sua volontà, con la fiducia che, se non lo è, Egli ci rimetterà nel giusto binario. E anche qualora la volontà di Dio apparisse chiara, come quando essa chiama ad un lavoro da compiere per intere ore, c'è sempre una tentazione da vincere, uno scrupolo da cacciare, una preoccupazione da gettare nel cuore di Dio, pensieri peregrini da allontanare, desideri vari cui rinunciare,
• Vivere il presente è un'idea e una prassi straordinariamente ricca.
Vivere il presente innesta, già sin d'ora, la nostra vita terrena nel corso della vita eterna.
Afferma, infatti, s. Francesco di Sales che ogni attimo viene carico di un ordine di Dio e va a sprofondarsi nell'eternità per fissarne ciò che ne abbiamo fatto.
Vivere il presente è poi – per i cristiani che sono nel “mondo” – forse la sola possibilità di farsi santi. Ed è quindi una necessità.
Chiudersi nella volontà di Dio del presente, tutti attenti alla voce di Dio e proiettati nell'esecuzione dei suoi comandi, è aver la possibilità – che solo i monaci hanno –, di obbedire sempre a Dio in un superiore; è esser riparati dalle mura d'un convento ed avvertiti dalla silenziosa e divina "campanella interiore" ad intraprendere le sempre nuove attività nell'unica volontà di Dio su di noi.
• Il presente arriva con un dono particolare, atto a compiere bene il proprio dovere (la "grazia attuale").
«I doveri d’ogni istante, sotto le loro oscure apparenze nascondono la verità del divino Volere; essi sono come i sacramenti del momento presente» – scrive Raissa Maritain.
Papa Giovanni viveva queste norme: «... Io devo fare ogni cosa, recitare ogni orazione, eseguire quella regola, come se non ci avessi altro da fare, come se il Signore m’avesse messo al mondo solo per far bene quel l'azione, ed al buon esito di essa stia attaccata la mia santificazione, senza pensare al dopo o al prima».
• Sembra inoltre che "vivere il presente" sia la regola dei nostri tempi: l'epoca che viviamo spesso non ci permette altro. È quasi finito il tempo di sognare, di contemplare. Oggi si corre. Anzi si corre troppo, e, proprio per non cadere nella nevrosi o impazzire, occorre fermarsi ogni attimo nel presente.
L'analisi del teologo protestante Bonhòffer sui nostri giorni fa pensare:
«Finora ci era sembrato che fosse un diritto inalienabile della vita umana quello di poter progettare un piano di vita, sia dal punto di vista professionale che individuale. Ma le cose sono cambiate. Dalla potenza delle circostanze siamo stati cacciati in una situazione nella quale dobbiamo rinunciare a "pensare al domani" (...). La forzata rinuncia a pianificare il futuro significa, per i più, l'irresponsabile, leggera o rassegnata limitazione al momento (...). Ci rimane soltanto lo stretto sentiero, spesso ancora da scoprire, di prendere ogni giornata come fosse l'ultima e di vivere con fede e senso di responsabilità, come se ci attendesse ancora un grande futuro ».
D'altra parte, c'è chi osserva che anche oggi si può incorrere nell'errore di sempre: quello di soffermarsi su un passato o un futuro che non esistono e trascurare il presente, unica occasione per "vivere" veramente.
Per una strana alienazione – osserva il teologo ortodosso Evdokimov – l'uomo di questo mondo
- vive nel passato, nei suoi ricordi o nell'attesa del suo avvenire;
- quanto al momento presente, egli cerca d’evaderne, esercita il suo spirito inventivo per meglio "ammazzare il tempo”. Quest'uomo non vive nel “qui ed ora”, ma in fantasticherie di cui è inconsapevole.
Il proverbio ascetico afferma: "L'ora che tu vivi, il compito che adempi, l'uomo che tu incontri in questo momento sono i più importanti della tua vita".
Sono tali perché il passato e il futuro, nella loro astratta dislocazione, sono inesistenti, e non hanno accesso all'eternità; questa non converge che verso il momento presente e non si dà che a chi si rende totalmente presente in quel momento. È solo in questi istanti che la si può raggiungere e vivere nell'immagine del presente eterno».
(da Chiara Lubich: "L'essenziale di oggi" - Scntti spirituali/2 - Città Nuova Editrice, Ronia 1978).
COSÌ FACEVA PAPA GIOVANNI XXIII QUANDO CONFIDAVA:
Solo per l’oggi vivrò;
solo per l’oggi avrò la massima attenzione del mio aspetto;
solo per l’oggi m’adatterò alle circostanze;
solo per l’oggi crederò, sarò felice e non avrò timore;
Solo per oggi non berrò – dicono coloro che desiderano smettere di bere –.
Soltanto per questi momenti ed in questo preciso istante,
cercherò di vivere e di comunicare vita.
Allora, perché temere il ieri e il domani?
(da ‘Parabolas de Luz y Vida’ – ed. Monte Carmelo – Burgos)
Padre Claudio Truzzi OCD
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