1. La meditazione della settimana: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”
Domenica scorsa, l’incontro di Gesù con il cieco nato ci ha aiutato a meditare sul mistero della fede. Credere, è accettare di dare fiducia ad un Dio che non abbiamo mai visto ma che si rende visibile nella Chiesa e nella testimonianza degli apostoli; significa guardare la realtà in modo diverso, con più profondità e altezza. Il cammino di santità che abbiamo immaginato di intraprendere all’inizio non è quello che incontriamo oggi seguendo Gesù. Dobbiamo accettare di farci condurre come dei ciechi là dove non sappiamo … Solo la fiducia rende possibile questo atto d’abbandono! Ma può succedere anche che ci sbagliamo nella nostra diagnosi e che drammatizziamo lo stato di malattia di qualcuno. Così Marta pensava che non avrebbe più rivisto suo fratello.
- La felice malattia d’amore
Lazzaro è ammalato e le sue sorelle sono molto preoccupate così da informare Gesù, che è lontano. Ma egli afferma: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». La sua diagnosi sullo stato di salute di Lazzaro è differente: questa malattia non porterà alla sparizione di Lazzaro ma offre l’occasione di manifestare la gloria di Dio che dà la vita. Ciò provocherà in un primo momento una delusione per le sorelle di Lazzaro perché egli morirà e messo nel sepolcro. Gesù tuttavia farà quello che dice. E Marta e Maria dovranno riconoscere il loro errore di diagnosi. Può dunque succedere che noi chiamiamo “malattia” ciò che invece è “salute”, nella vita spirituale, per esempio. Quando qualcuno comincia ad impegnarsi nella sua fede e a vivere il Vangelo, può accadere che i conoscenti gli dicano: “Ti sei ammalato”, oppure: “Non stai bene!”. Oppure, come disse a Gesù la sua famiglia: «È fuori di sé» (Mc 3,21) Secondo il mondo, seguire Gesù, significa ammalarsi visto che ci si comporta in modo strano! Secondo il Vangelo, seguire Gesù, significa recuperare la propria salute spirituale! Possiamo tuttavia utilizzare anche l’immagine dello stato d’innamoramento. Così Giovanni della Croce dice che per andare a Dio, bisogna salire dieci gradini della scala dell’amore e il primo consiste ad ammalarsi, ma ammalarsi d’amore … Cita quindi un versetto del brano del vangelo di questa domenica:
«Diciamo dunque che i gradi della scala d’amore, mediante i quali l’anima successivamente sale a Dio, sono dieci. Il primo grado d’amore fa ammalare l’anima in modo benefico. La sposa si trova in questo grado d’amore quando dice: Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se incontrate l’amato, ditegli che sono malata d’amore (Ct 5,8). Tuttavia questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio (Gv 11,4); infatti in essa l’anima perde vigore quanto al peccato e a tutte le cose che non sono Dio a causa di Dio stesso (…) Infatti, come il malato perde l’appetito e il gusto di tutti i cibi e muta il colore che aveva prima, così anche in questo grado d’amore l’anima perde l’appetito e il gusto di tutte le cose e muta come amante il colore e l’aspetto della vita passata» (II Notte oscura 19,1).
Giovanni della Croce precisa nel suo Cantico spirituale la portata di questa malattia d’amore:
«La causa per cui la malattia d’amore non ha altra cura eccetto la presenza e la figura dell’Amato, come qui dice, è perché, come la sofferenza d’amore è diversa dalle altre malattie, così anche la sua medicina è diversa. (…) Il motivo è perché la salute dell’anima è l’amore di Dio; quindi, quando non possiede perfetto amore, non possiede perfetta salute e perciò è malata. Infatti la malattia non è altro che mancanza di salute, in modo che, quando l’anima non possiede nessun grado d’amore, è morta; ma quando possiede qualche grado di amore di Dio, per quanto minimo, è viva, ma è molto debilitata e inferma a causa del poco amore che possiede; invece, più le aumenta l’amore, più possederà salute e, quando possederà perfetto amore, la sua salute sarà perfetta» (Cantico spirituale B 11, 11).
Colui che si avvina a Gesù non vive più come in precedenza, ma in uno stato diverso, che agli altri sembra strano, un po’ come lo stato di chi è innamorato … Niente più ha gusto al di fuori della presenza dell’amato o dell’amata. Poiché confrontate all’amore di Gesù, tutte le realtà perdono la loro forza di attrazione. È proprio una malattia santa questa malattia d’amore per il Signore! Non abbiamo paura di prenderla poiché essa ci farà camminare molto più velocemente verso le cime del Monte Carmelo!
- Sperare sin da oggi la vita di Dio
Gesù si presenta come Colui che è «la Risurrezione e la Vita». Con lui, non ci sono più vicoli ciechi. Nessuna situazione dolorosa è definitiva, nemmeno la morte. Ma perciò bisogna credere e sperare: sperare al di là di ciò che possiamo comprendere e immaginare. La speranza è una virtù teologale altrettanto importante della fede e della carità, Giovanni della Croce ci fa vedere quanto siamo carenti di speranza perché richiudiamo il futuro nel nostro ricordo del passato. Immaginiamo ciò che ci accadrà in base a ciò che abbiamo vissuto di piacevole o spiacevole. Se abbiamo vissuto esperienze dolorose, preferiamo non aspettarci nulla dal futuro per non soffrire più e non essere delusi. Nella vita spirituale, siamo minacciati dalla mancanza di speranza, cioè, da una mancanza di disponibilità verso ciò che è inatteso. Come se Dio non fosse abbastanza potente o libero per inventare, con noi, una futuro diverso da colui che ci possiamo elaborare noi. Leggiamo così bei testi spirituali e pensiamo: “è magnifico ma non è per me; non ne sono capace, non mettiamoci a sognare!”. È la tentazione di Marta nel vangelo quando Gesù le domanda: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» Invece di dire: “Sì, Signore, credo che tu puoi risuscitare mio fratello, già da oggi”, Marta fa una professione di fede “minimale”: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio». Anche a noi accade lo stesso: Dio ci promette la vita eterna sin da oggi, e noi diciamo, con buona educazione: “Grazie, ma ciò lo tengo per dopo la mia morte”. Così facendo, perdiamo l’occasione di fare un atto di speranza. A questo proposito, Giovanni della Croce ci dice: «Infatti, in relazione a Dio, quanto più l’anima spera, tanto più ottiene» (III MC 7,2). Riceveremo da Dio nella misura in cui ne spereremo!
Perciò è importante custodire grandi desideri per la nostra vita spirituale insieme ad una viva speranza che si prepara a ricevere i doni di Dio più inaspettati. Crediamo nel Dio vivo che dà la vita e dà ciò che è buono. E vuole farlo sin da adesso mediante i sacramenti e la preghiera. Possiamo vivere già ora una trasformazione interiore profonda sino all’unione con Dio, in modo che diventerà quasi spontaneo fare la sua volontà: Giovanni della Croce parla perciò di matrimonio spirituale per simboleggiare questa unione profonda di volontà che è la santità. Questa è la nostra dignità, il senso della nostra vita, e Giovanni della Croce si rivolge a noi in questi termini: «O anime create per queste grandezze e ad esse chiamate! Che fate? In che cosa vi intrattenete?» (Cantico spirituale B 39, 7).
- Come legno totalmente infuocato
Per esprimere questo processo di divinizzazione che Dio ci offre, Giovanni della Croce usa un’immagine che sviluppa nella Notte oscura e nella Fiamma d’amore viva: quella del legno infuocato. Questa immagine è certamente quella che rende meglio conto dell’insegnamento del Dottore mistico sulla pedagogia di Dio. L’essere umano può essere confrontato ad un pezzo di legno. È destinato a partecipare alla vita di Dio simbolizzata dal fuoco. Il lavoro dello Spirito Santo è dunque quello di trasformare il legno della nostra umanità in fuoco divino e ciò accade in diverse tappe, più o meno piacevoli, più o meno chiare:
«Quindi, per maggior chiarezza di quanto è stato detto e di ciò che si dirà, conviene notare che la notizia purificatrice e amorosa o luce divina di cui parliamo agisce con l’anima, purificandola e disponendola per unirla a sé perfettamente, come il fuoco con il ciocco al fine di trasformarlo in sé. Infatti il fuoco materiale, quando si attacca al ciocco, per prima cosa comincia ad asciugarlo, allontanandone l’umidità e facendone stillare l’acqua che ha in sé; poi lo fa diventare nero, oscuro e brutto, e anche di cattivo odore, e facendolo asciugare a poco a poco lo porta alla luce e ne espelle tutte le caratteristiche brutte e oscure contrarie al fuoco; infine, cominciando a infiammarlo dall’esterno e a riscaldarlo, finisce per trasformarlo in sé e farlo diventare bello come il fuoco stesso. In questo processo, il ciocco non contribuisce con alcuna propria passione o azione, salvo la massa e la quantità più densa di quella del fuoco, poiché ha in sé le proprietà del fuoco e le sue azioni; infatti è asciutto, una volta asciutto è caldo, è chiaro e rischiara; è molto più leggero di prima, dal momento che il fuoco opera in lui queste caratteristiche ed effetti. In questo stesso modo, dunque, dobbiamo argomentare circa il fuoco divino d’amore di contemplazione che, prima di unire e di trasformare l’anima in sé, per prima cosa la purifica da tutte le caratteristiche a lui contrarie, le tira fuori le sue brutture e la fa diventare nera e oscura, in modo che sembra peggiore di prima e più brutta e abominevole di com’era. Infatti, poiché la divina purificazione rimuove tutti gli umori cattivi e viziosi che non vedeva, dato che erano ben radicati e stabiliti nell’anima, e così essa non capiva di avere in sé tanto male, ora invece, per espellerli e annientarli, glieli mettono davanti agli occhi e li vede così chiaramente, illuminata dall’oscura luce della divina contemplazione, pur non essendo peggiore di prima, né in sé né davanti a Dio. Poiché vede in sé ciò che prima non vedeva, le appare chiaro di essere tale che, non solo non è degna di essere guardata da Dio, ma che Dio la respinge e, anzi, che l’ha già respinta. Da questo paragone potremo ora capire […] come questa luce e sapienza amorosa che si deve unire e trasformare nell’anima è la stessa che all’inizio la purifica e la prepara, così come lo stesso fuoco che trasforma in sé il ceppo incorporandosi a lui è quello che prima l’ha predisposto per quello scopo» (II Notte oscura 10, 1-3).
Il cammino della nostra vita consiste quindi in una trasformazione interiore a volte piacevole, a volte dolorosa, che ci conforma a Gesù sino nei suoi sentimenti più profondi. All’inizio, il Signore ci seduce con grazie sensibili nella preghiera, come il fuoco che riscalda il legno e lo “accarezza”. Segue poi un lavoro più profondo e interiore che assomiglia a volte ad un’operazione chirurgica per far morire il nostro uomo vecchio e dare vita all’uomo nuovo. Dio fa la parte essenziale del lavoro ma noi dobbiamo permetterlo e collaborare secondo la nostra capacità.
Vivere in pienezza, significa permettere a Dio di trasformarci e di ridarci la vita come a Lazzaro. Non è ancora la risurrezione ma ne è un assaggio. Del resto, non confondiamoci con le parole: Gesù non “risuscita” Lazzaro poiché Lazzaro morirà, come ognuno di noi. Ma è un segno che annuncia la sua futura risurrezione, e con essa anche la nostra! In questa settimana offriamoci dunque alla fiamma dello Spirito Santo che ci renderà ancora più vivi!
fr. Jean-Alexandre de l’Agneau, ocd (Convento d’Avon)
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