4 – STILE DI FIGLI DI DIO
d – ATTEGGIAMENTI COERENTI
1. FARISEO E PUBBLICANO
«Disse poi una parabola per alcuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri.
Due uomini salirono al tempio per pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così fra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini: rapaci, ingiusti adulteri, e neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana e offro la decima parte di quello che possiedo”.
Il pubblicano invece si fermò a distanza e non osava neppure alzare lo sguardo al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, sii benigno con me, peccatore”. Vi dico che questi tornò a casa giustificato, l'altro invece no, Luca 18, 9-14
Dopo aver raccomandato una preghiera fiduciosa ed insistente, Gesù precisa qual è l'atteggiamento giusto – ossia gradito a Dio – dell'orante.
Più che una parabola, questa è una lezione, una “storia esemplare”.
Si mettono in scena, nella cornice solenne del Tempio, due personaggi.
– Il fariseo, ossia l'osservante scrupoloso della Legge, il praticante fedele, la persona pia per eccellenza.
Prega nella posizione giusta, secondo il costume giudaico: in piedi, a testa alta, le braccia sollevate verso il cielo. E attacca la preghiera più bella: l'azione di grazia, la lode.
Soltanto che il fariseo non ringrazia Yahweh per la sua grandezza e misericordia, ma lo ringrazia per ciò che è lui, a differenza degli altri. Quest'uomo, per far risaltare meglio le proprie benemerenze, sente il bisogno di denunciare tutti gli altri (ladri, ingiusti, adulteri).
Guarda, sì, in alto, ma anche dietro. E il pubblicano gli serve per ricordare a Dio che lui, per fortuna, non è come quello. Tanto per precisare le cose.
Passa, quindi, a snocciolare i suoi meriti, ad illustrare la propria condotta irreprensibile. È uno che non si accontenta della normalità: fa più dello stretto necessario. Sarebbe obbligato a rispettare il digiuno una volta l'anno giorno dell'Espiazione. Ma lui digiuna due giorni la settimana [il lunedì e il giovedì], riparando così i peccati di tanti miscredenti. Dovrebbe pagare le decime [destinate alle spese del Tempio, ai poveri e al mantenimento delle scuole rabbiniche] soltanto sul frumento, il mosto e l'olio. Ma lui si tassa volontariamente dei dieci per cento su tutti gli acquisti, senza eccezione. Sa, infatti, che i contadini e i commercianti si sottraggono spesso e volentieri a questo dovere. E lui non vuole rendersi complice in nessuna maniera di una violazione della Legge. E rimedia anche per gli evasori, di tasca propria.
Un uomo, dunque, “per bene”: cioè sicuro di sé, della propria giustizia; uno che si sente perfettamente a posto con Dio e migliore degli altri; uno, cui Dio deve proprio qualcosa.
«La preghiera del fariseo, dietro l'apparente devozione e pietà, è una preghiera atea. Dio è la copertura di un io ricco che strumentalizza il rapporto religioso per la propria esaltazione. L'uomo che si nasconde dietro questa preghiera non aspetta nulla da Dio, non ha nulla da chiedere: egli fa solo mostra di sé, dei suoi diritti, del suo credito davanti a Dio» (R. Fabris)
– Là in fondo, nella penombra, un pubblicano, ossia un esattore delle imposte. Relegato dai devoti, a motivo del mestiere infamante, nel rango dei peccatori: strozzino, ladro e, per di più, collaborazionista con l'occupante romano. Un essere abominevole, odiato e disprezzato.
Lui non osa alzare gli occhi al cielo; né sollevare le mani (vuote di opere buone e colme di furfanterie). Le mani le adopera semplicemente per battersi il petto.
– Ora, la conclusione è sconcertante.
Il giudizio di Dio separa i due atteggiamenti. Non nel senso inteso dal fariseo (che, per definizione, è appunto un “separato” dagli altri). Proprio l'opposto.
Perché questo capovolgimento delle posizioni, tutt'altro che infrequente nel Vangelo?
Dio non condanna, certo, le opere buone del fariseo, ci mancherebbe altro! Né tanto meno approva le disonestà dell'esattore. Semplicemente: la condotta buona dell'uno si traduce in un atteggiamento errato di fronte a Dio (e nei confronti del prossimo). Mentre la condotta peccaminosa dell'altro sfocia nell'atteggiamento “giusto” nella preghiera.
– Il fariseo sbaglia, non perché si comporta onestamente, ma perché:
° Si pone dinanzi a Dio come un puntiglioso calcolatore dei propri meriti. S'illude di possedere lui il metro che determina esattamente la vicinanza rispetto a Dio. Non sa che Dio solo – e non l'uomo – può dire chi gli è veramente vicino (e gradito) e chi no.
In fondo, non sa collocarsi in una prospettiva gioiosa di gratuità. È un ragioniere della religione e della morale. La sua è una virtù tetra, noiosa, opprimente, interessata, non liberante.
° Oltre ad essere indebitamente sicuro della propria giustizia, lui giudica e condanna e disprezza gli altri. Le sue virtù diventano così piedistallo per un auto-compiacimento e per un atteggiamento di superiorità nei confronti di tutti.
– Il pubblicano, invece, è giustificato perché riconosce di essere peccatore.
Lui non si scusa; non guarda in direzione del fariseo [Non dice: «Quello va sempre in chiesa, ha una facciata irreprensibile, ma è peggio degli altri», e neppure «Preferisco essere quello che sono», e nemmeno: «In fondo sono più onesto di lui»]. Sa di essere una canaglia, e lo riconosce. E per non esserlo più, ha bisogno della misericordia del Signore: non ha nulla di buono da offrire, e quindi tutto da ricevere da Dio.
Il pubblicano, facendo l'inventario dentro di sé, non trova nulla di cui vantarsi. Non cade nell'errore di sentirsi buono (o meno cattivo) confrontandosi con gli altri, ossia alle spalle del prossimo, a spese dei difetti altrui. In tal caso, diventerebbe automaticamente un fariseo (= si diventa farisei nel momento stesso in cui uno è sicuro di non esserlo!).
«Lui non parla degli altri, non critica agli altri. Non crede necessario demolirli per ottenere un eventuale
favore da parte di Dio. La propria miseria gli basta. Conta unicamente sulla grazia di Dio» (A. Maillot).
••• «… [Gesù]disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri».
Capita la lezione?
Il fariseo è pieno di sé e della proprie “opere buone”. Non c'è spazio in lui, dove collocare i doni di Dio.
Le credenziali della propria irreprensibilità che si sente in dovere di presentare, non hanno valore agli occhi di Dio. I titoli di benemerenze, “il certificato di buona condotta” non servono nella preghiera.
Davanti al Signore, dobbiamo una buona volta imparare l'atteggiamento del povero, di chi non ha nulla, di chi non rivendica nulla. Le uniche credenziali valide, per Lui, gli unici titoli di benemerenza, sono le nostre miserie, il nostro vuoto, il riconoscimento della condizione di peccatori.
Soltanto quando siamo sinceramente convinti di non avere nulla di presentabile, allora possiamo presentarci davanti a Dio.
Il fariseo ha bisogno di Dio per essere ammirato, affinché i suoi conti siano registrati nella banca del cielo.
Il pubblicano ha bisogno di Dio per ripartire da zero.
E si direbbe che Lui abbia una simpatia spiccata, non per gli “arrivati”, ma per quelli che, percuotendosi il petto, gli fanno segno che hanno voglia di ricominciare... (Pronzato, Il pane della Domenica, C, 199)
O Signore,
ogni Tua parola è verità e luce che si incarna
come gesto d'amore e di salvezza nel profondo dell'anima.
Certe Tue affermazioni
hanno un certo sapore di studiata invettiva da suscitare scandalo;
mi fanno continuamente pensare: «In verità vi dico:
I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio».
E sempre stato così: davanti a Te, davanti alla Tua grazia
è più facile cedere da parte d’un peccatore, anche il più traviato.
Chi crede invece di essere nel giusto, farisaicamente a posto,
blocca qualsiasi miracolo.
Chi sa costruire con arte certi schemi o modi di fare apparentemente positivi e docili
ma in realtà vuoti, privi di contenuti vitali,
sarà preceduto nel regno dei cieli anche dai peccatori più ostinati.
2. PARABOLA DEI DUE FIGLI
«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: – Figlio, va' oggi a lavorare nella vigna –.
Ed egli rispose: – Sì, signore! –; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse la stessa cosa. Ed egli rispose: – Non ne ho voglia –; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Rispondono: – L'ultimo –.
E Gesù disse loro: In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute, invece, gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli». Matteo 21, 28-32.
Oggi farebbe meraviglia e darebbe scandalo se uno denunciasse le incoerenze che talora con tanta facilità contraddistinguono il “primo figlio” di casa. Un figlio “perbene”, perché conosce la diplomazia: con un sì, pronunciato con la bocca, salva le apparenze del decoro e dell'educazione. Se il cristianesimo fosse unicamente un assenso fatto a parole, avremmo già una totalità di coerenza cristiana.
Se la volontà del Padre si facesse con le adesioni formali d’un sì pronunciato con un sorriso, saremmo tutti già perfetti, più di Cristo. Questa piccola parabola dei due figli sconvolge tutta la nostra perfezione formale, la nostra ipocrisia, il nostro falso sorriso. È una tremenda denuncia, purtroppo ancora attuale, che scende nel profondo dell'anima: il giudizio di Dio – che è poi la nostra coscienza nella sua purezza e responsabilità –, non si lascia sorprendere neppure da mille sì, detti senza cuore.
È una parabola molto realistica. Siamo proprio fatti così, noi uomini: figli che fanno fatica a respirare con libertà e consapevolezza l'aria di casa.
– O viviamo, senza voler porre problemi di coscienza e di impegno, confondendo il fare con un dire un sì senza seguito, rimandando casomai al domani l'attuazione di promesse e di scelte;
– oppure viviamo in lotta, cedendo all'istinto di un “no” immediato, trovando anche giustificazioni a questo rifiuto, ma poi con fatica la volontà di Dio muove il nostro agire.
• Il terzo figlio – colui cioè che dice subito di sì con la bocca e con il cuore – è solo il Figlio di Dio. Ma neppure Lui ha trovato facile compiere la volontà del Padre •.
Gli uomini si rispecchiano nei due figli: il nostro impegno di cristiani coerenti sarà sempre pronunciare meno “sì formali”, pronunciare meno “no istintivi”… Ciò che importa davanti a Dio è attuare nella vita più volere che scaturisca dal cuore di Cristo.
Dio non metterà sulla bilancia del suo giudizio i “sì” o i “no” da noi pronunciati con fretta, ma i “si”o i “no” delle nostre incoerenze o dei nostri sforzi di bene.
Non ci salveremo neppure se sapremo essere abili e diplomaticamente educati nel coprire con un “sì” un disimpegno o una mancata testimonianza. Se Cristo fosse qui oggi a ripetere con la potenza della sua parola quanto disse ai connazionali del suo tempo: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio», gli faremmo fare la stessa fine che ha subito ed accettato, morendo in croce. Lo tratteremmo come un ateo, come uno che ha poco rispetto della casa, come uno che scandalizza...
Eppure questo Cristo è presente anche oggi in questa sua parola. Se siamo più che convinti nel dire che questa parola di Dio va proclamata, va annunciata al mondo, abbiamo la stessa convinzione nel ritenere che Cristo come ai suoi tempi si è rivolto agli ebrei, così oggi si rivolgerebbe a noi di casa?
La parabola parla di figli, di un padre, perciò di una famiglia, di una casa.
Se un estraneo fosse incoerente, sarebbe più sopportabile; ma se un figlio fosse insincero; peggio, se facesse della propria fede una incongruenza o una continua bugia, sarebbe imperdonabile.
Dio Padre non ci chiede un'obbedienza già perfetta. Sopporta meglio di noi le nostre debolezze umane. È più paziente di tutti: ci conosce e sa come siamo fatti. Chiede, però, sincerità. Preferisce magari un capriccio, un “no” detto per istinto o per ostinazione, più che un “sì” insincero.
Il figlio preferito da Dio è colui che strappa, magari con fatica, dopo tentennamenti e ripensamenti, un gesto di generosità, un atto di coerenza, uno sforzo di maggior impegno.
Chi obbedisce con tutta facilità dà poca garanzia di sincerità. L'obbedienza al Padre, cioè ad una coerenza di coscienza, di dignità umana costa talora sangue.
Il nostro egoismo ci fa dire subito un “no”, se siamo sinceri. Il “sì” vissuto poi in una accettazione concreta del comando di Dio esige sempre un sacrificio.
«Se l'egoismo è la causa d’una lotta per vivere da uomini e da cristiani, figli devoti di Dio, fratelli solidali nell'amore, la falsità, cioè il giustificare con un sì apparente un rifiuto a Cristo e al prossimo, è la più subdola tentazione per un discepolo del Signore. Quando si pensa di salvare la propria faccia con un gesto di formalità; quando si ritiene che basti rimanere dentro un recinto per essere figli devoti; quando l'obbedienza – cioè l'essere figli –, non procura alcuna ferita; quando non si è mai tentati di mandare tutto a quel paese con un “no” secco – che, se non altro, può significare una scelta e un atto di coerenza –, la nostra sarà una povera casa dove sarà sempre impossibile intenderci, vivere da fratelli, nell'armonia di chi lotta uno accanto all'altro per imparare a stare assieme, per sorreggersi reciprocamente, pur nella limitatezza e scontrosità di caratteri, ma con dentro una grande sete di bontà, d’amore, con un forte desiderio di dar più respiro a tutti, di capire e di aiutare chi fa più fatica a tradurre un “sì” nella vita di ogni giorno, perché magari frastornato da tanti “no” inconcludenti di chi dovrebbe essere il primo a dare il buon esempio con una testimonianza operativa nella vigna di Dio». (da Pronzato, Vangeli scomodi, 349)
O Signore,
ancora oggi dà magari nell'occhio uno scandalo morale
– e Tu hai condannato con durezza chi scandalizza i più piccoli –,
ma perché non dovrebbe dar nausea chi incoerentemente vive una vita di fede,
senza sentire una sofferenza per il proprio agire,
senza voler dare un contenuto sincero e reale al proprio sì di fede?
L'apparenza non costruisce; la verità impone coerenza;
il tempo darà ragione di tutto quel bene che ciascuno si sforzerà di fare,
nonostante le continue tentazioni di un istintivo rifiuto per quanto Dio propone.
Non è necessario dire tanti sì nella vita: ne basta uno solo,
ed è la scelta di Te, o Signore,
da rinnovare ogni giorno nello sforzo e nell'impegno di un amore al prossimo;
da attuare incondizionatamente, pur nei limiti di una debolezza umana,
camminando sulla Tua strada:
«Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo».
Don Giorgio De Capitani (Messaggero)
3. AMINISTRATORE IN FEDELE - C 185
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di aver dissipato i suoi beni. Il padrone lo chiamò e gli disse: “È vero quello che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché da questo momento non potrai più amministrare”.
L'amministratore disse fra sé: “Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, medicare, mi vergogno. So io che cosa devo fare, affinché quando mi sarà tolta l'amministrazione, mi accolgano nelle loro case”. Chiamò uno ad uno quelli che avevano debiti con il suo padrone e disse al primo:“Tu quanto devi al mio padrone”. Quello rispose: “Cento barili d'olio”. Gli disse: “Prendi il tuo foglio, siediti e scrivi cinquanta”. Poi disse ad un altro:“E tu quanto devi?”. Quello rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi il tuo foglio e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza.
Infatti, i figli di questo mondo, nei loro rapporti con gli altri, sono più astuti dei figli della luce». Luca 16, 1-13
Si tratta, indubbiamente, di una parabola imbarazzante, persino scandalosa.
Un latifondista capta alcune voce circa l'irregolarità amministrative compiute da un suo fattore. Lo manda a chiamare. L'interessato non pensa neppure a discolparsi: i libri contabili gli danno torto. Il licenziamento risulta inevitabile.
Ciò di cui si preoccupa è del proprio futuro. L'unica maniera per cavarsela, dal momento che non saprebbe fare altri mestieri, consiste nel procurarsi degli amici.
Ed eccolo subito in azione. Convoca i debitori del suo padrone – probabilmente mercanti-grossisti – e riduce notevolmente l'ammontare del loro debito. Una riduzione del venti per cento per il grossista di grano, e del cin-quanta per cento per quello dell'olio. In ogni caso, l'abbuono è di parecchi milioni.
Bella maniera di “sistemare” uno scandalo amministrativo! A una serie d'irregolarità si rimedia con altre irrego-larità. Scoperta la truffa, si evitano le conseguenze spiacevoli con altre operazioni truffaldine.
E il tutto con la benedizione del padrone che “lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con destrezza”. – Anzi, secondo certi studiosi, l'approvazione non sarebbe del padrone, ma del Signore! Ossia Gesù stesso ammira il comportamento del fattore infedele.
Per questo molti parlano di scandalo. Qualcuno la definisce come “la più raccapricciante delle parabole”. Una vergogna, insomma. Non c'è più religione (!), dal momento che Dio stesso tiene il sacco ad un ladro.
Cerchiamo di mantenere la calma.
L'approvazione del Signore va all'amministratore disonesto, certo. La lode, tuttavia, non riguarda la sua disonestà, bensì la scaltrezza di cui ha dato prova. Gesù non pronuncia un giudizio morale sulla condotta truf-faldina. Ma apprezza l'intelligenza e l'intraprendenza del furfante.
Nell'interpretazione di una parabola [ormai lo sappiamo!], bisogna evitare l'errore di trovare ad ogni costo un significato, un'applicazione pratica – o, peggio, un motivo edificante – in ogni particolare. Occorre cogliere il motivo dominante, la lezione di fondo, senza soffermarsi sugli elementi di contorno.
Ora, nel nostro caso, la lezione fondamentale non è quella dell'ingiustizia, ma della capacità di tirarsi fuori da una situazione critica. Il Signore ama le parsone che si danno da fare, che non si dimenticano di possedere un cervello, che ricorrono alle risorse della fantasia.
Qui, l'amministratore infedele trova un varco che gli permette di uscire dalla sua situazione attraverso una scoperta decisiva: la scoperta degli altri. Finora non si era accorto, praticamente, della loro esistenza; aveva pensato solo a sé, ai propri interessi. Adesso scopre la realtà dell'amicizia. Dispone ancora una volta ingiusta-mente, della proprietà che deve amministrare, però non più per sé, ma a vantaggio degli altri. E la propria sal-vezza passa attraverso quest'apertura agli altri.
• È una lezione essenziale per la Chiesa.
Essa non è padrona, bensì semplice amministratrice e dispensatrice dei tesori del suo Signore. La Chiesa non può vivere in un circuito chiuso, pensando alla propria sicurezza, ai propri diritti, al proprio prestigio. Deve “mettere in circolazione” i beni del suo Padrone. Deve scoprire la propria identità nel suo “essere per” gli uomini.
La Chiesa non può trasformare la propria vocazione in autogestione o, peggio – in autodigestione. Elezione non significa privilegio, ma servizio. I beni del Signore vengono “dissipati” quando sono tenuti per sé, chiusi, protetti, difesi. La colpa non sta nel dilapidare, ma nell'appropriarsi. Non nel dilapidare a vantaggio dell'umanità.
Chi può illudersi di saper amministrare fedelmente? Eppure, la vera, grossa infedeltà consiste nel non largheggiare, nel non distribuire a piene mani.
Ed è bello, è giusto, che la Chiesa – come l'amministratore che si dichiara incapace di maneggiare la zappa – non sappia, non possa, non debba fare altri mestieri. L'unico suo mestiere, l'unica sua specializzazione, infatti, è perdonare, usare misericordia, compatire, comprendere, aprire, liberare.
•• La lezione riguarda anche ciascuno di noi.
Nessuno ha registri a posto. Per poco che Dio ci dia un'occhiata, c'è da tremare. I conti con Lui non tornano mai.
Ebbene, la parabola c'insegna a compiere “irregolarità”. Anche se in altra maniera.
Dio ama le “irregolarità” che vanno a vantaggio del prossimo.
Si tratta di minimizzare le colpe degli altri (e non di maggiorarle, come facciamo abitualmente), di ridurre i loro difetti, di cancellare le offese, di tirare una riga sopra i torti, di non ragionare in termini di diritti o ragione, ma in termini di amore. Le nostre mani ridiventano “pulite” quando le spalanchiamo nel gesto del dono, per regalare gioia, luce, speranza.
Col prossimo non sono consentite le misure “giuste”. L'unica misura consentita è la “dismisura”, l'eccesso.
Allora il Signore tornerà a fidarsi di noi.
Certo, mancherà sempre qualcosa nei nostri conti: farli quadrare sarà praticamente impossibile. Lui però è soddisfatto ugualmente della nostra “cattiva amministrazione”. Perché, ciò che manca dovrà andarlo a cercare “altrove”, e non nel portafoglio. I suoi beni sono al sicuro nelle tasche degli altri, che sono poi i legittimi destinatari.
E noi ci saremo fatti degli amici che parleranno bene di noi presso l'Amico.
4. PARABOLA DEL FICO STERILE (SULLA PAZIENZA DI DIO)
«Disse anche questa parabola: Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: – Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno?–.
Ma quegli rispose: – Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai –» (Luca 13,6-9).
Potremmo dire tante cose sulla giustizia di Dio, ma non che sia una giustizia che non sappia attendere, come sa attendere il cuore d’un Padre. Potremmo dire tante cose sulla pazienza di Dio, ma non che essa non sappia esigere ciò che è giusto e buono per ciascuno di noi, per essere dei veri figli.
Una pazienza perciò che è attesa del nostro impegno. Un'attesa che non perdona un disimpegno, ma lo rimuove, pena l'auto-condanna. Dio interviene, suscita una scelta continua.
Ogni intervallo di passività è messo sotto giudizio da Dio, che, se dilaziona la condanna, è per provocare una crisi e un risveglio. Pazientare non è perciò un guardare in silenzio l'oziare dei figli. È un dialogare continuo tra uno sguardo d'amore del Padre e lo sforzo di questi figli.
Dio attende che il nostro aprire gli occhi e le orecchie agli inviti della coscienza, che sono poi i richiami di Dio stesso, diventi l'inizio di una ripresa di dialogo.
Essenziale è dare al Signore il permesso di entrare in azione, creare cioè quel minimo indispensabile che dia via libera alla grazia di fare il resto.
Affinché un filo d'erba spunti è necessaria almeno una zolla; un seme può attecchire anche in una fessura di muro, purché trovi qualcosa in cui marcire.
L'esigenza di questo “minimo” – in confronto alla potenzialità e al miracolo dell'agire di Dio è sempre un minimo anche il nostro eventuale eroismo – è quanto basta per rendere possibile il dialogo tra Dio e noi.
Senz'altro, dopo anni d'inattività, qualsiasi terreno fa fatica a riprendere forza per produrre. Occorre intensi-ficare “lo zappare e il concimare”, affondare l'aratro nella terra per scrostare quella dura superficie che si è prodotta con la lunga inerzia del contadino imprevidente.
La parabola del fico sterile non rivela affatto l'impazienza di Dio.
Se è accettabile, pur nella sua stranezza, il comportamento di Cristo che se la prende con una pianta di fico, senza frutti – Marco sottolinea che « non era infatti quella la stagione dei fichi » – non sarebbe stata conforme alla bontà e alla giustizia di Dio una parabola, senza l'intervento di quel saggio vignaiolo: «Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché io lo zappi attorno e vi metta il concime, e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai».
L'aver maledetto una pianta di fico è stato un gesto simbolico di Cristo, ma una parabola esprime un messaggio d'amore in cui la pianta di fico, simboleggiando la nostra vita, non potrà mai essere maledetta. Una vita umana vale ben più di una pianta. Merita perciò anche una maggiore attenzione da parte nostra. Prima di gustare un frutto, occorre produrlo.
Tutta la nostra vita è una stagione fertile, dalla semina fino al maturare del seme e al suo frutto, che Dio raccoglierà alla morte di ciascuno di noi.
Ogni stagione ha il suo frutto squisito. Ogni pianta ha la sua stagione per maturare. La natura è varia e sempre interessante, sia nel suo apparire morta, sia nel suo rifiorire e rivivere a tempo opportuno. La natura è sempre obbediente alla legge di Dio. Per questo ci affascina. Se non si riesce più ad assaporare la dolcezza di un frutto, colpa sarà sempre dell'uomo che ha intaccato con il suo egoismo di pietra anche le bellezze più innocenti di questo mondo.
Più che lo scatenarsi di una tempesta, la natura paventa l'imprevidenza e la noncuranza dell'essere più intelligente, che s'accorge troppo tardi del danno che può procurare ogni forma di violazione dell'armonia nel creato.
Se tutto il mondo è una parabola, tutto va giudicato e letto come un messaggio della bontà e della giustizia di Dio. Perché chiudere gli occhi? Perché non sentire?
Se un albero abbattuto da una raffica di vento può impressionare, che dire d’un'anima sconvolta da una tragedia, d’una coscienza tradita nella sua più profonda bellezza interiore?
Se il sussultare della terra – mai esente da una responsabilità umana – può terrificare e farci gridare contro il Cielo, che dire allora quando l'uomo imbestialisce a tal punto da ridurre tutto a odio, vendetta, sangue, depra-vazione morale?
Quando Cristo è morto sulla croce, anche la natura ha pianto. Ma l'uomo, dov'era?
Quando certe piante secche della nostra società – cioè coloro che riduciamo tali con la nostra indifferenza –, non c’impressionano più nella loro dignità emarginata, ma ci danno fastidio perché rovinano il bel panorama del nostro egoismo –, non è forse segno che siamo diventati noi delle piante aride e prive di frutti, mentre Dio ha già scelto dove far scaturire il seme di speranza per un mondo nuovo?
O Gesù,
mi piace identificarTi in quel saggio vignaiolo,
che chiede tempo all'impazienza del padrone della vigna.
Non che Tuo Padre sia solo giusto, senza cuore!
Forse perché senza un tale Figlio
il volto di Dio sarebbe stato diverso.
Non è concepibile un Padre senza Te, Figlio!
Lo Spirito Santo non è forse questa reciproca esigenza?
Ed è proprio questo Spirito a rinnovare la faccia di questo mondo.
Dove c'è Spirito,
c'è vita, c'è il rifiorire dell'uomo, il suo camminare a maturazione.
O Gesù, ho sempre nel cuore
quella frase che hai rivolto alle donne di Gerusalemme,
sulla via della croce:
«Perché, se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?».
Se Tu, o Cristo, il legno verde,
il frutto benedetto dello Spirito e del sì d’una Vergine ebrea,
hai percorso la strada del sacrificio supremo,
perché noi, legni secchi, alberi ricchi di sole foglie,
ci crediamo dispensati
dal duro impegno di rinascere continuamente a vita nuova,
facendo del nostro indispensabile sì allo Spirito di Dio
un'adesione verginale,
una testimonianza di povertà, una fede operosa?
Tu dilazioni la pazienza del Padre in un'attesa d'amore;
ma non togli il nostro impegno di dissodare il terreno,
per dare più vitalità alla pianta della nostra vita.
Proprio perché Tu sei paziente,
noi dovremmo a maggior ragione
assumerci più responsabilità,
corrispondere al Tuo amore in attesa con più impegno,
come il figliol prodigo ritornato a casa dal padre,
la cui pazienza d'amore
è sempre rimasta presente
nel cuore del figlio, pur lontano. Don Giorgio De Capitani (Messaggero)
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[ I 10 Comandamenti del buon cristiano ]
Partendo dall'immagine del pastore e delle pecore, guardiamoci nello specchio della verità
e facciamoci questa domanda: chi è la "buona pecora"?
1. CONOSCERE IL PASTORE
Gesù stesso nel Vangelo di Giovanni disse: «lo sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14). Una conoscenza reciproca e interpersonale che supera il rapporto superficiale e burocratico tra un "funzionario" e un "cliente". Trattare il pastore da persona di famiglia e non da estraneo – perfino sospettato – invitarlo e lasciarsi invitare da lui anche per una sana chiacchierata! Superare reciprocamente la timidezza che congela la conoscenza e valicare ogni tipo di pregiudizio che ostacola l'incontro.
2. FIDARSI DEL PASTORE
Avere fiducia nei nostri pastori, pur conoscendo i loro difetti e pregi. Una fiducia riconoscente del fatto che sono stati scelti dal "buon Pastore" e che hanno consacrato la loro vita a Dio e al servizio delle nostre anime.
Fidarci di loro, non perché sono perfetti, ma perché la mancanza di fiducia è il virus che rovina qualsiasi rapporto e semina sospetto e smarrimento!
3. ASCOLTARE LA VOCE DEL PASTORE
In mezzo a una moltitudine di voci urlanti, il "buon cristiano" deve saper distinguere tra la voce del pastore e le altre, ossia non lasciarsi ingannare dalle voci che spesso si presentano come quella dei pastori, ma che in realtà sono voci di lupi rapaci. Si tratta di ascoltare (cfr. Dt 6,4-13: “Ascolta Israele”!), cioè concentrarsi totalmente, abbandonando tutte le altre cose che ci distraggono. Ascoltare richiede di imparare la lingua di Dio: il silenzio della preghiera e l'apertura verso le persone che ci guidano a lui! Una pecora che non ascolta la voce del pastore è una pecora smarrita!
4. OBBEDIRE AL PASTORE
L'obbedienza è il frutto dell'ascolto attento e della fiducia, della conoscenza e soprattutto dell'amore! Gesù ha obbedito alla volontà del Padre persino di fronte alla croce. La disobbedienza al comandamento divino portò l'uomo e la donna fuori dal Paradiso e dalla grazia con Dio! Non si tratta mai di una sottomissione di schiavitù, ma di un filiale e fiducioso atto di sequela.
5. NON DIMENTICARE IL PASTORE
Spesso le pecore sazie scordano facilmente il pastore che le ha guidate faticosamente ai pascoli erbosi. Il peccato della dimenticanza è il peccato delle persone irriconoscenti e immemori.
6. NON MORMORARE
La mormorazione è il cancro che distrugge l'armonia in qualsiasi comunità, è il peccato che inizia come una piccola fiamma per trasformarsi poi in un incendio. Evitiamo perciò il "terrorismo delle mormorazioni" come l'ha chiamato papa Francesco! Evitiamolo non partecipando né attivamente né passivamente. Evitiamolo imparando la virtù del parlare faccia a faccia con le persone e mai dietro le spalle.
7. NON ANDARE DIETRO AD ALTRI PASTORI
Amare il buon Pastore significa accettare fiduciosamente i pastori che Egli ci mette sul nostro cammino e non andare sempre da un gregge all'altro, in una insaziabile ricerca di altri pastori che parlano meno o che ci piacciono di più... Ricordiamo che la parrocchia è una famiglia e una comunità e non è un supermercato!
8. NON CRITICARE CONTINUAMENTE IL PASTORE
Non essere tra le persone che criticano solo per il gusto di criticare, le persone scontente eternamente (Lc 7,32: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!»).
9. INCORAGGIARE IL PASTORE
Guai al pastore che vive solo per essere lodato dalla gente, ma altrettanto guai alla gente irriconoscente che non sa dire "grazie", che non sa apprezzare gli sforzi e le fatiche dei propri pastori!
10. PREGARE PER IL PASTORE
Ricordare una persona nella preghiera è un gesto incredibilmente semplice, efficace e amorevole. «Pregate per me!» è la richiesta costante di papa Francesco: si tratta di pregare per lui e per le persone che pregano sempre per noi. «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,38), affinché susciti nei cuori di tanti giovani il desiderio di seguirlo.
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“Beato chi ascolta la mia parola
e la mette in pratica!”
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