Con le tentazioni nel deserto, Gesù ci ha insegnato gli atteggiamenti filiali fondamentali: restare rivolti verso il Padre, fonte della vita, in un atto di fiducia e d’amore per aspettare da Lui nella pazienza la salvezza promessa. Si capisce facilmente che la preghiera è un luogo privilegiato per esprimere nella nostra vita questi atteggiamenti filiali. Potremmo persino dire che la preghiera è il luogo in cui mi esercito ad essere figlio: prendere il tempo per essere rivolti verso il Padre, riconoscerlo come Padre, fonte della mia vita, ricevere la sua Parola come nutrimento, esprimere nuovamente la mia fiducia in lui in un atto di profonda riconoscenza e adorazione, restando così nella speranza.
Dove sei?
Sin dall’origine, il Signore ha manifestato il suo desiderio di comunione con l’umanità e la prima conseguenze del peccato originale è di rompere questa relazione naturale tra il Creatore e la sua creatura. Dopo la caduta, l’uomo e la donna scoprono la loro vulnerabilità, si fabbricano delle protezioni e si nascondono davanti al Signore: «Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei?” Rispose: “Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”» (Gen 3,8-9) Prima della rottura dell’Alleanza, Adamo ed Eva erano collocati in un giardino che procurava loro i beni necessari; Dio si dilettava nel visitare la sua creatura, uomo e donna in una reciproca fiducia nel quale la debolezza umana, simboleggiata dalla nudità, non era vissuta nel timore. Il racconto teologico delle origini, e particolarmente quello della caduta, ci svela ciò che i credenti avevano compreso del disegno d’amore creatore di Dio su di loro. Il libro della Genesi rivela il desiderio di Dio di vivere in una relazione di fiducia, una relazione personale in cui l’uomo può esporsi, anche nella sua debolezza, allo sguardo benevolente di Dio. Noi, tuttavia, non sperimentiamo più in modo naturale questo incontro con il Signore. Non dimentichiamo però che il primo a provare questa mancanza dopo la caduta è il Signore stesso. Egli è il primo ad esprimere la sorpresa di non poter più incontrare nella semplicità la sua creatura ed esclama: «Dove sei?» Da qui la preghiera personale diventa un cammino spirituale in cui cerchiamo di rispondere a questa domanda ed anche una ricerca per rispondere alla nostra vocazione originale. Non andiamo alla ricerca del paradiso definitivamente perduto ma della nostra prima vocazione data alla creatura: l’uomo come essere di relazione, in primo luogo con Dio. Prendersi il tempo per pregare è rispondere alla domanda di Dio: «Dove sei?» con un bel «Eccomi!» E così lottare direttamente con la prima conseguenza del peccato originale non nascondendoci più davanti allo sguardo di Dio.
Sotto la tenda della festa
Gesù ci ricorda, nella parabola dei due figli (Lc 15,11-32), che il Padre non è vinto dalla disobbedienza. Il figlio minore chiede la sua parte di eredità e parte per vivere non più nella dipendenza del padre che da parte sua lo lascia libero. Egli sapeva tuttavia che ciò lo avrebbe condotto all’infelicità: attente, tuttavia, il ritorno del figlio. Quando il figlio minore ritorna, chiede di essere reintegrato nella casa paterna come semplice servitore: rinuncia alla sua dignità di figlio poiché il suo obiettivo prioritario è di non morire di fame. Non è questo, tuttavia, il disegno del padre che prepara per lui una festa nella tenda dell’incontro, una festa che il figlio maggiore non ha mai avuto; perciò, ne diventa geloso. Il figlio prodigo è stato ristabilito nella sua dignità filiale e rivestito con l’abito e i segni (anello e sandali) di questa dignità. Così, la nostra infedeltà rivela l’amore del Padre, e il suo disegno su di noi: il suo disegno e la sua alleanza sono molto più potenti e forti del nostro male. Il padre non ha bisogno di un servitore supplementare; la sua gioia è di avere un figlio. La differenza radicale tra figlio e servitore, che fanno entrambi la volontà del Padre e sono al suo servizio, è che solo il figlio condivide l’intimità del padre.
Creati ad immagine e somiglianza di Dio, in Gesù Cristo siano quindi diventati figli adottivi del Padre: ecco il modo scelto dal Padre per rintrodurre le sue creature nella creatura della festa. San Paolo nella lettera agli Efesini sviluppa un po’ questa nuova vocazione dell’uomo in Gesù: «In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato» (Ef 1,3-14). Paolo espone qui il piano di salvezza di Dio. Mostra che tutta la Trinità è impegnata nella realizzazione dell’opera della creazione e della redenzione e quale posto ci è preparato: siamo destinati a essere santi e immacolati davanti al volto del Padre per la grazia di Cristo e la potenza dello Spirito Santo. Possiamo essere quella lode di gloria che è la completa accoglienza dell’amore del Padre e risposta del nostro amore. Questo atteggiamento è lo stesso del Verbo di Dio così come ci è descritta nel prologo del vangelo di Giovanni; in questo modo siamo adottati nella vita trinitaria. Questa è la finalità della nostra vita spirituale, né più né meno che partecipare in quanto figli adottivi alla vita trinitaria. Non solo dopo la nostra morte, nell’aldilà ma, come dice l’Apostolo, sin da ora. Lo Spirito Santo che è stato versato nei nostri cuori è la caparra della nostra eredità.
La preghiera, anticipazione del paradiso
Si capisce allora in un certo modo, il tempo dell’orazione diventa un’anticipazione del paradiso. Il paradiso che ci aspetta è il luogo in cui «Dio sarà tutto in tutti». Dunque, nella fede, so che questa grazia mi è già stata data. Mediante la fede, mediante la grazia del battesimo, rafforzata e rinnovata dall’Eucaristia e dalla Riconciliazione, c’è in me un germe della vita divina che chiede di poter trasformare la mia vita. Prendendo il tempo di accogliere questo mistero del mio essere e del disegno d’amore del Padre, prendendo il tempo per la comunione con il Signore, anticipo allora il paradiso, poiché accolgo il disegno di Dio e il dono già fatto del suo Figlio e dello Spirito. Mi rivolgo verso il Padre mediante la grazia di Cristo che mi è stata fatta oggi nella potenza dello Spirito. Dice a questo proposito Teresa di Gesù Bambino: «Come è grande quindi la potenza della preghiera! La si direbbe una regina che ha in ogni momento libero accesso presso il re e che può ottenere tutto ciò che chiede» (Ms C 25r°)
In primo luogo, possiamo vivere questo comunione già su questa terra perché è il Signore che vuole vivere in comunione con noi. Nell’inno della lettera agli Efesini abbiamo visto che il Padre ci ha scelto sin dall’inizio del mondo. Così, quando inizio a pregare, non sono abbandonato a me stesso, non sono solo. Il mio desiderio non è isolato: molto prima c’è il desiderio del Padre. Ed è proprio tutta la Trinità che si coinvolge con me per vivere questo tempo d’intimità, per condividere la sua vita con me. Nella fede, prendo coscienza del mistero al quale sono chiamato e m’impegno a prendere un atteggiamento filiale.
Gratuità e intimità filiale
In primo luogo, assumere un atteggiamento filiale è saper prendersi il tempo per questa relazione intima. Alla gratuita del dono di Dio che mi è fatto corrisponde una certa gratuità del tempo che io dono poiché ciò che riceviamo è talmente superiore a ciò che possiamo donare. E rispondiamo all’invito del Padre ascoltato nel vangelo della Trasfigurazione di questa II domenica di Quaresima: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Per questo i tempi di aridità e di vuoto nella preghiera possono essere tempi benedetti, poiché ci permettono di vivere un dono più grande del nostro tempo. Non ricevendo alcuna gratificazione sensibile, l’aridità ci permette di donare questo tempo della preghiera senza alcun ritorno, gratuitamente per colui dal quale ci sentiamo amato. Prendersi il tempo per la preghiera, per l’orazione, è anche assumere un atteggiamento filiale nel senso che, non essendo schiavo del Padre ma suo figlio, condivido la sua intimità. Il mio valore agli occhi del Padre non viene da ciò che faccio per lui ma dalla sua grazia che mi rende suo figlio d’adozione. Sarebbe falsa umiltà rifiutare questa grazia divina e restare nella condizione di servo. Sarebbe fare come il figliol prodigo che chiede di essere trattato come uno degli operai; il padre, tuttavia, non gli lascia terminare la frase. Rifiutare questo dono della grazia sarebbe aggiungere all’infedeltà del figliol prodigo il cattivo spirito del figlio maggiore che non vuole partecipare alla festa In primo luogo, assumere un atteggiamento filiale è saper prendersi il tempo per questa relazione intima. Alla gratuita del dono di Dio che mi è fatto corrisponde una certa gratuità del tempo che io dono poiché ciò che riceviamo è talmente superiore a ciò che possiamo donare. E rispondiamo all’invito del Padre ascoltato nel vangelo della Trasfigurazione di questa II domenica di Quaresima: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». Per questo i tempi di aridità e di vuoto nella preghiera possono essere tempi benedetti, poiché ci permettono di vivere un dono più grande del nostro tempo. Non ricevendo alcuna gratificazione sensibile, l’aridità ci permette di donare questo tempo della preghiera senza alcun ritorno, gratuitamente per colui dal quale ci sentiamo amato. Prendersi il tempo per la preghiera, per l’orazione, è anche assumere un atteggiamento filiale nel senso che, non essendo schiavo del Padre ma suo figlio, condivido la sua intimità. Il mio valore agli occhi del Padre non viene da ciò che faccio per lui ma dalla sua grazia che mi rende suo figlio d’adozione. Sarebbe falsa umiltà rifiutare questa grazia divina e restare nella condizione di servo. Sarebbe fare come il figliol prodigo che chiede di essere trattato come uno degli operai; il padre, tuttavia, non gli lascia terminare la frase. Rifiutare questo dono della grazia sarebbe aggiungere all’infedeltà del figliol prodigo il cattivo spirito del figlio maggiore che non vuole partecipare alla festa.
Da servitore a figlio, un atto di fede
Nella vita cristiana non bisogna avere un atteggiamento di schiavo, rimanere servitori quando invece siamo chiamati a diventare figli. Chi vuole lavorare per il Signore senza entrare in una relazione intima con lui nella preghiera personale si considera come un semplice servitore: non conosce Dio come Padre, lo conosce solo come padrone, un padrone esigente (Lc 19,21). In definitiva, rifiuta il disegno d’amore del Padre su di lui. Ascoltiamo Gesù che ci dice: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). E per mostrare che non è per nostro merito, Gesù prosegue al versetto 16: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». Sarebbe allora una falsa generosità e un misconoscimento di Dio nostro Padre non accogliersi come figli volendo restare schiavi. Quando non ci prendiamo il tempo della preghiera, dell’intimità, della relazione fiduciosa e filiale, rifiutiamo il disegno di Dio nostro Padre. Chi è genitore, e tutti noi che siamo figli, immaginiamo per un solo istante una tale relazione di padrone e schiavo nelle nostre relazioni famigliari. Immaginate dunque per un solo istante la tristezza di un padre e di una madre per dei figli che rifiutassero questa relazione intima. Non c’è altro fondamento più solido e più profondo per giustificare il nostro tempo di preghiera: prego perché sono figlio del Padre. Possiamo così capire che la dimensione contemplativa della vita cristiana manifesta la dignità di ogni cristiano ed è per questo che Gesù non esista nell’affermare che la parte migliore è quella di chi si siede ai suoi piedi. Sì, è la parte migliore, quella data a tutti.
Pregare è prima di tutto accogliere il disegno d’amore del Padre per noi e accogliere l’amore del Padre significa compiere un atto di fede sul suo disegno buono su di noi. All’inizio della preghiera, il nostro atto di fede è il modo di mettere in atto tutto ciò che sappiamo di questo disegno d’amore, delle realtà spirituali che ci fanno vivere. Senza l’atto di fede tutto ciò resta esteriore alla mia vita: al più queste realtà si fermano nella mia intelligenza. Porre l’atto di fede significa porre un atto di fiducia e d’amore verso questo disegno del Padre. Significa interiorizzare il mistero che mi è svelato. L’atto di fede mi mette in presenza del mistero già donato. Come dice la lettera agli Ebrei: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1).
Spunti per interiorizzare la meditazione
• Di fronte a questo disegno d’amore del Padre su ognuno di noi, come ricevo questa rivelazione della mia vocazione filiale?
• Che cosa significa per me essere figlio di Dio in Gesù Cristo? Ho ancora atteggiamenti servili, reazioni che esprimono una paura di Dio?
• Come riuscire a fare un atto di fede che illumini la mia preghiera e la mia quotidianità con la luce del disegno d’amore di Dio nostro Padre?
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