(Parabole) 3 – QUESTO È IL VOLTO DEL PADRE?
Che cosa pensi di Dio? È una domanda fondamentale, cui ogni cristiano dovrebbe rispondere con una certa frequenza. Ai giovani si usava predicare con molta insistenza, fino a qualche tempo fa, “la custodia dei sensi”. Ritengo sia molto più importante la custodia dell'immaginazione autentica di Dio. Quasi inavvertitamente, infatti, ci costruiamo un'immagine di Dio che ci somiglia molto. Imprestiamo a Dio i nostri lineamenti, i nostri pensieri, le nostre vedute meschine, e nostri giudizi e atteggiamenti piccini. Arriviamo persino a mettergli in mano il metro della nostra giustizia.
Fortunatamente, a chi sa leggere il Vangelo con coraggio, si presentano pagine come questa che ci costringono a riconoscere: – Dio non è così! E allora occorre rettificare quell'immagine che avevamo “rifinito” con tanta precisione di particolari, noi”.
In fin dei conti, dobbiamo esser grati al Signore, che ci permette, oggi, anche con una certa durezza, di correggere gli errori. Meglio adesso, che sentirsi buttare in faccia, nell'ultimo giorno, un definitivo: – Dio non è così!
1. «INVIDIOSO PERCHÈ SONO BUONO»? (PADRONE DELLA VIGNA)
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?”. Gli risposero: – Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama gli operai e dà loro la paga, iniziando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anche loro ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, gli ultimi». Matteo 20,1-6
La parabola, per essere compresa perfettamente, va inquadrata nel contesto delle vicende riferite dal Vangelo.
Il giovane ricco – aveva chiesto a Gesù che cosa doveva fare per acquistare il Paradiso – ha voltato le spalle a Gesù, che esce in osservazioni assai inquietanti sul pericolo dell'attaccamento alle ricchezze. Le sue frasi sono come mazzate. I discepoli sembrano scossi, frastornati.
Allora Pietro, a nome dei compagni, esige precise assicurazioni; e pone sul tappeto la questione delle ricompense: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa, dunque ci darai in cambio del nostro distacco?». Gesù lo rassicura: «Siederete anche voi sui dodici troni a giudicare le dodici tribù d'Israele». Sbriga in fretta la questione del premio finale («e la vita eterna»).
Ma la sua risposta iperbolica ha tutta lil tono di un amaro rimprovero: – E così avete la pretesa di farmi i conti? Avete paura che che mi lasci vincere in generosità da voi? Temete di rimetterci nello scambio? Immaginare che Dio, per ricompensarvi, debba adottare i vostri criteri di giustizia e la vostre tariffe puntigliose –?
A questo punto si colloca la parabola degli “operai della vigna” che apporta un chiarimento decisivo al problema, e nello stesso tempo sposta la discussione su un altro piano.
• Si tratta di una scena tipica dell'ambiente agricolo palestinese.
C'è un padrone che esce all'alba per ingaggiare braccianti per la propria vigna. Ne raccoglie un gruppo, pattuisce con loro una cifra (un denaro al giorno) e li manda a sgobbare. Ripete l'operazione alle nove, a mezzogiorno, e poi alle tre del pomeriggio. Persino alle cinque recluta qualcuno: «Perché ve na state qui tutto il giorno oziosi?». «Perché nessuno ci ha presi a giornata». «Andate anche voi nella vigna».
Questi ultimi, ovviamente, faticheranno un'ora soltanto.
La sera, al momento della paga, sono gli ultimi ad essere “liquidati” per primi e a ricevere un denaro. Fin qui nessuno a niente da ridire. Tanto più che i primi si fanno l'idea che, se quegli sfaticati hanno ricevuto un denaro, loro che hanno dovuto sfangarsi per tutta la giornata riceveranno dodici alte tanto. Invece, si vedono rifilare un solo denaro, quello previsto dal contratto del mattino.
A questo punto esplode la protesta. Si grida all'ingiustizia. Il padrone abborda uno dei più scalmanati e gli fa notare: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te».
La risposta del padrone non è certo da inquadrare in un'ottica sindacale. Figuriamoci: – «Non posso fare delle mie cose quello che voglio?».
Qui si cogliere il significato più profondo della parabola. Anzi, i diversi significati. Proviamo ad elencarli.
– L'essere chiamati a servizio del Cristo è una grazia. Già il fatto di lavorare nella “vigna del Signore”, per il suo Regno, è dono, ricompensa.
– Non esiste un primato di anzianità (e relativi diritti) nella Chiesa. Gli ultimi arrivati possono essere considerati da Dio allo stesso modo dei primi, e persino meglio dei primi. Non è questione di “anni di servizio”, ma d'intensità, di, disponibilità a rispondere all'appello quando questo si fa sentire.
– La questione non è tanto quella di procurare lavoro ai disoccupati o gli sfaccendati, ma di aprire la vigna a tutti. Dio è un padrone “insolito”. Padrone della propria generosità. Percorre le strade, ad ogni ora del giorno. A tutti ripete le proprie proposte. Non guarda troppo per il sottile. L'unica condizione è che dicano di sì. Non controlla neppure l'orologio. Per Lui è sempre “ora”.
Non bada alle “referenze”. Si direbbe anzi che abbia una spiccato preferenza per i ... poco raccomandabili: pubblicani, prostitute, ladri, gente da niente possono essere operai “ideali” per la sua vigna.
– Nei rapporti con Dio bisogna “fidarsi”. Quando uno mercanteggia, significa che pone al primo posto la propria opera. Mentre, in un corretto rapporto religioso, il primato è dato all'azione gratuita di Dio a favore dell'uomo, non all'azione dell'uomo per Dio.
Ci sono cristiani che credono che la religione consista in ciò che essi danno a Dio. Essa, invece, consiste in ciò che Dio fa per noi. Non capiscono che è pericoloso esigere da Dio “ciò che è giusto” (che pretesa assurda chiedere dei conti a Dio! E se Lui, a sua volta chiedesse dei conti a noi, con estremo rigore..., come ce la caveremmo?).
Il vero operaio, secondo il cuore del Signore, è quello che si disinteressa del salario; che trova la propria gioia nel poter lavorare per il Regno.
• Ma il punto centrale è proprio in quella constatazione amara: «Forse sei invidioso perché io sono buono?».
“Invidioso” si può tradurre, letteralmente con occhio cattivo. In fondo la parabola ci dice che possiamo essere ottimi lavoratori, ma essere malati di “occhio cattivo”. E quindi non sappiamo stare come si deve nella vigna. Diciamo la verità. È più facile accettare la severità di Dio, che la sua misericordia. Eppure la prova fonda-mentale cui è sottoposto il cristiano è questa: sei capace di accettare la bontà del Signore, di non mugugnare quando perdona, quando compatisce, quando dimentica le offese, quando è paziente, generoso verso chi ha sbagliato?
Sei capace di perdonare a Dio la sua “ingiustizia”? Resisti alla tentazione d'insegnare a Dio il... mestiere di Dio?
Il nostro guaio è l'invidia, l'occhio cattivo: la meschinità. Scommetto che, se fossimo stati presenti sotto la croce, avremmo considerato “inammissibile” la pretesa del ladrone di entrare nel Regno di Cristo così a buon mercato. E avremmo trovato da ridire su questa canonizzazione immediata di un furfante che non aveva da esibire nulla delle nostre virtù “collaudate”, ma solo malefatte.
L'infinita misericordia di Dio ha un unico nemico: l'occhio cattivo. Ma chi ha l'occhio cattivo, e non intende guarire, è pure nemico di se stesso, perché rischia di guastarsi l'eternità.
Se non calpestiamo sotto i tacchi la mentalità da mercenari; se aspettiamo la vita eterna quale giusta ricompensa per i nostri meriti, ci precludiamo la possibilità di stupirci, come gli operai dell'undicesima ora, di fronte alla generosità del Padrone. Passeremo l'eternità a conteggiare i nostri meriti; a confrontarli con quella degli altri, a correggere le operazione di Dio. Una dannazione...
2. DIO GRADISCE ESSERE IMPORTUNATO (GIUDICE INIQUO E LA VEDOVA).
«C'era in una città un giudice che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno.
Nella stessa città c'era anche una vedova che andava da lui e gli chiedeva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po' di tempo il giudice non volle , ma alla fine disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non mi prendo cura degli uomini, tuttavia le farò giustizia e così non verrà continuamente a seccarmi”».
Il Signore soggiunse: “Avete udito ciò che dice il giudice ingiusto? E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che lo invocano giorno e notte? Tarderà ad aiutarli? Vi dico che farà loro giustizia prontamente.
Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Luca 18, 1-8
Ancora una parabola sconcertante, in cui il modello di una preghiera fiduciosa e costante è offerta da una povera vedova (e fin qui, va bene). Ma in cui l'intervento di Dio pare rassomigli a quello di un magistrato disonesto (e qui la faccenda si complica non poco!).
Vediamo di non lasciarci impressionare ed esaminiamo i protagonisti della parabola.
– Il giudice, prima di tutto. Un tipaccio in cui nessuno vorrebbe mai incocciare. Insomma, un individuo murato nel proprio egoismo, che bada solo a se stesso, impenetrabile a ogni sentimento, insensibile a tutto ed a tutti.
Le parole, le suppliche più accorate rimbalzano contro quell'armatura di durezza senza neppure scalfirla, senza provocare un sospetto di rimorso, una vaga intenzione di pietà.
– Dall'altra parte una vedova. L'immagine della debolezza disarmata. Priva di appoggi, sprovvista di raccomandazioni. Non può certo pagarsi un avvocato che sostenga la sua causa.
È vittima di due soprusi: prepotenza da una parte (l'avversario), sfacciata inerzia dall'altra (giudice).
La battaglia sembra persa in partenza. La debolezza indifesa non ha nessuna possibilità di spuntarla sulla forza arrogante e sull'indifferenza impenetrabile. Eppure la poveraccia non si arrende. Va dal giudice, una, dieci, venti volte. Lo abborda non appena gli capita a tiro, e non si stanca di fronte ai rifiuti. Quello alla fine, deve capitolare: non ne può più di quei lagni. E decide di fare giustizia alla donna per togliersela finalmente dai piedi.
a – Dunque: la debolezza ha prevalso sulla forza. La persona indifesa ha avuto ragione del potere arrogante.
Ed è questa la prima lezione della parabola: non dobbiamo aver paura della nostra debolezza. Al contrario dobbiamo rallegrarcene. Non scoraggiamoci per la nostra impotenza.
L'arma decisiva ce l'abbiamo in noi. È la nostra debolezza, la nostra povertà!
Con quella, e soltanto con quella, abbiamo, non dico la possibilità, ma la certezza di spuntarla.
Soltanto, non dobbiamo stancarci se la risposta si fa attendere. Non perdiamoci d'animo se la nostra voce si arrochisce a forza di gridare. I ritardi, invece di affievolire la speranza, sono una ragione per alimentarla.
b – Tanto più che dall'altra parte – ed è qui che il secondo protagonista non è la copia, ma piuttosto l'immagine in negativo di Dio! – non ci sta un giudice insensibile, ma un Padre che si lascia ferire dal grido dei suoi figli ed è impaziente di esaudirli.
No. Non si tratta della debolezza contro la forza. Ma è una debolezza (la nostra) contro un'altra debolezza (quella di Dio. Perché nessuno è più vulnerabile di un Dio che ama).
Inutile precisare che a differenza del magistrato inerte, Dio non ci esaudisce per non essere più seccato. Lui, al contrario, ama la nostra insistenza fastidiosa. Gradisce le nostre richieste ribadite. Desidera essere importunato, purché tutto gli arrivi attraverso il canale della fede.
•• «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». *
La parabola si chiude con questa domanda inquietante.
Già. I tempi di Dio non sono i nostri. Anche quando Dio ha fretta di esaudirci, può capitare che la nostra fede sia già spenta. La nostra stanchezza giunge prima dell'esaudimento amoroso del Padre.
Così, interrotto il canale-fede, tante risposte non giungano a destinazione.
E poi abbiamo anche il coraggio di lamentarci perché Dio è “sordo”, “non ci ascolta2... Che ne diremmo se, il giorno in cui il giudice decide di accettare di accontentare la vedova, questa non si facesse vedere?
3. DIO CI CONOSCE UNO AD UNO (BUON PASTORE)
– «Io sono il buon pastore; conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me ed offro la vita per le pecore.
Il mercenario, invece, che non è pastore, cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le disperde... Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me ed io conosco il Padre. … E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge ed un solo pastore...». Giovanni 10, 11-19
– «Chi di voi ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Quando la trova se la mette contento, ritorna a casa, convoca gli amici e i vicini e dice loro “Fate festa con me, perché ho trovato le mia pecora che era perduta”...». Luca 15, 4-7
– I “Mercenari”: facile descriverli...; anche se il pericolo più subdolo, non è il “lupo”. Il “lupo” più pericoloso è il “pastore” calcolatore: ossia chi vede gli altri in funzione del proprio nome, della propria faccia, del proprio vantaggio. Senza dubbio la più grave minaccia per le pecore consista nell'essere dominate, sfruttate, strumentalizzate.
– A noi, invece, interessano, i lineamenti del “Buon Pastore”. Che non, certo, sono quelli, dolciastri, dei santini.
La parabola ci presenta un gregge che non è mai al sicuro. Ed è di fronte al pericolo incombente che si precisa la linea di discriminazione tra il vero pastore e il mercenario. Il pastore affronta il pericolo per la difesa del gregge. Il suo compito è concepito in chiave di responsabilità, di sollecitudine, di attenzione.
Il buon pastore è “per” le pecore. Il suo interesse non è volto alla propria persona, ma alla vita delle pecore, alla loro salvezza. «Il buon pastore offre la vita per le pecore». Il Cristo ci tiene a precisare che questo avviene, non per un incidente banale, ma per atto di amore e di suprema libertà («Io offro la mia vita... Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso»).
Antico Testamento: il profeta Ezechiele (34, 8-16) – già da allora – presenta il volto di Dio: « Ecco io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura... Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. ... Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata...».
Con Cristo Gesù si realizza la promessa. Dio ha risposto all'attesa di un pastore diverso dagli altri.
Ma il buon pastore, quando si presenta, non è certo nella linea delle immagini e dei desideri degli scribi.
Lui, è uno come tutti: povero, semplice, privo di segni esteriori di grandezza, allergico agli onori. L'opposto del dominatore e dello sfruttatore (o il Messia socio-politico, liberatore del popolo dalla schiavitù).
Lui conosce i pericoli che minacciano il gregge e lotta contro le forze del male. Per questo si fa nomade instancabile, che va alla ricerca della “pecora smarrita”, si spinge lontano e non si stanca di chiamare gli sbandati, gli emarginati, i rifiutati. Lui accorre dove c'è un uomo che non ce la fa più, che è schiacciato sotto il peso della solitudine, della stanchezza, del disprezzo da parte dei benpensanti.
È un pastore che rivendica un titolo fondamentale: Lui è uno che sa, che conosce: «Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me ed io conosco il Padre». E si tratta di una conoscenza che non ha niente da fare con la semplice intelligenza e la psicologia. È questione di amore.
Allora, con un simile pastore, mi sta bene anche l'immagine del “gregge”. Non mi vergogno di appartenere al gregge. Infatti, appartenere alla Chiesa (al gregge di Cristo), non significa essere intruppati e camminare a testa bassa e rinunciare al proprio cervello e ai propri occhi. No!
Quel pastore (Dio-Papà) è a servizio della mia dignità. Per questo, Lui non pensa al posto mio, e neppure decide per me. Dio mi tratta da adulto responsabile. E vuole che i “pastori”, suoi rappresentanti, facciano altrettanto.
Io, dunque, sono un “valore” ai suoi occhi. Dio mi prende sul serio.
Ho a che fare con un pastore attento a ciascuna delle sue pecore. E quando mi sento chiamare, non penso, subito ad un rimprovero o ad un castigo. Penso piuttosto, con sorpresa, che Dio mi conosce per nome.
4. CUORE DI PADRE (FIGLIO PRODIGO)
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: “Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta” Allora il padre divise le sostanze tra i due figli. Pochi giorni dopo... emigrò in un paese lontano e là, menando vita dissoluta, dissipò il suo patrimonio... Tornato in sé, diceva: “Voglio ritornare da mio padre e dirgli: – Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te”. Mentre era ancora lontano suo padre lo vide e ne ebbe compassione. Gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò... [E] il padre disse: “... Facciamo festa... perché questo mio figlio era morto ed è ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”» Luca 15, 1-32.
Questa parabola ha subito il torto di vedersi affibbiare un titolo errato. È, infatti, comunemente indicata come la storia del “figliol prodigo”; invece, la figura centrale, il protagonista indiscusso è il padre.
– Di questo padre colpisce, prima di tutto, il silenzio.
C'è il figlio minore che parla, pretende. Il padre non spicca una parola.
Il suo è il silenzio dell'amore, rispettoso della libertà del figlio. Accetta il rischio di tale libertà. Certo addolorato, ma non adirato per la richiesta. Lui non può sostituirsi alla scelta del figlio. [Senza libertà non c'è amore. Un dottore della Chiesa parla appunto dell'uomo, al momento della creazione, come “rischio di Dio”].
Noi ci chiediamo, d'istinto: Perché non l'ha trattenuto? Perché non gli ha rifilato una buon razione di legnate sulla schiena invece della parte del patrimonio che gli “spetta”?
Ma la vera paternità non va confusa col paternalismo. Quest'ultimo ne rappresenta la deformazione: con l'intento di proteggere, finisce per soffocare la crescita dell'individuo e di bloccarlo in uno stadio infantile.
«Nel contesto del Vangelo, Dio non appare come il padre che spranga la porta affinché i figli non escano di notte, ma la luce illuminante, la misteriosa bussola che orienta l'uomo nella sue scelte, che non lo abbandona nell'esercizio rischioso della libertà, e che crea nuove prospettive di liberazione, rifacendosi agli epiloghi che parrebbero disastrosi. Il padre può aiutare solo essendo un modello...» (Arturo Paoli).
Il padre va con lui in una forma nascosta, interiore, che più tardi esploderà nella nostalgia del figlio.
– E poi l'attesa. Avevo trascritto queste riflessioni, tempo fa, ed ora mi sembrano illuminanti.
«L’aspettare obbliga alla vigilanza, alla veglia ed acuisce il desiderio. Voi sapete, amici che avete vissuto certe attese, che le vivete oggi, tremando: voi avete provato ad attendere un figlio che veniva da lontano, dalla guerra forse, o tornasse da una brutta avventura; voi avete provato ad attendere e ad essere attesi.
Si', tornava, da dove? Ma che importa! Se ancora gli occhi bruciano per quell’aguzzarli per veder da più lontano possibile la casa, un volto, dei volti; e avete giudicato una crudeltà malvagia la sosta in quella città, e l’altra a qualche chilometro e l’altra ancora all’ultima svolta!... Allora avete capito che terribile e meravigliosa cosa è attendere e che forza e che entusiasmo dà il saper di essere attesi».
UN BIGLIETTO...
Intorno alla stazione principale di una grande città,
si dava appuntamento, ogni giorno e ogni notte,
una folla di relitti umani: barboni, ladruncoli, marocchini e giovani drogati.
Di tutti i tipi e di tutti i colori.
Si vedeva bene che erano infelici e disperati.
Barbe lunghe, occhi cisposi, mani tremanti, stracci, sporcizia.
Più che di soldi, avevano tutti bisogno di un po’ di consolazione e di coraggio per vivere;
ma queste cose oggi non le sa dare quasi più nessuno.
Colpiva, tra tutti, un giovane, sporco e con i capelli lunghi e trascurati, che si aggirava
in mezzo agli altri poveri naufraghi della città, come se avesse una sua personale zattera di salvezza.
Quando le cose gli sembravano proprio andare male,
nei momenti di solitudine e di angoscia più nera,
il giovane estraeva dalla sua tasca un bigliettino unto e stropicciato, e lo leggeva.
Poi lo ripiegava accuratamente e lo rimetteva in tasca.
Qualche volta lo baciava, se lo appoggiava al cuore o alla fronte.
La lettura del bigliettino faceva effetto subito.
Il giovane sembrava riconfortato, raddrizzava le spalle, riprendeva coraggio.
Che cosa c'era scritto su quel misterioso biglietto?
Sei piccole parole soltanto: “La porta piccola è sempre aperta”.
Tutto qui. Era un biglietto che gli aveva mandato suo padre.
Significava che era stato perdonato e in qualunque momento avrebbe potuto tornare a casa.
E una notte lo fece. Trovò la porta piccola del giardino di casa aperta.
Salì le scale in silenzio e si infilò nel suo letto.
Il mattino dopo, quando si sveglio, accanto al letto, c'era suo padre. In silenzio, si abbracciarono.
Il biglietto misterioso spiega che c'è sempre una piccola porta aperta per l'uomo.
Può essere la porta del confessionale, quella della chiesa o del pentimento.
E là, sempre un Padre, che attende.
Un Padre che ha già perdonato e che aspetta di ricominciare tutto daccapo.
• Secondo la Parabola sembra che il padre sia rimasto in casa ad aspettare il figlio, a scrutare l'orizzonte.
Il cuore del padre, invece, era andato lontano...
Ha camminato più il padre che non il figlio, a pensarci bene. L'amore non si rassegna alle distanze, alla separazione. L'amore è sempre in movimento, sempre in anticipo; prende costantemente l'iniziativa, non si chiude in un'attesa corrucciata e indispettita. Il padre non si rassegna a stare nella casa piena zeppa di ogni bene – comprese le opere buone del figlio maggiore –. Quella casa gli sembra vuota, perché manca un figlio. Il Padre non tira un sospiro di sollievo perché si è liberato di un “piantagrane”. Impazzisce di gioia, ed obbliga tutti alla festa, quando si profila in lontananza la sagoma del figlio.
Dio non si rassegna alla perdita dell'uomo peccatore: lo spia, lo insegue, lo tormenta. Si sono poste in bocca di Dio queste parole: – Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato –. Forse sarebbe meglio precisare: – Non mi cercheresti se io non ti avessi già trovato... –.
• Questa parabola è uno dei test più inquietanti, forse la prova decisiva della nostra fede è proprio questa. Siamo di fronte ad un comportamento per lo meno singolare, quello del Padre nei confronti del figlio che ritorna dopo aver ”dilapidato” i suoi beni con le male-femmine. Esso esige il nostro giudizio, la nostra approvazione oppure il nostro dissenso. «... Era ancora lontano quando suo padre lo vide e s'intenerì; gli corse incontro, gli si gettò al collo, lo baciò e ribaciò...».
Dio: un abbraccio
Una volta una bambina chiese alla mamma: «Mamma, chi è Dio?».
La mamma rimase sbalordita da quella domanda così ardita.
D'altra parte era contenta che proprio la sua bambina le avesse fatto quella domanda tanto importante.
Allora, come per ringraziarla, se la prese tra le braccia e se la strinse forte al petto e la baciò.
In quel momento le venne la risposta: «Cara bambina mia, Dio è quello che provi ora con me!».
Dio è un abbraccio. Dio è un bacio. «l padre gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Luca 15,20). Che cosa pensiamo di questo gesto? Siamo in grado di accettare i gesti del Padre, il suo intenerirsi, il correre incontro a quello scavezzacollo, il gettargli le braccia al collo, e il baciarlo e ribaciarlo? Oppure ci sembra che ci sia dell'esagerazione o, peggio, della debolezza senile? Accettiamo di “far festa”? Non di contraggenio, ma con la consapevolezza che la festa per il ritorno è doverosa?
Il nostro cristianesimo va misurato a quelle braccia. Una prova soprattutto per il cuore. È capace di sopportare quel gesto immenso e pazzesco? L'esame più impegnativo della fede cristiana consiste ne metterci a contatto con l'amore di Dio e vedere se non rimaniamo scandalizzati.
• Un autore ha tratto la seguente considerazione profonda.
«Quando andiamo a confessarci dovremmo ricordarci che riceviamo un dono smisurato da parte di Dio (Il figlio che ritorna non ottiene più delle cose. Quelle le ha già avute e le ha dilapidate. I sandali, il vestito, l'anello, stanno ad indicare la dignità ricuperata e che dev'essere riconosciuta da tutta la famiglia, sono i “segni” dello stato di figlio, molto più importanti del malloppo che ha preteso al momento della partenza).
Ma dovremmo, anche convincerci che restituiamo a Dio qualcosa di cui l'avevamo defraudato, qualcosa che Lui attende: la nostra comunione con Lui. In fondo anche Dio riceve qualcosa di prezioso da noi, dal nostro ritorno, dalla nostra conversione.
Confessarsi significa ricevere e dare. Accogliere e restituire. La gioia è anche quella di Dio; anzi è sopratutto la sua – molti cristiani, invece, non escluse le persone religiose, escono immusonite dal confessionale, dimenticando che hanno ricevuto una “sentenza di festa”! –
Non è esatto affermare che “portiamo a Dio i nostri peccati”. No! Gli “riportiamo” la nostra presenza, la possibilità della festa, la possibilità di essere Padre “arricchito” di un figlio. Quando il Prodigo che ritorna cerca di elencare le proprie mascalzonate, il padre non lo sta neppure a sentire. Non è ciò che gli interessa. Ciò che gli preme è che il figlio entri “da figlio” in casa. Non gli chiede conto che fine abbiamo fatto i suoi soldi. Il “dissipa-ore” ha riportato indietro il tesoro più prezioso: la capacità, la voglia di “essere”». (Pronzato, Il pane della Domenica).
“Indispensabili” al cuore di Dio
– «Io sono il buon pastore...».
– «O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?».
– «Un uomo aveva due figli....».
Qual è il dato fondamentale, che emerge dalle tre parabole.
Il pastore non si ritiene ricco, appagato, perché ha pur sempre 99 pecore al sicuro. Si pone alla ricerca affannosa di quella smarrita. Le 99 rimaste non lo risarciscono della perdita di quell'unica vagabonda.
La donna non si consola contando le 9 dramme che serra in pugno. È povera (il gruzzolo, in tutto, vale press'a poco 10 Euro). Ma non si rassegna a rimanere impoverita di quella moneta che è andata a finire chissà dove. E mette tutto sottosopra; si dà un gran daffare e disturba il mondo intero per il prezioso ritrovamento.
Il padre ha due figli: uno se ne va con una procedura piuttosto insolita, e quello rimasto – per quanto “esemplare”, almeno all'apparenza – non lo consola dello scavezzacollo che è partito sbattendo la porta.
La conclusione è evidente: la contabilità di Dio è diversa dalla nostra.
Non si basa su criteri quantitativi. Basta un segno meno, una sottrazione (per quanto piccola), e i conti per Lui sono in rosso.
Una sola persona ha un valore “unico” agli occhi di Dio: un valore non sostituibile.
Ciascuno di noi è prezioso, importante. “Importante di amore” (P. Talec). E quindi importante di ricerche ostinate, preoccupazioni, sollecitudini infinite, attese pazienti da parte di Dio.
Dio è povero, si afferma. Ma è certo che non si rassegna ad essere “impoverito” anche si una sola delle sue creature. Dio è povero, ma possiede un patrimonio immenso; e quella che per noi sarebbe una perdita “irrilevante”, quasi vantaggiosa per la tranquillità della casa [“Ci liberiamo di rami secchi” commenterebbe, forse qualcuno di noi], una cifra irrisoria..., nel suo cuore provoca una lacerazione dolorosissima, che può essere ricomposta unicamente col recupero di quel minuscolo, incalcolabile tesoro.
L'uomo può cessare di essere figlio. Può far a meno del Padre; può stare senza Dio; può fuggire. Ma Dio non si rassegna a stare senza l'uomo.
O Signore,
non tutti i figli sono sulla via del ritorno.
Ritorneranno,
ma intanto si credono ancora in diritto di farTi soffrire.
E il ritorno d’un figlio
non fa cessare l'agonia del Padre.
Tanti, tantissimi – basterebbe anche uno solo – sono lontani,
vogliono essere lontani, rifuggono il Tuo sguardo,
su strade che sanno ancora troppo di falsità, d’illusione,
di speranze umane chiuse al Tuo Mistero,
ma non per questo, capaci di trattenere il Tuo amore.
E Tu stai in attesa:
ad ogni istante c'è un ritorno, c'è un abbraccio di gioia,
ma la storia di questo mondo
è fatta ancora da molteplici istanti di attesa.
La Tua sofferenza di Padre
è anche e, soprattutto,
per noi, che ci riteniamo figli devoti,
da lungo tempo padroni di casa.
L'avventura più brutta è non riuscire più a vivere
l'avventura di una Casa
dove la legge dei figli è la legge del Padre;
dove per legge s'intende l'amore del Padre,
la sua ansia per chi è lontano,
il suo attendere il ritorno di tutti i figli,
il suo soffrire per quelli di casa
che hanno fatto, di questa casa, una sicurezza personale,
un privilegio indiscutibile, un meritato riposo.
Non intendo affermare
che occorre invidiare l'avventura del figliol prodigo;
intendo dire che è necessario
vivere l'avventura di figli devoti
lasciandoci rinnovare continuamente,
giorno per giorno, dalla potenza dello Spirito.
Essere figli fedeli a queste esigenze rinnovatrici dello Spirito Santo,
è cercare di dare maggior respiro a questa Casa.
Non tutti i figli s’allontanano
perché figli "prodighi", incoscienti, spensierati;
tanti se ne vanno
perché incapaci di sopportare la pesantezza d’una casa,
dove si è perso il gusto
di vivere l'attesa del Padre e l'attesa di figli,
la cui testimonianza operosa
è il miglior invito all'abbraccio di un ritorno.
L'attesa del Padre è l'attesa di tutta la Casa,
l'ansia del Padre è l'ansia di tutti i figli devoti,
la gioia del Padre è la gioia del mondo intero
IO SONO IL TUO DIO
Io sono il tuo Dio – e ti sto vicino:
non puoi avere di più sulla terra,
solo io posso riempire il tuo cuore.
Sei solo? Io ti farò compagnia
Nessuno ha una parola buona per te?
Ricorri con fiducia al mio cuore e ti esaudirò.
Io sono il tuo Dio,
e ti resto fedele anche quando ti “mando”la croce per quanto pesi;
se la porti con amore, diventerà leggera
Io sono il tuo Dio – e penso a te...;
dall'eternità ho pensato a te,
e per te ho dato il mio sangue e la mia vita,
come posso dimenticarmi di te!?.
Io sono il tuo Dio
e tutto dispongo per il tuo meglio:
se ora non lo capisci, un giorno lo vedrai con tutta la chiarezza e mi ringrazierai.
Io sono il tuo Dio, – ti amo fedelmente,
conosco tutto ciò che affligge il tuo cuore,
vedo ogni sguardo, ascolto ogni parola che ti contraria.
Accetta tutto con tranquillità e pace
perché sono io che permetto affinché tu perseveri.
Restami fedele affinché il mio cuore te ne ricompensi,
Io sono il tuo Dio,
il mondo passa, il tempo fugge, gli uomini scompaiono,
la morte tutto ti rapisce, una sola cosa ti resterà, il tuo Dio.
• «Non c’è che una sola specie di amore buono; però ci sono mille “copie” differenti» (Le Rochefoucould).
• E l’amore buono è quello di Dio. Lui ama e perdona. Noi troviamo difficoltà nell’ammettere quest’amore, perché Lui ama gratuitamente, senza far troppo caso ai nostri meriti.
Noi non siamo d’accordo con questo modo di procedere.
Nonostante siamo immagini di Dio – “copie” mal riuscite –, a noi, al nostro comportamento manca l’accoglienza, la comprensione, la tolleranza, il perdono...
L’amore è vita per tutti, principalmente per i bambini. Assicurano che la mancanza di amore finì nel secolo XIX, con più della metà dei bambini nati. La mancanza di una mano benevola, di uno sguardo, di una parola tenera, dell’abbraccio materno... debilitarono e portarono alla morte quei bambini, per i quali la vita non aveva nessun senso.
Sempre, allorché si ama un altro, s’ottiene che lui viva tranquillo, in pace, accettato e felice.
Chi ha conosciuto Dio, il suo amore, non può far a meno di amare.
A sua volta, potrà giungere a conoscere Dio, allenandosi nello “sport” dell’amore. «Io ho sempre creduto che il miglior mezzo di conoscere Dio è di amare molto»
(Vincent Van Gogh).
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