(Parabole) – 2 – REGNO DI DIO
Preannunciato dai Profeti, il Messia giunge nella persona di Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, riconosciuto dalla Chiesa come il Signore dell'universo. Gesù viene ad instaurare in linea definitiva nella sua persona il Regno di Dio: il Regno di Dio corrisponde alla signoria di Dio sugli uomini nelle parole e nelle opere di Gesù Cristo.
Il Regno non è l'instaurazione di un'egemonia politica o di un sistema di governo terrestre democratico, totalitario o oligarchico: è una dimensione dalla quale procede l'amore di Dio per tutti gli uomini, che diventa tra di loro giustizia, fratellanza e solidarietà. Si tratta quindi di un Regno di giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo (cfr. Rm 14,17), voluto da Dio per la salvezza del mondo.
Per darne un'idea Gesù usa le parabole: preziosità, forza intrinseca... che deve essere apprezzata sopra ogni cosa: Il Regno dei cieli è dei «violenti», di chi impegna se stesso fino in fondo – afferma Gesù. Nel contempo am-mette la difficoltà. Direi che la loro caratteristica peculiare sia la capacità di sconcertare. Anche per questo Cristo ha esitato all'inizio «A che cosa possiamo paragonare il Regno di Dio? O con quale parabola possiamo proporlo?».
1. DESIDERIO ED APPREZZAMENTO DELLA SCOPERTA
• «Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto nel campo: un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo; poi, pieno di gioia, va, vende tutto quello che possiede e compra quel campo».
• «Il regno dei cieli è simile ad un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra». Matteo 13, 44-46
Gesù ricorre a diverse immagini per descriverci la realtà misteriosa del Regno di Dio.
Il Regno, così, è paragonato a una seminagione, a un pugno di lievito che fa fermentare una massa di farina, ad un tesoro nascosto, alla ricerca di un mercante per entrare in possesso di una perla preziosa, ecc...
Tutte immagini. Meno quella che, forse, avremmo desiderato noi.
Il Regno non viene mai presentato come una cosa “già fatta” che sta lì a disposizione, soltanto da consumare... No. Nella prospettiva del Cristo, il Regno rappresenta una realtà dinamica. Si tratta di cercare, darsi da fare, scegliere, decidere, sacrificare qualcosa, impegnarsi. Precisamente ciò che non vorremmo...
Ora, le due parabole che ci vengono presentate (Il tesoro nascosto in un campo e La perla di gran valore), pongono in evidenza alcune linee caratteristiche della nostra appartenenza al Regno.
• Il punto di partenza mi pare lo si possa individuare nel senso della scoperta.
Il che presuppone una ricerca, ... una passione.
La verità è offerta a tutti, ma non è messa a disposizione su un piatto. Cercare costituisce la condizione essenziale per trovare. Bisogna che il cuore “bruci” dal desiderio, affinché il dono sia raggiunto.
E si tratta non di una scoperta marginale, ma di qualcosa di essenziale, che può determinare una svolta imprevista, all'esistenza. È una “conversione”. È la scoperta di un tutto, capace di riempire la vita dell'uomo, non di un elementare accessorio da aggiungere a tanti altri.
• Tocchiamo così il secondo aspetto sottolineato dalla parabola. La scoperta pone l'uomo dinanzi ad una scelta precisa. Tanto è importante la scoperta, tanto dev'essere radicale la scelta.
Se il Regno di Dio è tutto, a questo tutto occorre essere disposti a sacrificare ... tutto il resto.
Non si tratta, beninteso, di disprezzare il resto. Occorre, semplicemente, ridimensionarlo, avvertirne i limiti, subordinarlo alla scoperta. È impossibile entrare nel Regno di Dio senza passare attraverso una fase di rottura, di rinuncia, di abbandono. Ma il sacrificio non è fine a se stesso: sfocia nella gioia del possesso. E la gioia costituisce proprio il punto culminante delle parabole.
Il discepolo di Cristo non è uno che “ha lasciato”. È uno che ha trovato. Cristiano non è uno che tende al sacrificio, alla rinuncia. È uno che tende alla gioia e alla pienezza. E perciò è disposto a pagare il relativo prezzo.
Puntare un solo obiettivo
Un grande maestro di tiro con l'arco organizzò una gara tra i suoi allievi per valutarne il grado di preparazione.
Nel giorno fissato, un bersaglio di legno, con al centro un cerchio rosso, fu legato su un albero ad una estremità della radura. All'estremità opposta, fu tracciata sul suolo una linea, dietro la quale si piazzarono i concorrenti.
Un giovane avanzò baldanzosamente, impaziente di dimostrare la sua abilità. Afferrò saldamente l'arco e una delle frecce, poi si sistemò in posizione di tiro. «Posso tirare, maestro?» – chiese. Il maestro che lo fissava attentamente, gli chiese: «Vedi i grandi alberi che ci circondano?». «Sì, maestro, li vedo benissimo tutto intorno alla radura». «Bene», rispose il maestro, «torna con gli altri perché non sei ancora pronto». L'allievo, sorpreso, posò l'arco e obbedì.
Un secondo concorrente si fece avanti. Prese l'arco e la freccia e mirò con cura. Il maestro si portò di fianco all'arciere e gli chiese: «Puoi vedermi?». «Sì, maestro, posso vedervi. Siete qui, vicino a me». «Torna a sederti con gli altri» – rispose il maestro. «Tu non potrai mai colpire il bersaglio».
Tutti i partecipanti, gli uni dopo gli altri, afferrarono l'arco e si prepararono a scoccare la freccia, ma ogni volta il maestro poneva loro una domanda, ascoltava la risposta e li rimandava al loro posto.
La folla, sorpresa, iniziò a rumoreggiare. Nessuno degli allievi aveva tirato una sola freccia.
Allora si fece avanti il più giovane degli allievi. Se n'era stato in disparte, silenzioso. Tese l'arco, poi restò perfet-tamente immobile, gli occhi fissi davanti a lui.
«Vedi gli uccelli che sorvolano il bosco?» – gli chiese il maestro. «No, maestro, non li vedo».
«Vedi l'albero sul quale è inchiodato il bersaglio di legno?». «No, maestro, non lo vedo».
«Vedi almeno il bersaglio?». «No, maestro, non lo vedo».
Dalla folla degli spettatori si levò una risata. Come poteva quel ragazzo colpire il bersaglio se non riusciva
nemmeno a distinguerlo dall'altra parte della radura? Ma il maestro impose il silenzio e chiese pacatamente all'allievo:
«Allora, dimmi, che cosa vedi?». «Io vedo soltanto un cerchio rosso» – rispose il giovane.
«Perfetto!» – replicò il maestro. «Tu puoi tirare!» La freccia solcò l'aria sibilando leggera e si piantò vibrando nel centro del cerchio rosso disegnato sul bersaglio di legno ...
Nel cuore d’ogni essere umano dimora un desiderio: essere felice. Ma quest’obiettivo, spesso, non viene centrato. Schiacciato dagli affanni, dalle preoccupazioni del mondo e dai piaceri illusori, l'uomo sbaglia il "bersaglio" e non "vede" l'unico obiettivo che dà senso e sapore alla sua vita: Dio.
••• Vorrei, però, soffermarmi sulla parabola del “Mercante di perle”.
Ciascuno di noi, se ha veramente deciso d'entrare a far parte del Regno di Dio, ha sgranato gli occhi davanti a quel-la perla eccezionale, a confronto della quale tutte le altre realtà sono impallidite. Abbiamo scelto quella Realtà definiti-va, quel Valore unico. Nella risposta alla nostra vocazione cristiana, abbiamo lasciato tutto per comperare la perla d'inestimabile valore. La scoperta della “perla” ha fatto cambiare tutti gli obiettivi della nostra esistenza. Con quella perla in mano, gettiamo uno sguardo nuovo sulle cose. In sostanza, abbiamo concluso un ottimo affare.
– Ma la parabola può avere un risvolto meno esaltante.
Il mercante, che un giorno si è rivelato tanto perspicace, andando avanti nel suo cammino, può impazzire....
«Una volta conquistata la perla preziosa, noi corriamo il rischio, a lungo andare, di farci l'abitudine e di non apprezzarla più in tutto il suo valore. Ce l'abbiamo sempre fra le mani, e finiamo per considerarla un oggetto qualunque. La polvere dei giorni feriali si deposita sulla perla, offuscandone lo splendore. Un'operazione lenta, progressiva, corrosiva. E i nostri occhi si stancano di quell'opacità prodotta dall'abitudine, e ricercano istintivamente qualcosa che luccichi. Allora, il mercante furbo, che ha azzeccato il colpo memorabile all'inizio, diventa il mercante ottuso che va in giro a vendere (meglio: a svendere) il suo tesoro per delle bazzecole, a barattare la perla preziosa per delle quisquilie. Cambia un valore unico per dei prodotti dozzinali». (A. Pronzato – Pane per la Domenica)
Anche noi, nella nostra giornata, rischiamo di concludere parecchi di questi affari avventati: cambi all'insegna dell'insensatezza... Possiamo cambiare, ad esempio:
La nostra unicità, per un po' di comodo conformismo.
La specificità della vocazione cristiana, con ammiccamenti alle mode e alle ideologie più in voga.
La testa che pensa, con parole d'ordine o slogan.
La coerenza, per la preoccupazione di “non aver grane”.
La preghiera, per le devozioni.
La testimonianza coraggiosa, per un avanzamento di carriera.
Dio... per un'infinità di surrogati. (ib.)
Comunque, questo mercante impazzito quale posso diventare io, e forse anche tu – commette ostinatamente lo stesso grossolano errore: barattare una perla autentica in cambio di pezzetti di vetri colorati.
Diamanti, non sassi
Un giovane partì alla caccia di anitre selvatiche sulla riva di un fiume. Era armato solo di una fionda.
Raccolse alcuni ciottoli sul greto e cominciò a scagliarli con tutta la sua forza.
Mirava soprattutto agli uccelli che si fermavano incautamente sulla riva.
I sassi lanciati finivano con un tonfo nell'acqua profonda.
Soltanto due ciottoli colpirono a morte due uccelli, prima di finire anche loro nella corrente.
Quando rientrò in città, il giovane aveva due anitre nella bisaccia ed ancora uno dei ciottoli in mano.
Nei pressi della città, un gioielliere lo fermò con un’esclamazione di sorpresa.
«Ma è un diamante, quello che hai in mano! Vale almeno diecimila euro!».
Il giovane cacciatore impallidì e poi si disperò: «Ma che stupido sono stato! Ho usato tutti quei diamanti per uccidere degli uccelli... Se li avessi guardati bene, ora sarei ricco, e invece la corrente li ha portati via!».
Ognuno dei nostri giorni è come un diamante prezioso. Ciò che conta è accorgersene, e non sprecarlo per andare a "caccia" di ciò che non può renderci veramente felici...
2. UN SEME CHE SA IL FATTO SUO
«Succede del Regno di Dio, come di un uomo che abbia gettato la semente nella terra; e poi, dorma o stia in piedi, a seconda che sia notte o giorno, il seme germoglia e cresce: come lui stesso non lo sa. Da se stessa la terra produce prima l'erba, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Allorché il frutto lo consente subito ci mette la falce, poiché è il tempo della mietitura». Marco 4, 26-29
È significativo che soltanto l'Evangelista Marco registri questa parabola, semplice solo all'apparenza. Lui non teme di presentare questa parabola difficile che vorrebbe farci capire qualcosa del mistero del Regno.
• Nelle parabole precedenti, Marco aveva messo a fuoco prima di tutto la figura del seminatore e “fissato” il suo gesto [«Uscì un seminatore per seminare...»]; quindi parlò del vari tipi di terreno [«... parte di esso cadde lungo la via..., parte in un luogo roccioso dove non c'era molta terra; … parte cadde fra le spine... Infine parte cadde sul terre-no buono»]. Adesso, giustamente vuole richiamare l'attenzione sul seme [cioè la Parola di Dio – Mt 13, 19], sulla sua caratteristica principale: cioè, la sua forza intrinseca. Il seme è la cosa più debole, ma anche la più forte.
Non è che s'intende minimizzare l'azione del contadino. Come non si nega l'importanza del terreno. Di ciò si è già parlato nella parabola del seminatore. L'opera e l'azione del contadino è stata ed è necessaria (semina, aratura, sarchiatura, ecc). Ma ora non interessa. Ci si occupa della forza vitale insita nel seme, che è indipendente dall'azione dell'uomo e dal suo sapere [«Come, egli stesso non lo sa» v. 27]. Il contadino può andare a dormire o alzarsi, non perché il suo lavoro sia irrilevante, ma perché si parla d'altro, e lui, a questo punto, non interessa.
Due tentazioni sono sempre in agguato contro questa parabola: l'interpretazione allegorica e l'interesse esasperato per quello che “fa” o “non fa” il contadino. Si potrebbe facilmente scivolare sul piano morale quando si tratta di trarre le conseguenze, e allora, la parabola costituirebbe un invito alla pazienza, un'apologia della speranza. Evidentemente ci si sente imbarazzati di fronte al seme: non si sa che cosa dire. Si preferisce parlare dell'uomo, sia pure per ammirarne la calma o per esortare ad aver fiducia.
La parabola, invece, rappresenta un preciso invito a scoprire l'azione del seme e la sua potenza.
La Parola di Dio è viva, ha una sua forza: fa succedere qualcosa. Il Regno è essenzialmente potenza di Dio, non azio-ne dell'uomo. Il Regno cresce e lavora anche se pare non succeda nulla. “Produce”, anche se tutto rimane come prima.
Riassumendo: il Regno è considerato da tre angolature diverse.
– Come seminagione [parabola del seminatore] (Mt, 13, 3-9).
– Come accoglienza e responsabilità [spiegazione di Gesù della parabola] (v. 18-23).
– Come potenza [il grano che cresce da sé].
Quest'ultimo aspetto non esclude i primi due – anzi li presuppone come condizione – ma si sgancia da essi. Ossia: la forza vitale non è stata data al seme dall'attività del contadino. La possiede in sé.
[Cfr. parabola del “lievito”: «Il Regno dei cieli è simile a un po' di lievito che un donna prende e mescola in tre misure di farina, finché tutta la pasta sia fermentata». Matteo 13, 33]
Il credente – come il contadino – è uno che “è cosciente” di tutto questo.
Attenzione! La parabola non dice che l'uomo “non” sa. Il credente è uno che “sa” del Regno; è a conoscenza della sua presenza, ed azione. Si afferma solo che non sa come avviene (v. 27). Il che è ben diverso! Il “come” non aggiungerebbe nulla. Anzi, toglierebbe qualcosa, tanto alla sua fede, quanto alla potenzialità del seme. Il credente ha persino bisogno che il “come” rimanga segreto; altrimenti sparirebbe dalla sua vita lo stupore e la dimensione del rispetto. Non lo vedremmo, cioè, mai in ginocchio, ma sempre indaffarato, sempre curvo a controllare – o, peggio, a manipolare –.
Questa parabola, poi, mette in imbarazzo perché non dice né che cosa dobbiamo fare e neppure che cosa dobbiamo evitare. Il contadino – dopo aver fatto quello che era necessario – adesso “lascia fare”.
Ed è l'azione più difficile da attuare, perché nel campo del Regno l'attivismo semplicemente non c'entra: ci pensa già il seme, da sè! Il cristiano non è un costruttore del Regno, né tanto meno un direttore dei lavori. È, più modestamente ma più utilmente, uno che offre delle possibilità al Regno. Qualche volta, la possibilità più apprezzata può essere proprio quella di “non intralciare”.
3. LA FORZA ESPANSIVA DELLA GRAZIA [Granellino di Senape]
«[il Regno di Dio] è come un granellino di senape: quando viene seminato nel terreno è più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma, una volta che sia seminato, cresce e diventa più grande di tutti gli ortaggi, e mette rami così grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra...». Marco 4, 30-34
La senape, a voler essere pignoli, non è il più piccolo seme che si conosca. Ma, in Palestina, stava ad indicare proverbialmente una cosa minuscola, una quantità minima. Pur piccolissimo, è assai attivo: in un anno la pianta supera abbondantemente il metro. E può aggiungere i tre o quattro metri di altezza (specie nelle regioni del lago di Tiberiade.
• Fissiamo una prima indicazione importante: Dio sceglie le realtà più umili per realizzare un suo disegno di grandezza. Tutta l'operazione dev'essere attribuita esclusivamente a Lui. Il Regno è opera esclusiva di Dio.
Nel Regno di Dio è cancellata ogni idea di conquista; ad essa si sostituisce quella di rifugio e protezione: «... gli uccelli del cielo possono ripararvisi alla sua ombra». Esso è qualcosa di benefico, rassicurante...
Per interpretare correttamente la parabola si rende necessaria una precisazione.
– L'uomo moderno che passi attraverso un campo, considera lo sviluppo di una pianta, la crescita della messe, come un processo normale che ubbidisce a delle leggi biologiche.
– L'uomo della Bibbia, invece, ci scorge una serie di miracoli. In tale prospettiva, la parabola parla della crescita del Regno di Dio come qualcosa di prodigioso – azione di Dio –, e che, quindi, non è fondato su normali previsioni umane. Il Regno si sviluppa, non attraverso una crescita che ubbidisce a leggi naturali , ma grazie all'azione miracolosa di Dio.
A questo punto occorre evitare un'interpretazione abusiva, anche se piuttosto comune. Non si deve in questa parabola correre subito col pensiero allo sviluppo e alla diffusione della Chiesa.
«Il Regno di Dio è bensì operante sulla terra e nella Chiesa, ma non è una dimensione visibile e un'istituzione esteriore come la Chiesa medesima. Se si applica immediatamente la parabola alla Chiesa, si può essere indotti a valutazioni che sono proprio all'opposto rispetto al significato della parabola stessa. Per cui si sarebbe portati a interpretare manifestazioni esterne di grandezza, estensione d'influenza,... statistiche, come segni sicuri che il seme s'è sviluppato e i rami si allargano sempre più; che il seme ha superato definitivamente lo stadio di seme». (A. Pronzato, ib.).
Ora, pare che la parabola indichi, invece, che la realtà del Regno sfugge ad ogni valutazione in base ai criteri terreni. In parola povere: non è possibile fotografare lo sviluppo del Regno di Dio, e nemmeno “fissarne” un momento partico-lare; così come non è possibile scomporlo in varie fasi di crescita.
Per quanto riguarda il Regno di Dio, stando ai nostri calcoli, si corre sempre il pericolo di scrivere la storia alla rovescia.
La vera grandezza
Il Regno di Dio è poco appariscente [seme piccolissimo], ma presente ed operante. Cristo Gesù esalta la potenza intrinseca della Parola di Dio. Il seme diventa un albero. E per sottolinearne la “grandezza”, Gesù che fa? Ci mette ... i nidi, gli uccelli! Estendere i rami, allargare le propria zona d'ombra, in sé non ha senso. Ciò che ha senso – ossia dà significato alla pianta – è che gli altri ci trovino posto. Sono i nidi “che raccontano” la pianta; non il proprietario.
– Certe grandezze umane esauriscono in sé il loro significato. Non rimandano più ad un significato superiore.
L'importanza, il prestigio, l'essere influenti su un piano umano, il maneggiare, portare avanti opere grandiose, non sono “segni” [né lo potranno mai diventare, a dispetto di tutte le buone intenzioni] di quelle altre cose importanti. Non lasciano intuire la realtà superiore. Semmai la nascondono.
Corrono il rischio di diventare, anzi, opacità ed impedimento a scorgere qualcos'altro.
È l'equivoco di troppe istituzioni religiose. Ci si illude che essere considerati da un punto di vista economico, di pote-re, di cultura, si presti un servizio per la crescita del Regno di Dio.
Solo la piccolezza ha una possibilità.Un segno troppo clamoroso finisce per infastidire, diventa irrilevante , o persino irritante.
Un segno dovrebbe semplicemente “far sospettare” qualcos'altro. Non un punto esclamativo, ma interrogativo.
4. CHIESA SANTA DI UOMINI PECCATORI [ “Buon grano e la zizzania”]
«Il Regno dei cieli è paragonato ad un uomo che seminò buon seme nel suo campo. Mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico, seminò fra il grano la zizzania e se ne andò. Quando poi crebbe il frumento e portò frutto, allora apparve anche la zizzania. I servi andarono dal padrone e gli dissero: “Signore, non hai forse seminato buon seme nel tuo campo? Come mai c'è della zizzania? Egli rispose: “Il nemico ha fatto questo”. I servi gli dicono:“Vuoi che andiamo ad estirparla?”. Ed egli: “No, perché c'è il pericolo che estirpando la zizzania, sradicata insieme ad esse anche il grano. Lasciate che crescano entrambi fino al raccolto; al tempo del raccolto dirò ai mietitori: “Radunate prima la zizzania e legatela in fasci affinché sia bruciata; il grano invece riponetelo nel mio granaio».
… «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo; il campo è il mondo; il buon seme rappresenta i figli del regno; la zizzania, invece i figli del male; il nemico che la seminò è il diavolo; la mietitura è la fine del mondo; i mietitori, infine, sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo: il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli a radunare dal suo Regno tutti gli scandali e tutti gli operatori d'iniquità, affinché li gettino nella fornace ardente. Là sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti risplenderanno come il sole nel Regno del Padre loro!». Matteo 13. 24-32; 37-43
Una parabola tutta costruita sui contrasti. Contrasti di personaggi, gesti, mentalità, di tempo soprattutto.
Lo sfondo è unico: un campo. Il Padrone vi semina il grano. Ma, una notte, ecco il Nemico che di soppiatto ci spande manate di zizzania.
Tra i due gesti, l''opposizione è netta.
L'Avversario compie la sua azione di nascosto, approfitta delle tenebre, del sonno dei contadini; interviene sul lavoro altrui per guastare, e poi sparisce, non lo vediamo più.
Il Padrone del campo, invece, è sempre presente. Non perde di vista il “suo” campo dal momento della semina sino alla mietitura: agisce, parla, spiega. Soprattutto, non abbandona la propria opera.
Oltre ad essere Padrone del campo, [Dio] è Padrone del tempo. Non si lascia afferrare dall'impazienza.
Non è che la vista della zizzania nel grano gli faccia piacere. Tutt'altro! Si oppone, tuttavia, allo zelo intempestivo dei servitori che vorrebbero sradicare immediatamente la zizzania [Ma dov'erano quei contadini quando il Nemico agiva indisturbato sul Campo? Dormivano. Già!].
– È più facile “accorgersi” del male quando il male ha già compiuto guasti irreparabili, che prevenirlo, farsi trovare vigilanti, lucidi. È più facile denunciare che testimoniare. Più facile protestare che darsi da fare –.
Il Padrone impedisce che si compia una colossale operazione di pulizia nel campo. Ci tiene troppo al grano: «...affinché non succeda che... sradichiate anche il grano».
Questa frase costituisce il punto focale, l'insegnamento di fondo della parabola.
– Dio ha tempo. Dio sa attendere. L'appuntamento viene fissato alla fine, al momento della mietitura. La selezione si farà allora, non prima.
– Siamo noi che abbiamo una fretta maledetta. Noi, con la nostra mania di vagliare, discriminare, classificare.
Noi siamo per le posizioni nette: il Regno di Dio in questi confini precisi; di là, il regno di Satana; di qui, i buoni, di lì i cattivi. Questa è la verità, quello è l'errore. Bianco o nero!
Anche i farisei non volevano assolutamente contaminarsi con gli altri. [Così, tante Sette antiche e moderne!]
«Si direbbe un peccato tipico delle persone cosiddette “religiose”. Il bisogno di far coincidere la santità con la separazione. Naturalmente attraverso dei confini visibili e definitivi. Hanno la pretesa di sradicare il male, ... etichettando esattamente le persone quasi fossero prodotti di un supermercato: questo è il settore dei “figli della luce”, quello lo scantinato dei “figli delle tenebre”. Si sentono sicure soltanto quando hanno sistemato per bene il campo nemico, ne hanno tracciato la mappa dettagliata. E decidono ora quali sono gli individui che devono stare laggiù.
Loro sanno chi è zizzania e chi buon grano. Loro hanno la pretesa d'insegnare botanica a Dio. Hanno la presunzione d'insegnare a Dio le terapie più spicce per eliminare il male con tutte le sue brutture. Loro possiedono il diserbante infallibile. Con il pretesto di combattere il male, sono sempre contro qualcuno» (ib.).
«La zizzania (o loglio) è un'erba parassitaria; ma si direbbe che certi “servitori del bene” vivano a loro volta a spese del nemico. Se certi cecchini dell'ortodossia, ... non tenessero a portata di penna alcuni bersagli prediletti, ... non saprebbero che cosa fare. Sono solamente capaci di accanirsi su ciò che fanno gli altri. Se certi moralisti non avessero motivi per stracciarsi le vesti e gridare contro le malefatte altrui (vere o presunte) non riuscirebbero più a vivere. Campano, appunto, sulla zizzania. La zizzania è il loro provvidenziale, “datore di lavoro”!» (Pronzato, ib.)
La parabole, invece, serve a ricordarci alcune cose piuttosto importanti:
1. La presenza del male non rappresenta un fatto eccezionale. È la norma. Nella Chiesa, come nel mondo. Da per tutto. Non c'è da meravigliarsi che il male sia mescolato al bene; che i due crescano insieme, coesistano nello stesso campo. La Chiesa, dovremmo saperlo, è santa ma composta di peccatori.
2. L'uomo non ha il diritto di “anticipare” il giudizio finale. Questo spetta a Dio in esclusiva. È compito suo. La data è quella stabilita da Dio, non dai nostri calendari.
E poi l'uomo non possiede il metro adatto per giudicare i propri simili. Di quel metro Dio è gelosissimo custode. Non lo concede in appalto a nessuno. Nessuno di noi, quindi, deve “rubare” il mestiere a Dio. Il nostro compito, semmai, si esercita nel campo della comprensione, della tolleranza, del rispetto, della pazienza, della longanimità.
3. Il male e il bene non delimitano territori definiti. Soprattutto non dividono e oppongono le persone tra loro. La linea di confine del male, ad esempio, non passa attraverso individui o gruppi. Passa attraverso il cuore di ogni uomo. Per cui nessuno di noi può illudersi di essere totalmente al di qua o al di là di quella linea. C'è in tutti noi, una possibilità, una capacità di male, di tradimento. Il cuore dell'uomo è produttore di grano e zizzania allo stesso tempo.
Ostinarsi a guardare e denunciare chiassosamente il male che sta fuori di noi, nel campo nemico, significa non vedere il peccato che affonda, indisturbato, le radici dentro di noi.
4. E poi che c'è anche un modo “diverso” di guardare nel campo. Tutto dipende dall'occhio con cui si osserva una certa realtà. C'è chi vede nel mondo esclusivamente sporcizia, corruzione, violenza, cattiveria, falsità. Ma c'è chi – senza ignorare quei prodotti –, riesce a scorgere anche il bene, la generosità, la pulizia, l'onestà, la coerenza.
Certi individui sembrano specializzati a cogliere l'opera di Satana, e risultino incapaci di scoprire l'azione di Dio nel mondo. Oltre che imparare il tempo di Dio, dobbiamo farci imprestare pure il suo sguardo.
Il Padrone del campo si affida ai tempi lunghi, come antidoto al “prurito separatista” dei servi.
Il suo diserbante è, infondo, la speranza. Lui vede “diversamente” in quel campo. Ed è grazie alla speranza che, alla fine, ciò che era (o che sembrava) zizzania, o lo era in partenza, può diventare, sotto l'influsso benefico di quella trepidante attesa, un prodotto buono, da collocare a pieno diritto nel granaio celeste. [cfr. “Figliol Prodigo”]
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“TESTA O CROCE”...
Signore:
non è che lo abbia scoperto ora; però è adesso che voglio parlarne con Te:
“Perché hai voluto che tutti abbiano la loro porzione di virtù e di peccato: la loro ‘testa e croce’,
i loro ‘pro e contro’, le loro luci ed ombre, la loro parte di frumento e di zizzania?
Buon grano è il sesso, no?
Nulla di meglio se lo si utilizza come strumento per dare e ricevere vita, amore.
Però poche sono le zizzanie peggiori, se si converte in un piacere egoistico
e nella vendita in saldo della dignità dell’uomo.
Buon grano, quello della scienza posta al servizio dell’umanità.
Se con essa, però, produciamo armi di distruzione e di morte,
l’avremo convertita nella peggior delle zizzanie.
Buon grano l'acino di uva.
Da esso spremiamo quel vino che rallegra il cuore dell’uomo.
Zizzania, invece, quando lo mutiamo in quel povero alcolizzato aggrappato al lampione.
Grano buono, quello del denaro.
Un mezzo imprescindibile per promuovere il progresso e lo sviluppo dei popoli.
Zizzania, però, che sfrutta ed opprime in tante occasioni i deboli.
Nulla, Signore, nulla è totalmente buono, né integralmente cattivo.
Ogni cosa possiede la sua porzione di grano e di zizzania.
Testa o croce in qualsiasi medaglia. Misteriosa dualità del cuore umano.
La disgrazia, Signore, è che mai, come ai nostri giorni,
sono tanto sfumati i contorni fra il bene e il male, tra il grano e la zizzania!
Che il tuo Spirito, Signore ci aiuti a discernerli...;
e a non convertire questa vita in un film western, del tipo “i buoni ed i cattivi”.
Signore: sono una vera sentina di contraddizioni.
Dentro di me si mescolano due personaggi con la medesima carta d’identità;
soltanto che uno è meraviglioso, e l’altro un disastro.
l’uno, quasi un eroe e l’altro, un codardo; l’uno, è solidale, l’altro, egoista...
Nella mia medesima personalità si mescolano
il figlio di Adamo, che non vuole sottomettersi a nessuno e a nulla, rivendicando sovranità assoluta;
e il figlio dello Spirito, che ti cerca e brama come terra assetata, senz’acqua e che ti grida: Abbà (Papà)!
Concedimi, Signore, bastante umiltà per riconoscere le mie debolezze
e per saper anche riconoscere la porzione di buon seme che c’è in me: “buon grano” che viene da Te.
Dammi pure la lucidezza e la forza per scoprire ed assumere il male che oscura la mia vita,
senza rassegnarmici come fosse una fatalità.
Per ultimo, Signore,
che non dia per assodato che i “seminatori di zizzania” siano solo i malvagi “ufficiali”.
Per certo, Signore, – contro la tua affermazione –, chi seminò la zizzania fu uno di quelli considerati “buoni”.
Guarda che lo fece molto furtivamente e senza che nessuno se ne accorgesse,
e che, se pensiamo alla rapina in banca, non sono i ladri col mitra,
ma quelli in guanti bianchi, quelli che rubano senza far rumore.
I DUE LUPI
Una sera un uomo anziano confidò al suo giovane nipote la storia di una battaglia che si combatteva all'interno del suo cuore: «Figlio mio, ciò che si combatte dentro di me è una battaglia fra due lupi:
– Il primo lupo è malvagio, pieno d’invidia, collera, angoscia, rimorsi, avidità, arroganza, sensi di colpa, orgoglio, sentimenti d'inferiorità, menzogna, superiorità, egocentrismo. È terribile perché mi rende triste e depresso!
– Il secondo lupo invece è buono, pieno di pace, amore, disponibilità, serenità, bontà, gentilezza, benevolenza, simpatia, generosità, compassione, verità e fede. È meraviglioso perché mi rende la vita bella e felice!».
Il bambino un po' disorientato pensò per un minuto, poi chiese: «Nonno, ma quale dei due lupi vince?».
Il vecchio rispose semplicemente: «Di solito vince sempre il lupo che nutro...».
LEZIONE DI CATECHISMO
La catechista: “Rispondete per iscritto: Come mi giudico: “Sono buona o cattiva?”. Elisabetta, di otto anni, portò il suo “compitino alla catechista. Aveva scritto: “Sono metà buona e metà cattivella.”!
PERCHÉ, SIGNORE, TANTA ZIZZANIA?
Provo quasi vergogna, Signore, a farti questa domanda
che tanti filosofi e pensatori si sono posti invano da generazione in generazione:
«Perché esiste il male? Perché tante guerre, fame, solitudini, sfruttamenti, droghe, ingiustizie... zizzania?
Su una terra come questa, in cui alcune aurore di primavera, possono godere di certi riflessi della tua Creazione,
com’è possibile che coesistano nel medesimo cuore tanta viltà e menzogna,
insieme a tanto desiderio di purezza e d’autenticità?
Qual’è la ragione di questa complicità con il male, che afferra e combatte
per trionfare nel cuore d’ogni uomo, d’ogni razza, d’ogni civiltà,
e persino nelle più disinteressate rivoluzioni?
Perché, Signore, permetti che crescano questi fiori del male, questa zizzania,
che frequentemente soffoca le deboli spighe dell’amore e del bene?
Scandalo? Mistero? Enigma senza risposta?
So bene che un’infinità di mali ci affliggono a causa del nostro peccato e del peccato altrui;
però... e perché il peccato?
So che ci hai creati liberi per scegliere il bene o il male;
tuttavia, non è proprio questa libertà un insondabile mistero?
Signore: so soltanto una cosa sicura;
che Tu, il Seminatore della semente del Regno di Amore,
fosti il primo ad esser sorpreso di tanta zizzania nel campo del Padre.
E che sapesti mantenere, nonostante le sconfitte, una confidenza totale nella sua volontà.
Concedimi, Signore, una simile confidenza che un giorno
il male sarà vinto, estirpato, radicalmente, dalla terra e dal mio cuore.
E che il meglio di ogni uomo e di tutta la Creazione sarà raccolto
nel Regno del Padre tuo, nel più abbondante ed eterno dei raccolti...
E mentre attendiamo che questo si avveri,
fa’ che continuiamo a vincere, giorno dopo giorno, il male con il bene. (da Orar, n. 24)
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5. È UNA FESTA, NON UN FUNERALE [Le nozze del figlio del Re]
«... Il Regno dei cieli è simile ad un Re, il quale fece un banchetto di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare coloro che erano stati invitati alle nozze; ma questi non vollero venire. Di nuovo inviò altri servi dicendo: “Dite agli invita-ti: ecco ho preparato il mio pranzo: i miei buoi e gli animali ingrassati sono già stati macellati e tutto è pronto; venite alle nozze”. Ma essi, noncuranti, andarono chi ai propri campi, chi ai propri affari. Altri, poi, presi i servi, li maltrattarono e li uccisero. Il re, adiratosi, inviò i suoi eserciti ad annientare quegli omicidi e ad incendiare la città. Dice quindi ai servi: “Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni. Andate dunque ai crocicchi delle vie e chiamate alle nozze tutti quelli che troverete”. Andarono quei servi per le vie e radunarono tutti quelli che trovarono, buoni e cattivi; e così la sala si riempì di commensali.
Entrato il re a vedere i commensali, trovò là un uomo che non indossava la veste nuziale. Gli dice: “Amico, come mai sei entrato qui senza la veste nuziale?”. Egli ammutolì. Allora il re disse ai suoi servitori: “Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre esteriori: là sarà pianto e stridore di denti”.
Molti, infatti, sono chiamati, ma pochi gli eletti». Matt. 22, 1-14
Ancora una parabola “impossibile”. Riesce difficile, infatti, immaginare che degli uomini possano rifiutare un invito a nozze. Tanto più se si tratta di un re. L'invito è all'insegna della più assoluta gratuità. È richiesta unicamente la presenza, anche a mani vuote.
E riesce ancor più arduo comprendere – dopo il rifiuto dei primi destinatari – quell'invito indifferenziato: «Andate ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». Notare quel “tutti”! E «buoni e cattivi»!
Che banchetto regale è mai questo, in cui sono abolite le differenze, azzerati i ranghi, e addirittura i buoni si ritrovano a fianco con delle persone “indegne”? Non è bello ritrovarsi intruppati in una combriccola così scalcagnata.
Se il re premia così anche i cattivi, vale proprio la pena di comportarsi onestamente?!
Infine, il terzo elemento “impossibile” della parabola: l'uomo sorpreso senza abito di nozze. Sembra strano che soltanto questo disgraziato sia stato ritenuto “indegno”. Eppure il reclutamento è stato fatto senza guardare troppo per il sottile, agli angoli delle strade, senza preavviso!
Fuori da ogni logica – ma purtroppo reali, abituali – i comportamento degli uomini nei confronti di Dio.
Se Dio ci convocasse per una puntigliosa resa dei conti, non c'è dubbio che lasceremmo da parte ogni cosa e ci presenteremmo puntuali. Se Dio ci chiamasse, come Padrone esigente, a portare i frutti del nostro lavoro, a pagare ciò che gli è dovuto... faremmo la fila pazientemente e i servi dovrebbero intervenire per disciplinare l'afflusso.
Dio, invece, ci sorprende con un invito a un banchetto nuziale! Che seccatura!
L'ideale cristiano non è una morale opprimente, ma una beatitudine. Il credente non è uno schiavo sotto il giogo, ma una persona liberata. L'esistenza cristiana è una festa.
Ma – sembra strano – tutto ciò che ci sorprende, che ci coglie alla sprovvista, … ci irrita.
La giustizia, la severità, la costrizione … le percepiamo … normali, logiche.
La gratuità, invece, quella fa scandalo. Il dono imprevedibile, immeritato, quello, non riusciamo proprio ad ammetterlo.
E allora non prendiamo neppure in considerazione l'invito; lo ignoriamo (o lo stimiamo meno).
Ci comportiamo come se quella convocazione alla gioia non fosse mai risuonata alle nostre orecchie. «Non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari».
La vita continua affogata nelle solite meschinità, dispersa nelle solite cose insignificanti. Importante è correre, affannarsi, anche se non sappiamo dove si va e perché!
Qualcuno adotta perfino un comportamento villano e criminale nei confronti dei messaggeri: «Presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero». Se fossero state guardie armate che recavano l'invito, le avremmo seguite rispettosamente. Quelli, invece, erano disarmate e recavano un invito. Offesa imperdonabile!
L'uomo riscopre tutta la sua carica di violenza e di aggressività dinanzi a Colui (Dio) che non impone nulla, offre senza chiedere nulla in cambio. L'uomo è disposto a pagare. La gratuità gli è intollerabile.
– Ritorniamo un momento a quell'individuo sorpreso senza abito nuziale.
In proposito i commenti si sprecano. Qualcuno parla di “opere buone”, ma evidentemente ci si dimentica che là dentro sono stipati “buoni” e “cattivi”. Il certificato di buona condotta non era stato richiesto, per essere invitati!
Assai più interessante è l'intuizione di un commentatore contemporaneo, A. Maillot, il quale spiega:
«Quell'individuo ha frainteso sul significato dell'invito. Ha creduto di dover partecipare ad un funerale, non ad un pranzo di nozze. È il simbolo di quei cristiani che non arrivano a credere che il Regno di Dio è un banchetto nuziale, e si vestono, e adottano una faccia da una sepoltura.
È l'immagine del “credente”, ma rivestito di severità, austerità, tristezza, silenzio, mentre, invece, bisognerebbe indossare l'abito della gioia e della speranza. È un uomo [un cristiano] che si fa l'idea che occorra portare la tristezza del mondo, invece di recare al mondo il sorriso di Dio». (Pronzato)
Proviamo a chiederci: il clima delle nostre assemblee liturgiche rivela che siamo seduti intorno alla mensa eucaristica per festeggiare le nozze del Figlio, oppure che compiamo una pesante, noiosa cerimonia?
Il nostro volto esprime la gioia degli invitati a celebrare la vittoria del Cristo sulla morte, oppure tradisce la sofferen-za, la sfiducia, o, peggio, la noia?
Qualcuno tirerà in ballo: la fame del mondo, la violenza, la minaccia di guerre, i regimi oppressivi, o i problemi, anche gravi, della famiglia o personali...
Ma questo qualcuno non comprende che la gioia non è evasione.
La gioia è una forza, è una sfida, è qualcosa che afferra il cristiano quando celebra l'Eucarestia e lo costringe ad andare a recarla in un mondo senza pace e senza gioia.
In questa prospettiva, indossare “l'abito di nozze” – è stato scritto – significa indossare il “vestito del lavoro”.
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