NATALE 1943 DI MARIO MONTANARI
(Storia di un sopravvissuto “N. 315540)
E la morte, la grande e terribile amica dei
Lager, iniziò le sue visite. Prima rade, poi sempre più frequenti col passare
del tempo; venne improvvisa, mentre noi eravamo prostrati per la denutrizione,
il freddo, le minacce e la paura.
Venne e fuori c’era tanta neve, che cresceva
ogni giorno e la terra ondulata si sperdeva contro un fiume lontano e contro la
collina a nord, ove era sorto un cimitero diviso dalle fosse comuni.
Venne e, ad uno ad uno, incominciarono a
spegnersi gli amici, così, alla chetichella, quasi timorosi di farsi vedere
morire. Se ne andavano con gli occhi sbarrati e vitrei sul volto cadaverico, incorniciato
dalle barbe incolte, alcuni dopo avere lungamente e strenuamente lottato, altri
invece si lasciavano morire. Altri, si sarebbe detto, che desideravano finire.
Ma gli appelli estenuanti continuavano per
ore e ore egualmente, sotto la pioggia, al vento gelido e la fame cresceva, e
la brodaglia era sempre più acquosa, senza il riscaldamento necessario a tanto
gelo. I vestiti erano laceri per
l’uso, inadatti a quella latitudine, essendo la più parte di noi venuta dalle
terre calde della Grecia e della Balcania.
La strada era ormai aperta alle malattie e
questi magnifici giovani, che le pallottole avevano risparmiato, divennero
preda di febbri iniziali senza peso, poi d’influenze più forti, a cui
subentravano complicanze mortali: la bronchite, la polmonite, tubercolosi,
l’enterite, ausiliarie fedeli della morte, che poteva così iniziare il suo
raccolto.
I malati li vedevano andare prima
nell’infermeria, priva di tutto, tanto per cambiar posto, dinanzi
all’indifferenza ostile dei tedeschi, accompagnati dalla nostra angoscia che si
esprimeva con parole di augurio e con qualche stentato sorriso. Dopo alcuni
giorni li scorgevamo ritornare entro a una grande cassa di pino a ricevere
l’estremo e accorato nostro saluto e la benedizione del cappellano militare.
Nudi ritornavamo alla terra, perché tutto
era del grande Reich, che “benignamente” ci ospitava entro una cassa da morto,
per tutti sempre quella. Uscivano dal
campo portati a spalla, seguiti dai nostri occhi disperati e da una scorta
d’onore, diretti alla collina bianca. Ancora, ma per poco, si scorgevano, poi tutto spariva e solo si
udiva lontano, portato dal vento, il salmodiare del sacerdote. Là ora riposano
in mezzo a soldati di tutte le stirpi, i figli di questa nostra agitata
umanità, nata ad alti destini, cui piace, invece, intristire se stessa,
tuffarsi in lavacri di sangue, nel richiamo brutale della giungla.
In quest’atmosfera di morte venne Natale e
fu il più duro, di quanti avessi mai trascorsi, vinti solo dal Natale in cui
venne a mancarmi, improvvisamente, la mia santa mamma.
Quante lacrime in quella baracca da noi
trasformata in piccola Chiesa, presso l’altare dominato dall’immagine della
Madonna di Czestochowa che un nostro compagno aveva
disegnato con amore. Non valsero i
canti, non le parole accorate del nostro Don Pasa. Il Natale con la fiumana di
ricordi rese più tragico il confronto.
Ripensammo allora al Natale della nostra
infanzia quando al mattino prestissimo in fila, segnando sulla neve i passi,
andavamo in S. Biagio a cantare le nenie al Bambino. Era buio pesto fuori, ma
quanta luce sprigionava dall’altare il Redentore del mondo, mentre dall’organo
le mani espertissime di Don Baccilieri sapevano trarre dolcissimi suoni e
un’atmosfera di candore e di pace penetrava nell’anima di tutti.
Era l’armonia spirituale, splendida e umana,
che l’ambiente natalizio compenetrava nella nostra lieta giovinezza. Oh perché
non fui anch’io tra i pastori? Perché sono qui a contarmi le ossa, a subire
violenza in tuo nome, o Signore?
Con l’oro, l’incenso, la mirra dei Magi
ti offro, Gesù sotto la stella
la fame che
fiacca le mie ginocchia,
l’orgoglio che vibra nelle parole,
le pene di questa mia povera
vita.
……………………………
(Trascrizione di P.
Nicola Galeno, Milano 26-12-2019)
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