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lunedì 27 marzo 2023
"UN MODELLO DI SANTITA' MODERNA" - 11 conferenza di Padre CLAUDIO TRUZZI OCD
«UN MODELLO DI SANTITÀ MODERNA»
Questa è già l'impressione di Pio XII , dopo i suoi predecessori affascinati da questa ragazza, che con un semplice libretto autobiografico, un po’ manierato – secondo lo stile del tempo – aveva conquistato un'intera generazione di cristiani, ... e non solo cristiani.
• Ma che cosa significa: «La più grande santa dei tempi moderni»?
Questa ragazza è in qualche modo “una di noi”: cioè, Teresa fa parte della nostra medesima epoca socio-culturale. Nonostante la relativa distanza geografica e cronologica, noi partecipiamo sostanzialmente dello stesso momento storico: la “modernità”. Cioè, il nuovo modello di uomo e di società, che si è imposto come modello dominante in tutto l'Occidente.
Teresa è contemporanea dei poeti ed artisti “maledetti”, dei “maestri del sospetto”, in un sistema socio-economico di capitalismo già ben avviato, che sarà inarrestabile; in uno stato laico totalmente separato ed ostile o, peggio, indifferente alla Chiesa. La sua è una generazione che ha avuto tarpate le radici e le ali ed ha reagito con passione e disperazione, finendo talora – nei suoi esiti più simbolici e rappresentativi, nella morfina e nella tisi ...
– Tutto questo è causa e conseguenza, assieme, di un altro aspetto essenziale del tempo 'moderno': la secolarizzazione. Un fenomeno, cioè, culturale che sostiene il principio della separazione o della differenza: tra Creatore e creatura, tra Chiesa e Stato, tra individuo e gruppo sociale, tra coscienza personale e legge o cultura sociale..
Conseguenze?
* Sul piano della nuova consapevolezza che l'uomo è l'artefice della sua vita, si è come atrofizzata nella coscienza la forza dell'ideale altruista e solidale; si è legittimato il diritto insindacabile a preoccuparsi soprattutto, o solamente, di sé o (subordinatamente all'io stesso) del proprio “io dilatato” (la famiglia o il partito o la patria o la razza... la religione).
* Sul piano del progresso tecnologico si è “civilizzato” il mondo, sfruttando senza scrupoli intere fasce (o classi) sociali, poi intere popolazioni e territori, perché fondato su un meccanismo letteralmente perverso (cioè, che «porta fuori strada») e riferito, in più, ad un unico criterio che è il suo nutrimento, il suo obiettivo e il suo motore: il proprio profitto.
* Sul piano della secolarizzazione, Dio è «morto», almeno come soggetto pubblico in questa società. La fede è abbastanza in discredito come proposta “evangelica” di vita nuova.
L'uomo moderno, però, corre così il rischio di ritrovarsi sempre più sprovveduto e spaurito di fronte alle immani sfide da lui stesso provocate nella sua storia e nella natura.
Già nel tempo di Teresa, “la modernità»” è stabilmente instaurata come una “super-cultura” onnicomprensiva, che lentamente e inesorabilmente pervade tutte le culture per svuotarle dall'interno: com-presa la “cultura religiosa cristiana”.
••• Teresa del Bambino Gesù, come ha incarnato tutto questo nella sua esperienza religiosa? * Autenticità e coerenza
«Autenticità», è la volontà e capacità di gestire la propria vita da sé, come attore e signore, e farla combaciare con la “propria” verità, in totale coerenza. Come la esprime Teresa?
«Voglio realizzarmi!; «Voglio essere una santa!»;
Ma tale desiderio intenso di “autenticità” – assunta dalla “cultura” del nostro tempo – sarà anche la sua “croce”, proprio perché il dinamismo che pone in atto la obbligherà ad una coerenza spietata con se stessa.
Sin dall'infanzia, infatti, Teresa si addossò uno sforzo titanico per superare lo scarto tra ideale e realtà, tra immaginario e quotidiano, senza lasciarsi tentare dalla “necessità” del compromesso – che media le tensioni più gravi, annacquando la radicalità della “chiamata” col cosiddetto “buon senso”–.
– Teresa, inoltre, fa parte, ovviamente, dell'universo culturale del proprio tempo. E perciò: proprio e
soprattutto contro di lei si rivolta tale sua spietata volontà di autenticità.
Ella proviene, infatti, da un ambiente piccolo borghese, impregnato di un cattolicesimo non senza lacune, ma estremamente serio a livello familiare, dove l'atmosfera è così carica di religioso che è quasi “naturale” darsi tutti alla “vita religiosa”. In simile ambiente Teresa è indubitabilmente “regina”, ma anche prigioniera di una ragnatela – di affetto e stima, certo, ma pure di legami e inibizioni – che appaiono bene nel racconto delle varie tappe e “conversioni”, miracoli e lacrime, sconfitte e vittorie – lungo il percorso della sua intensa adolescenza, come lei stessa la descrive –.
• Fattasi monaca, la fedeltà incrollabile all'autenticità la porta a voler vivere a tutti i costi ciò cui si sente chiamata. «Nel Carmelo non è permesso coniare monete false» – afferma – compiaciuta che il “mercato” la costringa a battere soltanto monete valide per tutti. E scopre così che la verità è azione, cioè prassi e realizzazione: «Le parole non bastano..., bisogna donarsi senza riserve».
È con la passione coerente della verità che lei ha corroso qualsiasi barriera di ambiguità, meschinità, opacità si frapponesse nella felpata vita monastica, nella spiritualità inconsistente, nei discorsi devoti ma fantasiosi, nell’agiografia immaginifica e deviante, nella direzione spirituale paternalistica e afona.
Ma – proprio per questa sua consapevole ricerca per la verità – ha rischiato inconsciamente di credere che ci si potesse “disinquinare” col semplice ritirarsi “dentro di sé”, in “clausura”, come tante proposte “spirituali” suggerivano!
* La salvezza “propria” non salva nessuno!
L’alto ideale – che Teresa ha la “presunzione” santa di conquistare – la spinge ad una dedizione al limite del “patologico”. La parola “impossibile” le sembra sconosciuta; il desiderio di soffrire (come se la sofferenza rappresentasse la più totale possibilità di donazione) le sembra la strada adeguata. La santità, in definitiva, le sembra dipendere tutta dalla propria capacità di sofferenza. E dunque, in definitiva, ancora, da lei stessa! Teresa cita volentieri lo slogan: «La santità bisogna conquistarla sulla punta della spada!».
Ma si ritrova inesorabilmente riportata alla dolorosa 'esperienza dell'impotenza, tanto da giungere ad affermare il contrario del suo grande ideale giovanile:
«No! Io non mi ritengo una grande santa; penso di essere una piccolissimo santa!» ... E ancora: «Io non sono una santa. Non ho mai compiuto le azioni dei santi».
«Sentii che l'amore [la carità] mi entrava nel cuore col bisogno di dimenticare me stessa
per far piacere agli altri; e da allora fui felice».
* Abbandonata da Dio... in compagnia dei fratelli
Simile percorso interiore – che Teresa conduce pressoché da sola: senza maestri, senza libri [solo il Vangelo e un po' di san Giovanni della Croce], affezionatissima e amata... ma “distaccata” dalle sue sorelle –, ha dentro in sé una dinamica eversiva. Dinamica che da sé sola, e malgrado Teresa stessa, porta a conseguenze impensate – seppur accolte da lei molto lucidamente –.
• E dopo un secolo e mezzo si vede chiaramente quanto fossero coerenti col cammino del “mondo moderno”. È stato Papa Giovanni XXIII ad affermare che lei ci ha fatto passare dalla «Chiesa del diritto e della giustizia» alla «Chiesa del dialogo e della misericordia».
L'unica cosa che l'uomo possa fare è «convertirsi», cioè mutare radicalmente 1'atteggiamento... per attendere tutto sul piano della povertà: – [si tratta di ricevere, quindi, non di dare...] – ; e nonostante ciò, rimanendo sempre nell'estrema penosa insufficienza! Insufficienza tanto grave da rischiare la disperazione, perché (sembra strano, ma è nella logica del Vangelo!) il desiderio di dedizione e di amore, di «fare qualcosa per gli altri» – dilatato dalla compassione e dalla fame di misericordia per sé e per tutti – diventa sempre più grande, intenso, struggente....
È da simile travaglio che sgorgano i lamenti o le espressioni più “scandalose” per la spiritualità e il linguaggio religioso corrente – ma tanto vicine alle “sensazioni” dell'uomo d'oggi:
•• E infine, per esprimere quanto sia totale la sua solidarietà esistenziale con il mondo e gli uomini di oggi – cioè, quanto sia vero che lei ne condivide la situazione interiore desolata e affamata – , la drammatica confessione:
Già presente, e, anzi, “motivo” della sua entrata al Carmelo, la solidarietà (proprio come “finalità apostolica”, nel suo linguaggio!) diventa sempre più totalizzante: ne coinvolge vita, sentimenti, e corpo, che da questa passione viene consunto: Teresa stessa diventa “una di noi”. Non per niente muore di tisi: l'AIDS del suo tempo!
Dai sentieri difficili e dai castelli impervi (riservati a pochi) della spiritualità e della mistica, Teresa passa ai «sotterranei» della storia, che diventano sempre più “casa sua”, con lo stesse lacrime e lo stesso pane amaro degli ultimi:
«Gesù mi ha preso per mano e mi ha fatto entrare in un sotterraneo ddove non fa né caldo né freddo; dove il sole non risplende, né cade la pioggia, né tira vento; un sotterraneo dove non distinguo altro che un indistinto chiarore ... Poiché il nostro viaggio avviene sottoterra, non vedo se la meta si avvicina... Sono disposta a rimanere per tutta la mia vita religiosa in questo passaggio sotterraneo».
Teresa s'immedesima ormai nella preghiera ultima di Cristo in croce, dove pure Lui – dato spazio alla misericordia del Padre come unica soluzione – rimane dov'è – sulla croce –, anche se «abbandonato»: rimane solo per amore: a a costo di rimanere senza il 'suo' Dio. È una grande sfida per il nostro mondo!
CONCLUSIONE
– Segue periodo di superamento del suo infantilismo, di apertura alla realtà.
Tale ritardata, difficile, prolungata maturazione e liberazione dalla sua infanzia ha però lasciato in lei la "possibilità di riflettere" sulle caratteristiche tipiche dell'infanzia, quella dell'abbandono, quella dell'ingenuità, quella del "volere tutto"... Peculiarità che Teresa, purificandole, ha trasposto nella vita spirituale, in quella che lei ha chiamato la "Piccola via", cioè il camino dei piccoli passi, dei quotidiani doveri, delle ordinarie virtù e sofferenze, la via della gente "comune".
Teresa ha avuto l'intuizione di "come" diventare lei santa, e poi, "come" l'esperienza umana e spirituale fatta sulla propria pelle, potesse diventare d’insegnamento, di esempio vivo da porgere agli altri.
Ed ha avuto la capacità di vivere tutto questo fino in fondo.
Il suo segreto, il segreto della sua attrattiva, è che li fa sembrare alla nostra portata! Anzi, ci assicura che sono – questi traguardi – alla nostra portata!
***
E qui, come conclusione, viene da chiedersi quale sia l'ultimo richiamo, l'ultima espressione che giunge a noi da Teresa: la speranza fiduciosa dell'uomo o l'amore misericordioso di Dio?
Ebbene, la "speranza fiduciosa" è soltanto la penultima parola dell'esperienza di Teresa e del suo messaggio per l'uomo d'oggi. L'ultima parola, quella in cui tutto si risolve e che tutto risolve, è l'amore, l'amore misericordioso di Dio, Cristo!
Infatti, la fiducia c'è, perché ci è stato dato l'amore; e la speranza può sussistere nel cammino di oggi sino all'estremo sospiro e desiderio, perché, sempre e prima, c'è la presenza dell'amore di Dio. Afferma con forza Teresa: "Solo Gesù è; tutto il resto non è" (Lt 96).
Non è pessimismo sui valori umani, ne tanto meno nichilismo... È "la piccola via", che in tutti i livelli ruota attorno al fondamento intaccabile ed insostituibile: l'amore di Dio per noi.
E così l'amore di Dio per l'uomo rimane veramente l'ultima parola per la vita dell'uomo, sia a livello individuale che a quello collettivo.
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Legnano 25 marzo 2023 – padre Claudio Truzzi
sabato 25 marzo 2023
PADRE POZZI, FERITO DA UNA MINA IN CENTRAFRICA: IL BENE COMUNE, UNICA VIA DI RISCATTO -
COME NASCERE IN STRADA A NIAMEY di Padre MAURO ARMANINO
venerdì 24 marzo 2023
IL COMBATTIMENTO DELLA PREGHIERA - Esercizi Spirituali Quaresima V Settimana
Il combattimento della preghiera
Coloro che cominciano a pregare, sperimentano ben presto la prova del vuoto, del sentimento di non fare nulla, persino la prova della noia. Questa difficoltà sorge più̀ o meno rapidamente, con intensità maggiore o minore. In ogni caso, quale ne siano le modalità e le cause, sempre essa ci interroga e mette in questione il nostro impegno nella preghiera. Il dubbio sembra imporsi: perché pregare? Non ci sono molte cose da fare? Proprio in questo momento dobbiamo avere ben chiaro ciò̀ che è il fondamento della nostra preghiera.
Se non sappiamo perché preghiamo, soccomberemo nel combattimento della preghiera. Quando non succede nulla di sensibile nella preghiera, saper pregare sarà allora null’altro che saper aspettare nella pace. E non sapremo aspettare se non sappiamo da dove veniamo e dove stiamo andando.
Nella vita spirituale il posto del desiderio è fondamentale. Nei vangeli vediamo che Gesù interroga spesso le persone che incontra per sapere quale è il loro desiderio. Nella nostra vita spirituale, il Signore si appoggerà sulle nostre capacità e sulle nostre attese per educarci, per farci crescere nella fede, nella carità e nella speranza. Per esempio, quando incontra i primi discepoli, secondo quando racconta san Giovanni, Gesù li interroga sulle loro aspettative, sul loro desiderio: «Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì - che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?”» (Gv 1,38). “Che cosa cercate?”: la risposta a questa domanda rivela l’intenzione dei discepoli; vogliono accompagnare il Cristo sino al luogo dove dimora. E nella teologia dell’evangelista Giovanni, questo termine rinvia al Prologo di pochi versetti prima. La dimora del Verbo è la Trinità. La risposta di Gesù invita i discepoli a proseguire il loro cammino dietro a lui. Già̀, all’invito di Giovanni Battista, i due discepoli si erano messi in cammino; ora è Cristo che, appoggiandosi sulla loro domanda, sul loro desiderio, li invita a proseguire il cammino con lui per scoprire la sua dimora. I discepoli non hanno idea di dove verranno condotti seguendo Gesù. Vogliono sapere dove dimora Gesù di Nazareth e saranno introdotti nella dimora del Verbo di Dio, la Santa Trinità.
I desideri spirituali
Più volte nel vangelo, Gesù s’appoggerà sulle domande dei discepoli o di altre persone per dare loro molto di più̀. Spesso le risposte o le domande ingenue degli interlocutori di Gesù aprono la porta ad un tesoro spirituale. Egli interroga le persone sui loro desidèri e li colma ben più delle loro aspettative.
Pertanto, il desiderio, e talvolta un desiderio molto materiale, è sublimato da Gesù per realizzare la vocazione profonda del suo interlocutore. I primi due discepoli che seguirono Gesù e che vollero sapere dove dimorava diventeranno apostoli di Cristo risorto. Alla folle, dona il pare moltiplicandolo e propone poi il Pane di Vita. Alla Samaritana che domanda acqua, promette lo Spirito Santo. La salvezza di Gesù colma e supera le attese e le aspirazioni più̀ profonde dell’uomo.
Lo Spirito Santo è presente nei nostri cuori, come una falda d’acqua sotterranea. Siamo creati ad immagine e somiglianza divina e, mediante la fede in Gesù Cristo e la vita sacramentale, siamo stabiliti come figli adottivi di Dio Padre nostro. Nell’uomo, e ben più̀ nel cristiano, c’è qualche cosa che supera l’uomo: lo Spirito del Padre e del Figlio che è stato «riversato nei nostri cuori» (cfr. Rom 5,5). E il fatto di avere in noi desideri spirituali è un segno che siamo mossi dallo Spirito Santo. Non sono desideri velleitari, ma segni della presenza dello Spirito in noi.
I desideri spirituali manifestano la presenza dello Spirito Santo nei nostri cuori, come le risorgive sono il segno di una sorgente nascosta. Come lo Spirito Santo è la vita della nostra anima, così i nostri desideri spirituali sono il motore e il dinamismo della nostra vita spirituale. Dobbiamo tuttavia riconoscere la veracità e l’esattezza dei suoi desideri. Come sapere se i nostri desidèri sono veramente i frutti dello Spirito Santo? Desideri umani e desideri spirituali possono essere mescolati: ciò̀ non spaventa Gesù che sa partire da ciò̀ che c’è in noi di meglio. Possiamo inoltre sapere che alcuni desideri sono per natura desideri stessi dello Spirito Santo nei nostri cuori. Ascoltiamo san Paolo che ci dice: «Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste [...] Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,16-23).
Il desiderio svolge un ruolo fondamentale nella pedagogia di Dio per metterci in cammino. E il desiderio spirituale come espressione della presenza dello Spirito Santo in noi è il fondamento sul quale possiamo costruire la nostra dimora interiore. La nostra perseveranza è il tempo che dedichiamo a questa costruzione.
Il desiderio spirituale è espressione dello Spirito Santo nei nostri cuori, persino il desiderio della preghiera e la preghiera stessa: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6) et «non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rom 8,26).
Capiamo allora che, ad essere precisi, non s’impara a pregare; in un momento o in un altro si fa esperienza di questa azione dello Spirito Santo nei nostri cuori e ciò̀ ci fa capire che cosa può essere la preghiera. Ma la preghiera in quanto opera dello Spirito Santo, non possiamo darcela da noi stessi: il dono e l’azione di Dio in noi non sono a nostra disposizione. Il desiderio della preghiera, come ogni desiderio spirituale, è già in parte opera dello Spirito Santo in noi.
È questo l’inizio dell’unione tra il nostro spirito e lo Spirito che Cristo ci ha inviato per farci desiderare la preghiera, per orientarci verso Dio chiamandolo Padre. Ogni preghiera testimonia che lo Spirito si è unito al nostro spirito per produrre ciò̀ che impropriamente chiamiamo la “nostra” preghiera.
E lo stesso san Paolo ci ricorda nelle sue lettere che nessuno può dire che Gesù è Signore senza lo Spirito Santo, né può dire che Dio è Padre senza quello stesso Spirito Santo. Pertanto, ogni preghiera è trinitaria e testimonia le tre Persone divine che agiscono in noi.
La risposta della fedeltà
Pertanto, non c’è differenza di natura tra i grandi santi e noi, peccatori perdonati e credenti.
La differenza si colloca a livello della manifestazione nella loro vita dell’opera dello Spirito Santo. Hanno permesso a Dio di prendere possesso della loro vita e del loro essere; noi invece diamo allo Spirito solo una piccola parte. Fondamentalmente, la presenza dello Spirito Santo è la stessa nei santi e in noi; noi rimaniamo alle primizie mentre i santi raccolgono i frutti abbondanti.
Grazie alla fede e ai sacramenti, abbiamo in noi lo Spirito Santo, e la sua presenza in noi si manifesta nei nostri desideri spirituali. Ciò̀ che c’è in gioco spiritualmente è costruire la nostra vita nella fedeltà ai doni ricevuti. Non si tratta quindi di produrre la preghiera a partire dal nulla, ma di lasciar emergere e sviluppare ciò̀ che c’è già in noi.
Lasciare emergere e sviluppare significa che, una volta ricevuto il dono dello Spirito, e noi tutti lo abbiamo ricevuto, il nostro sforzo nella preghiera si colloca nella durata, uno sviluppo nel tempo.
Non si tratta di creare qualche cosa, o aspettare un arrivo dall’esterno, ma di lasciare svilupparsi un dono già ricevuto.
Lasciar emerge e sviluppare il dono dello Spirito Santo nei nostri cuori, ecco il nostro lavoro spirituale. Nella preghiera, questo lavoro somiglia più a un’attesa, una veglia piuttosto che ad una cosa da fare.
L’attesa è un’attenzione amorevole al dono di Dio, alla sua presenza. Si tratta più di lasciargli il posto che di occuparlo noi stessi con le nostre attività. Coscienti del mistero della nostra comunione intima con il Signore, cercheremo di metterci in una situazione di ascolto e di disponibilità. Il raccoglimento, nei diversi modi che ci sono d’accostarsi alla preghiera, non tende a fare in modo di non annoiarsi durante la preghiera ma all’apertura verso ciò che è già presente in noi.
L’attenzione amorevole verso ciò̀ che è già presente, la disponibilità all’ascolto della Parola di Dio, è il nostro modo di vegliare, di aspettare. Aspettiamo perché siamo tra due realtà tra i doni già ricevuti e le promesse di Cristo e davanti alla piena realizzazione di quelle promesse e di quei doni. Saper pregare significa dunque saper aspettare.
La nostra preghiera e la nostra vita spirituale non sono mai talmente aride da non poter ricordare i doni ricevuti e la conoscenza già acquisita del mistero. Fare memoria, l’anamnesi, è un atto religioso fondamentale nella tradizione giudeo cristiana. La nostra attesa, la nostra perseveranza non è mai uno sguardo rivolto solamente al futuro. Ci appoggiamo sul passato, sulla nostra esperienza e sulla nostra conoscenza per confermare la nostra fede e la nostra speranza nei beni futuri.
Il dono della perseveranza
Si tratta dunque di non stancarsi, e soprattutto di non stancarsi di non sapere pregare. La preghiera è il frutto, l’inizio dell’unione tra il nostro spirito e lo Spirito Santo: non possiamo prendercelo da noi stessi. Possiamo scegliere i mezzi per favorire questa unione, non possiamo tutta- via costruirla da soli. Pregare come amare, non è un esercizio di ginnastica in cui basta fare questo o quel gesto per raggiungere l’obiettivo.
Pregare come amare, è un dono e un’esperienza di relazioni. Possiamo preparaci sempre meglio alla preghiera, non realizzare la preghiera, la comunione. Ci si prepara ad un incontro, si veglia senza stancarsi,... l’incontro tuttavia non è opera solo mia.
Pertanto, non si può disfarsi dell’impressione di non sapere pregare. Pensare di saper pregare è forse il segno che stiamo facendo la nostra preghiera e che non la riceviamo dallo Spirito Santo. E la nostra attesa non è l’aspettativa di essere soddisfatti al termine del tempo della preghiera ma l’attesa di un incontro le cui condizioni non dipendono interamente da noi. Non sappiamo pregare perché non possiamo darci la preghiera. È la manifestazione dello Spirito Santo nei nostri cuori che produce la preghiera autentica (cfr. Rom 8,26).
Tanto più velocemente ci stancheremo di pregare quanto più penseremo di poter ottenere da noi stessi un risultato tangibile. Pregare come amare è un’apertura del sé per ricevere un altro. Ciò̀ che dipende da noi è l’apertura di noi stessi e il dono di noi stessi, non di forzare l’altro all’incontro.
Per cui l’atteggiamento dell’orante è quello di chi vigila con perseveranza prima di sperimentare la gioia dell’incontro. Da parte dell’uomo, l’atteggiamento della preghiera è l’attesa stessa. L’incontro avverrà: ne siamo certi perché́ il desiderio è il segno di questa presenza già data dello Spirito Santo in noi. Non siamo tuttavia padroni dei tempi e dei luoghi dell’incontro. La perseveranza ci darà ciò che aspettiamo (cf. Lc 11,9-13).
Possiamo dare la nostra attesa, la nostra perseveranza. Ci appoggiamo poi sulle promesse di Dio di realizzare la sua opera in noi e anche sui segni e le primizie dello Spirito Santo nei nostri cuori. Sperimentiamo concretamente nella nostra preghiera che ciò che dipende da noi è dimettere all’opera gli atteggiamenti filiali che ci ha insegnato Gesù: prenderci il tempo per stare rivolti verso il Padre, riconoscerlo come Padre, fonte della vita, ricevere la sua Parola come nutrimento, ripetergli la nostra fiducia in un atto di profonda riconoscenza e adorazione, rimanere così nella speranza.