La paura della
guerra tra i profughi di Bangui
BANGUI. PADRE TRINCHERO FRA I "SUOI"
BAMBINI
Nella capitale della Repubblica Centrafricana i
carmelitani ospitano migliaia di persone che scappano dalla guerra. In una
nazione martoriata dalla sete di vendetta, l’annuncio cristiano è la via per la
pace
LUCIANO ZANARDINI
ROMA
La
terra della Repubblica Centrafricana non ne può più di accogliere il sangue
delle vittime. Nel pieno della crisi umanitaria, dal dicembre 2013 la comunità
carmelitana di Bangui ha allestito un campo profughi per migliaia di persone e
rilegge tutto come «un grande dono del Signore». La situazione sociale è
«drammatica. Il Paese – racconta padre Federico Trinchero – era povero prima
della guerra e ora lo è ancora di più. Lo Stato è avvelenato dallo scontro tra
musulmani e cristiani. Prima non era così. Manca una vera società civile
consapevole e attiva».
Segnali
di speranza arrivano, comunque, dal dialogo interreligioso. Mons. Dieudonné
Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, si è attivato con i protestanti e i
musulmani. «È stata creata una “piattaforma” per il dialogo delle religioni. In
questa guerra, la cosa più bella è che molte chiese, molti sacerdoti (molti
autoctoni) hanno accolto e salvato la vita a centinaia di musulmani. È successo
a Carnot, a Boda, a Boali. Anche qui al Carmel. Lo stesso arcivescovo ha
ospitato dei musulmani nella sua abitazione. Sono gesti che parlano più del
dialogo».
Nella
guerra si sente il bisogno della testimonianza per non lasciare il campo alla
vendetta. «Si annuncia Cristo comportandosi da cristiani. Perdonando, rispettando
l’altro, privilegiando chi è più debole. Il Centrafrica ha bisogno di Gesù. Il
resto (scuole, strade, ospedali…) è utilissimo, ma è un palliativo».
Sacerdote
carmelitano in Centrafrica dal 2009, per quattro anni è stato a Bouar, nel nord
ovest, adesso padre Federico vive al Carmel di Bangui, nella capitale, in una
comunità di 12 missionari tra sacerdoti, frati in formazione, prenovizi e
aspiranti. Con la speranza di avere una chiesa più grande (celebrano
all’aperto) e di creare un centro di spiritualità, si occupano della formazione
dei giovani e cercano di aiutarli a studiare all’università. Con entusiasmo è
stato applaudito l’annuncio dell’intenzione di Papa Francesco di visitare
questi territori martoriati. Non ci sono, però, «segnali forti dal punto di
vista politico. C’è molta tensione e si vive una fase di transizione in attesa
delle elezioni. Un segnale importante è la stanchezza della gente che vuole
cambiare e dice: “Mai più così!”».
La
Chiesa fa «tantissimo» nella capitale ma soprattutto nella provincia «dove la
presenza dello Stato è più debole o quasi inesistente. Insegna la dignità di
ogni persona, indipendentemente dall’etnia o dalla religione. Proprio in questi
giorni, qui tra i profughi del Carmel, è nata una discussione (con feriti) circa
la dote pagata da un uomo anziano per sposare una ragazzina, che aveva
deflorato, come seconda moglie. Una donna non si compra. Padre Mesmin ha
passato il pomeriggio a far capire questo e a riconciliare le due famiglie
implicate. Questa è evangelizzazione allo stato puro. E gli africani la
sanno fare meglio di noi perché hanno assimilato il Vangelo e conoscono la loro
cultura».
Certamente
è necessaria una presa di coscienza del popolo per arrivare a una vera
riconciliazione e imboccare la via dello sviluppo. «Il Centrafrica ha bisogno
di verità e di umiltà. Deve riconoscere i suoi errori, smetterla di accusare
gli altri, deporre le armi e rimboccarsi le maniche per lavorare alla
ricostruzione morale e sociale; soprattutto i giovani devono prendere in mano
l’avvenire del Paese che, per troppi anni, è stato governato da persone che
guardavano solo al loro interesse». Al momento diventa indispensabile la
presenza delle forze militari europee, perché il Paese è «nell’anarchia più
totale e ogni presenza militare straniera di interposizione tra i ribelli è la
benvenuta. I militari italiani – alpini della Brigata Julia – hanno anche
ripulito canali e montato un ponte, battezzato “ponte dell’unità”. Le gente
riserva normalmente un’accoglienza positiva: sanno che sono qui per la pace e
non per conquistare il Paese».
Anche
i missionari sono accolti bene, ma rischiano la vita. «La gente ama i
missionari e sa che siamo qui per loro e non per i diamanti. Personalmente,
spero di non scandalizzarvi, non ho nessuna particolare sete di martirio, ma
penso che chiunque annunci il Vangelo metta in conto di rischiare la vita. Se
no, che gusto ci sarebbe? Ma questo vale in qualsiasi parte del mondo. E poi,
se penso alla Nigeria, all’Iraq, alla Siria o al Pakistan, la situazione del
Centrafrica mi sembra l’anticamera del paradiso».
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