Centrafrica, quando la chiesa è un
“ospedale da campo”
BAMBINI IN UNA PARROCCHIA AFRICANA
Padre Justin mette in pratica l’esortazione del Papa, ospitando
più di mille musulmani nella sua parrocchia. Ha anche rischiato la vita per
difenderli
DAVIDE DEMICHELIS
ROMA
“Hamidou ha fatto più di duecento chilometri per arrivare fino
qui, a Carnot. Quando si è presentato in parrocchia era sfinito, denutrito,
disidratato, ma soprattutto terrorizzato. Hamidou ha 13 anni. Per giorni e
giorni ha camminato, solo, nella foresta, e correva ogni volta che sentiva
sparare”. Padre Justin respira lungo, prima di riprendere il racconto. Hamidou
oggi è ospite della sua parrocchia, insieme a un migliaio di musulmani. La
chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda di padre Justin Nary è l’unica di Carnot,
una piccola città a poco più di cento chilometri dalla frontiera con il
Camerun. 35mila centrafricani sono fuggiti oltreconfine, in Camerun, e 82mila
in Ciad. Sono accampati nei campi profughi.
Carnot è là: sulla via che porta in Camerun. Dieci anni fa aveva
45mila abitanti, oggi chissà. Dopo la destituzione del presidente Djotodia, a
inizio gennaio, gli islamici in Centrafrica sono nell’occhio del ciclone. Il
governo Djotodia era appoggiato dalle milizie Seleka, in cui militavano molti
fondamentalisti. Oggi tutti i musulmani stanno pagando per le violenze di cui
si sono resi colpevoli gli uomini della Seleka, in gran parte stranieri, soprattutto
ciadiani e sudanesi. A seminare il terrore in Centrafrica ora vi sono gli
Antibalaka, gli “anti machete”, che per vendicarsi delle malefatte della Seleka
colpiscono tutti i seguaci del Corano. Ecco perché molti di loro hanno cercato
rifugio nei luoghi più sicuri e accoglienti: le parrocchie, i seminari, i
conventi. Solo nella capitale, Bangui, circa 120mila persone sono accampate in
una quarantina di edifici religiosi. Anche fuori dalla capitale varie
parrocchie ospitano migliaia di islamici: a Bossangoa, Boda, Baoro, Bossemptele
e, ovviamente, Carnot.
Hamidou è uno dei tanti musulmani costretti alla fuga. Un mese fa
era a casa, con la sua famiglia, quando ha sentito sparare. Suo padre ha urlato
a lui e ai suoi fratelli di fuggire. Ha dato loro qualche soldo e via, a gambe
levate, in direzioni diverse. Hamidou ha corso a perdifiato, finché ha potuto.
Poi si è guardato indietro: era solo, nel cuore della foresta. Allora ha capito
che non aveva scelta: doveva proseguire il cammino, la fuga. Per giorni e
giorni, non sa neanche lui quanti, ha mangiato radici e bevuto l’acqua che
trovava in foresta. Poi è arrivato a Carnot, un mese fa. Ha saputo che qui
poteva trovare accoglienza, ed è subito andato in parrocchia. Finalmente
qualcuno si è preso cura di lui: l’abbé Justin.
“E’ dalla fine di gennaio che accolgo sfollati nella mia
parrocchia. Sono in gran parte di etnia Peul e Aussa, quasi tutti musulmani.
Ovviamente la nostra porta è aperta a tutti: non facciamo distinzioni di razza
o religione”. Padre Justin non ci ha pensato due volte: quella gente aveva
bisogno. Poco importa se in città ha creato qualche malumore, anche tra i
cristiani. Qualcuno teme che fra quanti protegge, fino a 1400 persone, si siano
infiltrati i miliziani in fuga. Padre Justin non sente ragioni: “Ho svuotato le
casse della chiesa, per dare da mangiare a questa gente. Poi ho chiesto aiuto
alle organizzazioni umanitarie, finalmente ci è arrivato qualcosa. Molti
cristiani portano del cibo: patate, manioca, riso. Noi dobbiamo accogliere, aiutare!
E poi, anche far sapere al mondo della guerra che sta sconvolgendo il
Centrafrica, sensibilizzare l’opinione pubblica. Tutto qui”.
Non solo. Padre Justin ha rischiato ben più che i soldi o la
reputazione, per difendere gli sfollati: “A inizio febbraio sono arrivati gli
Antibalaka. Io e il pastore protestante siamo andati in foresta per parlare con
loro, tranquillizzarli. Dopo qualche giorno però, sono entrati comunque in
città. Volevano portar via tutti i musulmani, gli sfollati che vivono da noi,
ucciderli. Mi sono opposto, abbiamo parlato a lungo, abbiamo mangiato insieme,
ho dato loro anche dei soldi”. In Centrafrica si usa così, ma non è bastato. Un
gruppo di uomini armati si è presentato in chiesa con 40 litri di benzina,
minacciando di appiccare il fuoco se il prete non avesse consegnato i musulmani
o un milione di franchi cfa.
L’abbé Justin allora ha promesso di consegnare il malloppo,
appuntamento davanti alla chiesa alle 18: “Non sapevo come fare, quei soldi non
li avevo. Ho chiamato dappertutto, finché sono riuscito a trovare un comandante
della missione militare, Misca. Un convoglio armato doveva passare da qui,
proprio quel giorno. E’ stato un miracolo! Alle 17,43 si sono posizionati
intorno al luogo dell’appuntamento. C’è stato uno scontro a fuoco, molto
violento. Da allora i militari presidiano la nostra città, non se ne sono più
andati, e gli Antibalaka non ci hanno più attaccati”.
Padre Justin, al mattino, si alza alle 4,30. Prega, poi passa
qualche ora con i suoi ospiti: “Mi raccontano le loro storie, ci comunichiamo
esperienze, emozioni, non solo informazioni. Abbiamo scambi molto intensi”.
Forse anche per questo, nonostante tutto, il morale del parroco è sempre molto
alto. La chiesa, la casa parrocchiale, gli uffici e la sua stanza sono
affollati di gente, il cortile è invaso dalle tende. Ma quel che più conta, lo
spirito dell’abbé Justin, è libero e felice: “Questa è la chiesa, la nostra
missione”.
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