Tomba al Cimitero Monumentale di Milano
(…) era «la stagione
dei morti» soprattutto perché a essi si pensava più intensamente. Si aveva non
solo la consapevolezza ma anche la sensazione, direi quasi fisica, che delle
generazioni ci avevano preceduto lasciandoci qualcosa e che, quindi, noi
eravamo debitori verso quanti erano già morti. L’avvenire non esisteva ancora
per noi, lo potevamo sognare, ma il passato era una realtà
indubitabile: buona o cattiva, bella o brutta, esisteva, e al passato
appartenevano i morti, soprattutto i «nostri» morti. Ecco perché ricordarsi di
loro era una doverosa questione di fedeltà: si trattava di riconoscere che
quelle persone non erano vissute invano e che per noi contavano ancora (…)
Oggi i sociologi
sostengono che le nuove generazioni sono «senza memoria» perché non è stata
trasmessa loro un’eredità o perché è divenuto difficile discernere e recepire
l’esistenza stessa di beni da ereditare. Ma credo che non ci siano generazioni
migliori delle altre; c’è invece il dato che oggi i morti si dileguano presto,
non ci diamo più il tempo per ricordarci e aver cura di loro: siamo ricchi di
tante cose, ma poveri di tempo e di spazio per quanti abbiamo amato.
(…)
Chi muore non è più nel tempo, non appartiene più al tempo, ma grazie alla sepoltura permane un luogo che consente di dire: «È là!» Negare questo spazio fisico identificabile significa rendere i morti «utopici», senza luogo. È paradossale: la notte di cui tutti facciamo esperienza, vedendo morire gli altri e morendo noi stessi, diventa utopia, senza luogo, come se potesse per questo diventare irreale, scomparire dal nostro orizzonte.
Nella cura anche fisica per i nostri morti è in gioco, invece, la nostra umanizzazione, che non è solo vita nell’attimo presente, ma esistenza inserita in una storia che ci precede, ci attraversa, ci sorpassa.
(dal capitolo «La stagione dei morti» tratto da «Ogni cosa alla sua stagione» di Enzo Bianchi)
Vorrei solo aggiungere un mio pensiero: se portiamo nel cuore il ricordo dei nostri cari defunti, resteranno vivi nella nostra memoria, a prescindere dai rituali di questi giorni, dove la corsa ai cimiteri, i fiori, i ceri, spesso sono solo una formalità relativa al 2 novembre, per poi scordarsene per tutto il resto dell'anno. Purtroppo ciò accade più spesso di quanto non si pensi.
Danila Oppio
(…)
Chi muore non è più nel tempo, non appartiene più al tempo, ma grazie alla sepoltura permane un luogo che consente di dire: «È là!» Negare questo spazio fisico identificabile significa rendere i morti «utopici», senza luogo. È paradossale: la notte di cui tutti facciamo esperienza, vedendo morire gli altri e morendo noi stessi, diventa utopia, senza luogo, come se potesse per questo diventare irreale, scomparire dal nostro orizzonte.
Nella cura anche fisica per i nostri morti è in gioco, invece, la nostra umanizzazione, che non è solo vita nell’attimo presente, ma esistenza inserita in una storia che ci precede, ci attraversa, ci sorpassa.
(dal capitolo «La stagione dei morti» tratto da «Ogni cosa alla sua stagione» di Enzo Bianchi)
Vorrei solo aggiungere un mio pensiero: se portiamo nel cuore il ricordo dei nostri cari defunti, resteranno vivi nella nostra memoria, a prescindere dai rituali di questi giorni, dove la corsa ai cimiteri, i fiori, i ceri, spesso sono solo una formalità relativa al 2 novembre, per poi scordarsene per tutto il resto dell'anno. Purtroppo ciò accade più spesso di quanto non si pensi.
Danila Oppio
Nessun commento:
Posta un commento