Radiosa di
bellezze ineffabili, di virtù peregrine spicca fra i santi della Chiesa la
modesta figura di S. Giuseppe. Il Vangelo non ci dice molte cose. Compendia la
vita di questo uomo singolarissimo in poche frasi: ci dice che era giusto per eccellenza,
fabbro legnaiuolo di professione; sposo della Vergine Maria e Padre putativo di
Gesù: cum esset justus: Joseph virum
Mariae; ut putabatur filius Joseph.
Con queste poche espressioni però, il
Vangelo à fatto di Giuseppe l’elogio maggiore ed à scolpito in maniera
fulgidissima la singolare ed inarrivabile grandezza di lui.
Egli si presenta
a noi come modello di padre, di operaio; come fulgido esempio di Santo. Oggi
che la Chiesa ci chiama ad inginocchiarci al suo altare vogliamo posare di su
lui lo sguardo dell’anima e l’affetto del cuore.
Quell’ossequio
sempre pronto ai voleri di Dio, quella sua fuga in Egitto, quella dimora
tranquilla a Nazaret, quella ricerca di Gesù smarrito: ecco i dolci episodi che
ci affezionano a S. Giuseppe.
L’eccellenza della paternità
emerge da ogni pagina del Vangelo. Dio stesso si chiama con questo dolce nome
di Padre. Gesù Cristo lo chiama sempre così. Quando lo ringrazia, quando lo
prega, quando agonizza nell’orto e a Lui si rivolge, quando sull’albero della
Croce si sente abbandonato, quando emette l’ultimo respiro anche allora lo
chiama suo Padre. E vuole che noi pure lo chiamiamo Padre: Voi pregherete così: Padre nostro che sei nei cieli; amate anche quelli
che vi fanno torto e così sarete figli del Padre che sta nei cieli.
Nel Vangelo
questa bella figura del padre ora si presenta brillante di gioia, ora velata di
mestizia, in lutto o in festa, talvolta nei campi o nei ricchi palazzi.
Un giovane si
accosta a Gesù e gli domanda ciò che deve fare per conseguire la vita eterna.
Gesù gli suggerisce vari precetti tra i quali: onora tuo padre e tua madre. Ai farisei che badavano se i discepoli
si lavavano le mani. Gesù disse: Ricordatevi
piuttosto che chi maledice il padre è reo di morte.
Per dimostrare
l’onore che merita il padre, il profondo rispetto che gli si deve, ecco che
Egli illustra la paternità nelle belle parabole del seminatore, del vignaiuolo,
del Buon Pastore.
Un padre va in cerca di lui perché à una figliuola
morente. La figlia muore. Ma Egli accorre e gliela ridona viva.
Mentre scende dal Tabor, un uomo
della folla esclama: Maestro, guarda
questo mio figlio, è l’unico che mi abbia; uno spirito maligno lo agita
terribilmente. Te ne prego guariscilo. Gesù sgrida quello spirito immondo.
Guarisce il figlio e lo restituisce al Padre.
Ma dove
risplende meglio la figura del Padre è nella parabola commovente del figlio
prodigo. Quanto pianto e quante preghiere nel vecchio Padre davanti alla fatale
risoluzione del figlio. Quanta speranza e quanta fiducia nel povero che
ritornerà!
E quanta festa in quel ritorno,
quanto slancio in quell’abbraccio! Il figlio fedele se ne adonta, ma ecco il
padre che à pure per lui una buona parola: Figlio,
ma tu sei sempre stato meco, tutto ciò che è mio è anche tuo, ma il tuo povero
fratello à sofferto e quanto, è pur giusto che festeggiamo il suo ritorno.
Che belle parole suggerite da un cuore paterno! Non vuol nulla per sé, ma tutto
per i figli.
Da questi fatti
e da queste parabole di cui Gesù si è servito per dipingere a colori così vivi,
così smaglianti e così patetici la figura del Padre, potete ben arguire
l’affetto, l’amore, la venerazione di Gesù stesso verso il suo Padre putativo,
il quale se non à avuto simili ansie à ben sofferto qualche cosa di più crudele
e l’à sofferto per il figlio ed a cagione del figlio!
Quale fortuna
non sarebbe stata per alcuno di noi, se vivendo al tempo di Maria fosse stato
ammesso in qualità di servo nella sua casa! Non avrebbe trovato agiatezze,
comodi, ecc. perché molto povera... ma avrebbe trovato una grande felicità.
Vedere il volto di Maria era vedere una bellezza, una maestà ineffabile. Che
sarebbe stato poi udire i discorsi, seguirne i comandi? S. Giuseppe era suo
sposo e certamente doveva essere l’uomo più felice che potesse trovarsi sulla
terra.
Eppure non è
così. Le grandi felicità sono contraccambiate colle più grandi tribolazioni.
Egli viveva colla sposa una vita d’angelo e nulla ancora sapeva del mistero che
doveva compiersi in Lei. Maria non era ispirata a manifestarglielo, quindi chi
potrebbe imaginare le ansietà di Giuseppe?
Poteva credere che Maria gli avesse mancato di fede? Ciò non era
possibile. Ma e le ragioni per giustificarla? A chi ricorrere; a che pensare,
quale risoluzione prendere?
Giuseppe pieno
d’angoscia delibera di abbandonare segretamente la sposa, vivere lontano da
lei, senza vederla mai più. Ma lasciare Maria è lo stesso che perdere un
tesoro, una felicità senza pari. Poi lasciarla senza dirle una parola, senza
spiegarne il motivo.
Oh era meglio
per Giuseppe morire ai piedi di lei, piuttosto che da lei separarsi in siffatta
guisa. Immaginate se potete una tortura maggiore per un cuore di sposo. Ma
intanto l’Angelo lo rassicura: Non
temere, o Giuseppe, di prendere Maria per tua sposa, perché quanto è avvenuto in lei è avvenuto per opera dello
Spirito Santo.
Si avvicinavano
i giorni del Natale, ed ecco Giuseppe obbligato a portarsi a Betlemme per la
legge del censimento e costretto a prender seco la donna per non lasciarla sola
in quei giorni.
A Betlem l’umile operaio non trova
albergo. Tutte le porte si chiudono in faccia a lui ed è costretto a prendere
rifugio in una misera spelonca.
Immaginate le sue sofferenze
vedendosi impotente di dare a Maria un ricovero che fosse degno di lei e del
bimbo che avrebbe dato in luce.
Gesù nasce e Giuseppe lo reca
insieme a Maria al tempio per riscattarlo come voleva la legge. Sente dalla
bocca del vecchio Simeone la profezia di quel bambino. – Sarà il bersaglio
della contraddizione umana. – Avrà cioè degli invidiosi, dei gelosi, dei nemici
implacabili che lo perseguiteranno con odio fino alla morte di Croce.
Povero Giuseppe! Comprese allora
ciò che prima non sapeva e non poteva comprendere. La spada del dolore come era
penetrata nel cuore della sua sposa così pure aveva colpito anche il suo cuore.
Da quel giorno non gli si tolse più dal pensiero il dramma doloroso della
passione. Era una visione terriribile che gli stava sempre dinanzi e gli pareva
di vedere il volto del piccolo bimbo tutto intriso di sangue, il corpo
estenuato, la carne a brandelli, la fronte lacerata dalle spine, le mani e i
piedi sguastati dai chiodi: pendente su di una croce e spirare fra gli spasimi
più atroci.
Immaginate un dolore più
ineffabile per un cuore di padre.
All’annunzio di Simeone ne segue
un altro pieno di spavento. Questa notte bisogna battere la via dell’esilio. Vi
è chi cerca a morte Gesù: gli sgherri usciranno tra breve per trucidarlo, non
c’è istante da perdere. L’Angelo gli dice: su
presto, Giuseppe, prendi la tua sposa ed il bimbo e fuggi in Egitto....
Pare una contraddizione: trovarsi in
compagnia del principe della pace e dover vivere continuamente nelle ansie e
nei sussulti più dolorosi.
Iddio à detto: non vi è pace per gli empi. Ma quando si
pensa a Giuseppe sembra che la pace manchi più ai giusti che ai malvagi. Eppure
è così: dove entra Gesù entra la Croce. Giuseppe lo sapeva che quel sacro deposito
consegnatogli dal cielo non poteva conservarlo che attraverso i perigli e i
patimenti, e la forza per la sua ardua missione l’attingeva dalle virtù della
sua anima giusta.
La sua pace interna non era tocca
per nulla e questa è la vera pace serbata agli eletti. Egli non à altra eredità
che le sue mani, non à altro podere che la sua bottega; altra sicurezza che il
suo lavoro.
Tuttavia se ne fugge verso una
terra lontana senza mezzi di sussistenza. Povero cuore paterno, quanti
sussulti, quanta trepidazione, quanti affanni in quell’esilio penoso.
Muore Erode e
si ritorna a Nazaret. Passano anni di felicità e di gioia. Ma quando il
fanciullo a 12 anni vuol seguire Maria e Giuseppe nel pellegrinaggio pasquale a
Gerusalemme se ne consolano i due sposi. Ma la consolazione si cambia in
dolore, quando al ritorno si accorgono che Gesù non è né nella comitiva degli
uomini né in quella delle donne. Smarrito dunque. E dove?
Povero Padre! Forse non doveva più
rivedere Gesù. Forse aveva già rinunziato di starsene con lui. Ne era dunque
divenuto indegno? Forse era ritornato presso il Padre celeste lasciando nella
perdizione il mondo che si era preso a redimere? Forse questo tempo di soffrire
era già venuto e il fanciullo si era così sottratto per non amareggiare i
genitori?
Si cerca per tre giorni tra
parenti e vicini. Eccolo nel tempio. Figlio,
gli dice la mamma, perché ài fatto così?
Ecco io e tuo padre dolenti andavamo in cerca di Te.
Il fanciullo ritorna coi genitori a
Nazaret. Il Vangelo à un’ultima parola – erat
subditus illis – Gesù era ubbidiente a Maria e Giuseppe. Giuseppe è
consolato dall’affetto, dalla docilità dei Gesù Cristo.
In questi quadri come spicca
sempre più bella, più delineata la figura del padre.
Ma la corona di questo quadro è la
morte. Io la lascio immaginare a voi perché è facile indovinarla. Giuseppe è
assistito dalla consorte e dal figlio. La mano virginale della sposa stringe
amorosamente la sua destra e cogli occhi lacrimosi ella segue i suoi ultimi
aneliti. La testa del moribondo Giuseppe è dolcemente reclinata sul cuore di
Gesù, di Gesù che ancora una volta lo chiama col nome di padre, di Gesù che gli
apre l’ingresso dell’eterna felicità.
Questa morte voi la pensate
facilmente e forse ogni padre la brama per sé e la sogna nelle sue più dolci
illusioni. Ecco come il Vangelo illustra non solo la divina, ma l’umana
paternità.
Questa
paternità umana come è oggi profanata. Profanata da gente triviale che danno
alla società figli malati e deficienti, profanata da spiriti perversi che ci
danno figli delinquenti, da spose infedeli, da figli ribelli, da propagandisti
scellerati, che portano il veleno nelle case seminando l’insubordinazione, lo
scisma, il divorzio nelle famiglie.
E’ necessario
guardare a questo padre, portarne la sua figura veneranda sulle pareti
domestiche dove la falsa modernità ha sostituito l’anarchico, il sovvertitore,
l’eroe da romanzo.
L’abbiamo considerato come padre;
ora consideriamolo come operaio, come Santo. Certo l’operaio d’oggi non è più
di quello dei tempi andati.
Prima che
venisse Cristo sulla terra la sua condizione era ben misera. Un abisso profondo
divideva i ricchi dai poveri, quindi il padrone dagli operai. La filosofia e la
religione del paganesimo non solo non facevano nulla per sollevare l’operaio,
ma si accordavano a vicenda per avvilirlo, renderlo abbietto, negandogli
perfino la dignità d’uomo.
L’operaio era uno schiavo di cui
il padrone poteva servirsene a suo talento, nei lavori anche i più abbietti, i
più faticosi. Come un bue od asino veniva legato ai carri, sotto il giogo, oppure
addetto al giro delle ruote pesanti dei mulini.
Poco era il cibo che gli si dava;
un pugno di farina con un po’ d’aceto, ma molte le busse: bastava che avesse
rotto un’anfora, un gingillo qualunque per farlo morire sotto i colpi delle
verghe.
Cristo è venuto al mondo ed à redento l’operaio.
Ne à innalzato la dignità assomigliandolo all’altissimo, il primo, l’eccelso
operaio tanto nell’opera della Creazione come nell’opera della redenzione.
Egli stesso
volle scegliere per padre un operaio, Giuseppe, che quantunque di stirpe regale
pure si assoggetta a maneggiare la pialla come i suoi antenati per tanto tempo
avevano maneggiato lo scettro.
Il soffio della civiltà cristiana in breve
tempo ebbe trasformato l’operaio. Questa civiltà vuole l’operaio colto, libero,
forte, emancipato e laborioso. Le istituzioni e le libertà moderne l’ànno fatto
elettore, censore, giudice dei governanti e dei proprietari, autore di
scioperi, di serrate e di boicottaggi per approvare o disapprovare fatti
pubblici o privati, fatti politici, compiuti da sovrani o da ministri.
Tutto ciò sta bene, ma perché sia
all’altezza di questo compito bisogna che egli abbia più viva e più profonda la
coscienza del dovere e del diritto. Guai alle nazioni civili i cui operai
fossero eroi della teppa o sanguinari o selvaggi.
Bisogna dunque dare a questo
operaio una fede, un principio, una coscienza, un amore, almeno un po’ d’amore
al suo lavoro, ai suoi fratelli, alla sua patria, a quello che di rispettabile
e di amabile può avere la società in cui si trova.
Uno sguardo dunque all’officina di
Nazaret. Là Giuseppe santifica il suo lavoro. Lavora per la famiglia, lavora
con rassegnata tranquillità, senza maledire, senza imprecare.
I suoi doveri di cittadino lo
chiamano al censimento ed egli va a Betlemme. I doveri familiari lo chiamano in
esilio ed egli lascia la patria. Scomparso il pericolo vi ritorna ed eccolo
nuovamente alla sua bottega.
I doveri
religiosi lo chiamano a Gerusalemme; egli va e, compiuto il suo pellegrinaggio,
riprende il lavoro.
Abbiamo dunque molto da imparare
dall’operaio di Nazaret. Abbiamo da imparare a non moltiplicare i fannulloni e
gli scioperanti. Abbiamo da imparare che la forza brutale non fa il diritto e
la prepotenza non fa la morale.
Troppo spesso si è taciuto su
questo dai dirigenti la classe operaia e così il popolo lavoratore nell’ora
torbida si abbandona al delirio vandalico e all’ira antireligiosa.
Gli operai moderni debbono
imparare dal lavoratore di Nazaret che cambiandosi le forme della vita i
principi rimangono sempre quelli.
Vi è Dio al di sopra di noi; Dio
che impera; vi è il dovere che s’impone ed una sola morale che salva. Questa
morale è ciò che fa dell’uomo un santo.
S. Giuseppe era santo: lo dice il Vangelo: - Joseph,... cum esset justus. La
sua santità si basa su tre cardini eterni: fede, speranza, amore.
Giuseppe è uomo
di fede: crede all'ispirazione divina che lo rassicura sul miracolo compiuto
nella sua consorte, crede alla voce che l’invita a fuggire in Egitto; crede alla
voce che l’esorta a ritornare, crede alle profezie che annunziano la venuta del
Messia, e in quella fede trova conforto e pace.
Crede e opera. Come si abbandona
nella braccia della Provvidenza, rassegnato e tranquillo quando non trova
decoroso albergo a Betlemme.
Quanta fiducia
nel Padre celeste nella sua fuga in Egitto! Quanta calma confidente e serena
nella ricerca del figlio smarrito. Non l’anima agitata dalla febbre, non la
fretta impaziente e ansiosa, non lo sdegno torvo e permaloso, ma la costanza
fiduciosa e tranquilla.
Spera ed ama. Lavora per Iddio e
lavora volentieri. Fatica, viaggia, si affaccenda per il figlio di Dio e si
affatica, viaggia e si affaccenda volentieri.
La carità lo rende contento nel
patire. Spinge l’anima sua verso Dio e riposa in lui con la semplicità e
noncuranza di un bimbo che si adagia nel seno di sua madre
L’alta missione che Dio gli à
affidato richiedeva in lui la più eletta delle santità: Sposo di Maria, Padre
di Gesù.
Era dunque il degno compagno di
Maria, il compagno che sapeva comprenderla nei suoi nobili sentimenti di
religione e di purezza, che sapeva rispettarla, sostenerla e difendera colla
sua forza, col suo lavoro, con le sue virtù.
Se i giudei si meravigliavano di
trovare tanta sapienza nel figlio del legnaiuolo, non ànno mai detto però che
fosse figlio di un codardo, o di un uomo comunque biasimevole o men che degno
di rispetto e di stima.
Questi Giudei così maligni, così
sofistici se qualche macchia avessero scorto nell’operaio di Nazaret se ne
sarebbero valsi per gettarla sul figlio. Di lui non poterono dir altro che era
un falegname, un legnaiuolo. Noi però sappiamo che egli era qualche cosa di
più; Egli era un tesoro di santità perché tale doveva essere colui che aveva in
custodia il figlio di Dio.
Salga adunque il nostro omaggio al
padre, all’operaio, al santo. Rallegriamoci con Maria che à sortito sì degno
compagno e prendiamone auspicio per le nostre figlie, per tutte le figlie
d’Italia, per tutte le fanciulle cristiane.
Salga il nostro omaggio allo Sposo
di Maria, al Padre di Gesù, ma non un omaggio sterile, di sole parole, ma un
omaggio di opere.
Padri di famiglia, operai,
cristiani tutti alla scuola di Nazaret. Vedete là quel Padre? Vedete là quella
famiglia? Se non vi ispirerete a quegli esempi non entrerete nel regno dei
cieli.
Amatelo dunque S. Giuseppe.
Portate la sua immagine nelle vostre case, mettetela nei vostri libri di
devozione, fatela pendere dalle pareti domestiche. E nell’ora della tentazione,
nel momento della stanchezza, quando la virtù sarà per sembrarvi un’utopia e il
dovere una chimera, uno sguardo a lui, al Padre, all’operaio, al Santo: avete
un umile retaggio sulla terra, ma la fede di Giuseppe vi mostra che avrete una
gloria grande nei cieli.
Nell’ufficio di
oggi la Chiesa fa leggere ai suoi Sacerdoti le vicende della vita di un altro
Giuseppe, dell’antico Giuseppe ebreo figlio di Giacobbe che tradito dai
fratelli e venduto andò a finire nella reggia dei Faraoni ove ebbe onori e
poteri. La sua santità e saggezza lo segnalarono all’attenzione del principe e
fu fatto, se è lecito dirlo, ministro delle finanze.
Nel momento della penuria si
correva alla Capitale, si domandava pane, e il Faraone rispondeva: - Andate da Giuseppe – Ite ad joseph.
Il custode dei granai, il
dispensiere del pane era Giuseppe.
Il padre suo
Giacobbe e gli altri figli andando in Egitto trovarono accoglienze cordiali.
Faraone disse a Giuseppe che li facesse abitare nelle terre migliori. Giacobbe
prese la sua dimora in Egitto.
Giunto al termine dei suoi giorni
il vecchio padre si fece giurare dal figlio che manderebbe le sue ossa nella
terra di Canaan, presso quelle degli antenati, poi benedisse tutti i figli; ma
arrivato a Giuseppe gli disse: la benedizione
che ti dà tuo padre è superiore a quella che egli à ricevuto dai suoi antenati
fino dall’età più remota, essa scenderà sul capo di Giuseppe, l’eletto, fra
tutti i fratelli.
Date queste benedizioni spirò. Giuseppe
gli si gettò sulla faccia, lo baciò e pianse.
Questo Giuseppe
che dalla vita pastorale passa alla reggia; che dispensa pane in nome del
sovrano, che consola l’agonia del vecchio padre morente, ben poteva essere
preso come simbolo del Giuseppe di Nazaret.
Dalla bottega del falegname è
passato egli pure al regno dei cieli, dal cielo egli pure dispensa grazie nel
nome di Dio; egli pure nell’ora dell’agonia protegge il Cristiano che lo
invoca.
Quando Giuseppe ebreo giunse al
termine dei suoi giorni benedisse lui pure i suoi figli Efraim e Manasse
augurando alla sua stirpe di lasciare un giorno quel paese straniero e giungere
alla terra promessa.
Questa benedizione viene a noi
pure da Giuseppe di Nazaret.
Deus visitabit vos et ascendere vos faciet de terra ista ad terram, quam
iuravit Abraam Isaac et Jacob. Vi visiterà perché amate il padre a cui egli
à voluto bene – vi visiterà perché ne imitiate le virtù, la fede, la speranza,
la carità, la purezza.
Vi visiterà perché invocate questo
grande protettore, come patrono della Chiesa universale, come tale proclamato
dal Vicario di Gesù Cristo.
E vi farà salire da questo paese
straniero alla terra promessa, al regno promesso, alla gloria del cielo. Sì, è giunta per noi la terra promessa poiché
Gesù à detto: Qui crediderit, salvus erit
– chi crederà sarà salvo.
Don Giuseppe Mazzanti
(Ferrara 8-3-2017), Padre Nicola Galeno
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