L'APPELLO (Parafrasi da testo di M. Montanari)
E’ lo strazio maggiore dentro un Lager.
Sistematici e metodici sono
come le macchine questi tedeschi.
Son la lor forza e la lor debolezza.
Ecco al mattino entrar nella baracca
un soldato, che grida “Appel!” e tutti
uscire dovevamo. Sol gli infermi
più gravi vi potevano restare.
Ci dovevamo incolonnare tutti,
con le più strane fogge rivestiti,
con gli zoccoli ai piedi, sulle spalle
una coperta e con le barbe incolte...
Si andava lentamente nello spiazzo
riservato a noi mandrie del mercato.
“Zu fünf!” ci gridava (una fila di cinque)
con voce ossessionante; pioggia o neve
non importavan. Il fango incollava
gli zoccoli. Riflessa si vedeva
nelle pozzanghere tanta miseria...
Il computo difficile, estenuante
incominciava. Sentir si poteva
il batter degli zoccoli per vincer
il freddo ai piedi con monotonia
d’araba cantilena. Ed eravamo
diciotto, venticinque sotto zero!
Il respiro di tante nostre bocche
raggelato creava una foschia...
Spesso per ore durava l’appello
e chi sveniva cadeva nel fango:
come una cosa morta s’afflosciava;
nella baracca veniva riportato.
Il comandante panciuto gridava
con voce rauca finché non si fosse
convinto che nessun era fuggito.
Poi si contavan i morti in baracca...
Era uno stillicidio quest’appello
onde fiaccar la nostra resistenza:
volevan umiliarci e cancellare
ogni umana parvenza da ciascuno.
Ci venne a volte imposto di girare
di corsa intorno alle stesse baracche.
Per chi cadeva nessuna pietà:
non potevamo nemmeno aiutarlo...
Appello, eri martirio quotidiano!
(Milano 27-1-2020), PADRE NICOLA GALENO
IL CIELO DI
SANDBOSTEL (Parafrasi da testo di M. Montanari)
Landa deserta,
brughiera di torba:
ecco cos’era il
lager di Sanbostel.
Sol nei giorni di
vento avvertivamo
il suon del mar con
l’odore salmastro,
ma tutt’intorno che
desolazione!
Lo sguardo sol
vedeva all’orizzonte
dune coperte
d’erbosi cespugli.
Nel ritornar di
sera dal lavoro
forzato sentivamo
il canto triste
dei russi, che
sembravano davvero
schiavi babilonesi,
trascinando
il peso della loro
umanità,
come la nostra,
tutta dolorante...
Passavan vicini al
reticolato
della corrente
elettrica dotato,
entrando poi nella
parte del campo
a loro come mandria
riservato...
A noi restava
solamente il cielo.
Monotona e pesante
era la terra.
Era quel cielo
l’unico rifugio.
Per lunghi mesi
plumbeo ed eguale,
sapeva verso luglio
alfin mutare
e per sessanta
giorni diventava
immensa tavolozza
di colori.
Gli occhi volgevo
sovente lassù.
La terra mi
sembrava un concentrato
di misere baracche,
gabinetti,
fili e pali con
uomini vestiti
di stracci
solamente. Il cielo no!
Non era prigionier:
era di Dio
e pur della natura.
Lo batteva
il vento, mentre
allodole e gabbiani
lo percorrevan: in
esso vedevo
sempre la libertà
tanto sognata!
Le allodole sapevan
ricolmarlo
di canti; poi
cadevan in picchiata.
Dal mare pur
giungevan i gabbiani
liberamente coi lor
strani versi.
Mutava allor il
ciel continuamente.
Lo vedevi sereno e
poi coprirsi
di nuvoloni neri,
tuoni, pioggia
e grandine, che
infine s’adornava
d’arcobaleni,
mentre sprofondava
il sole nel
tramonto. Era una fuga
di fulgidi colori.
Allor capivo
la grande maestria
di fiamminghi
ed olandesi:
Rembrandt e Van Dyck!
(Milano 27-1-2020),
Padre Nicola Galeno
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