Gesù vero uomo e vero DIO
Rev. Padre, non pare anche a lei
che nel presentare la figura di Gesù Cristo, si preferisce oggi mettere in
luce i suoi tratti umani? E questo a scapito della sua divinità. Le sembra
che l'uomo contemporaneo abbia proprio bisogno di questo?». C. V.
•
Il lettore, esprimeva una preoccupazione che, mi pare abbia un
fondamento. Possiamo fare un po' di luce in questa questione?
– Non c'è dubbio che l'uomo
contemporaneo viva in un mondo ed in una cultura fortemente secolarizzati. La
sua mentalità di fronte alla realtà, non è in prevalenza contemplativa, ma
"operativa": il mondo è il campo in cui è messa in opera la sua
azione egemonica. Ogni visione trascendente viene spazzata via come inutile, perché
il mondo – si dice – è saldamente nelle mani dell'uomo.
Mi sembra che ci sia anche in questa
visione un aspetto “positivo”, direi quasi d’invocazione, e sarebbe proprio un
bisogno d’incontrare un Dio “concreto”. Forse si obbedisce inconsciamente a
tale bisogno quando si "desacralizza" Gesù, e lo s’avvicina ad ogni
costo all'uomo, affinché l'uomo, incontrandosi con lui, non veda un
estraneo, un lontano.
È, invece, proprio il caso
d’affermare chiaramente che in questa situazione di crisi l'uomo può salvarsi
da un completo naufragio – che è sotteso a questa sicura autosufficienza
immanente – soltanto incontrandosi con Gesù di Nazareth come l'Uomo-Dio.
Simile bisogno di visibilità, di concretezza, è legittimo, a condizione che non
si defraudi il contenuto profondo dell'essere di Gesù Cristo. A Filippo che gli
chiedeva: «Signore, mostraci il Padre, e ci basta!», Gesù risponde: «Chi ha
visto me, ha visto il Padre!».
Gesù, infatti, non rinuncia,
con questo ad identificarsi col Padre, ad affermare la sua natura divina.
•• Bisogna ammetterlo: si tratta di
un tema [Gesù Cristo: uomo-Dio] difficile. attorno al quale ci si è cimentati
dalle origini del cristianesimo sino ai nostri giorni.
– I primi Concili della Chiesa
affrontarono appunto tale questione. Fondamentale. Le prime eresie
cristiane ruotarono proprio attorno alla figura di Gesù Cristo, alla
sua umanità vera e alla sua natura divina, e cercarono di
comporle fra di loro. A tali eresie hanno reagito i concili,
a cominciare dal primo, quello di Nicea (325), seguito dal concilio di Efeso
(431) e da quello di Calcedonia (451). Ma si potrebbe ricordare ancora
il V Concilio ecumenico, tenutosi a Costantinopoli nel 553.--
L'incontro con Gesù Cristo non è un
incontro con la sua sola umanità: questa è veicolo di Dio per l'uomo. Gesù infatti aggiunge: «Io
sono nel Padre, ed il Padre è in me». Certo, si può anche dire e scrivere:
«Andiamo a Gesù, perché il Dio che abbiamo trovato fuori di lui è una specie di
nemico assente, che non ci rende possibile pensare o vivere come vorremmo, cioè
da cristiani». In realtà, l'approccio a Gesù di Nazareth comporta una
critica e qualche volta l'abbandono di certe idee e rappresentazioni di Dio
“di nostro 'copy right'”. Ciò è certamente positivo; ma non sarebbe corretto, –
in nome di tale "purificazione"– , svuotare del suo contenuto la
persona di Gesù e ridurlo ad un puro espediente, di Gesù stesso – ieri, (e
della Chiesa oggi) –, per catturare la fede ed il bisogno dell'uomo che esige
visibilità e concretezza.
In altre parole: la particolarità,
anzi la singolarità di Gesù non si può conoscere passando sopra a ciò che
proprio a Lui stava più a cuore: il suo rapporto ed insieme la sua
identità col Padre. Nella sua umanità Gesù è sempre intimamente “dal
Padre”, e perciò “figlio di Dio”.
Il
“come” avvenga, rimane un mistero insondabile.
Ma la difficoltà di comprensione non ci autoriz-za ad un mutamento sostanziale
della nostra fede.
La sintesi del Catechismo
Allo scopo di offrire un primo orientamento propongo di
soffermarsi con attenzione su alcune espressioni del Catechismo della Chiesa
cattolica che, in certo qual modo, fa il punto sulle controversie e ci
dichiara la posizione cattolica.
Al n.
464 leggiamo: «L'evento unico e del tutto singolare dell'incarnazione del
Figlio di Dio non significa che Gesù Cristo sia in parte Dio e in parte uomo,
né che sia il risultato di una confusa mescolanza di divino e di umano.
Egli si è fatto veramente uomo rimanendo veramente Dio. Gesù
Cristo è vero Dio e vero uomo. La Chiesa nel corso dei primi secoli ha
dovuto difendere e chiarire questa verità di fede contro le eresie che la
falsavano».
Il
ricordo degli errori del passato può aiutarci a capire gli errori del presente,
o perlomeno certe unilateralità nel considerare la figura di Gesù:
unilateralità che non sono mai mancate né mai mancheranno, sia a causa del
carattere poliedrico della figura di Gesù, sia anche a causa delle sensibilità
culturali, psicologiche, sociali, politiche, che variano da epoca a epoca.
• Le prime eresie, più che la divinità di Gesù, ne negarono
la sua vera umanità (gnosticismo, docetismo). – [Sin dal tempo degli apostoli, la fede
cristiana ha insistito sul realismo dell'incarnazione
del Figlio di Dio «venuto nella carne» (cf. Gv 1– lGv
4,2-3)].
• In seguito, dapprima contro gli errori di Paolo di
Samosata, e poi contro l'eresia ariana, è stato affermato che
Gesù Cristo è Figlio di Dio per natura, e non per adozione.
Il concilio di Nicea professò che il Figlio di Dio è «generato,
non creato, della stessa sostanza del Padre».
• L'eresia nestoriana riteneva che in Cristo ci fosse una
persona umana congiunta con la persona divina del Figlio di
Dio. Il concilio di Efeso professarono che l'umanità di Cristo non
ha altro soggetto che la persona divina del Figlio, che l'ha assunta
e fatta sua al momento del suo concepimento.
• L'eresia monofisita sosteneva che
in Cristo non esisteva più la natura umana, essendo stata
“assunta” dalla persona divina del Figlio di Dio. Contro di essa il concilio di
Calcedonia affermò che lo stesso Gesù Cristo è «perfetto nella
sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo..., consustanziale
al Padre per la divinità, consustanziale a noi per l'umanità, "simile in
tutto a noi, fuorché nel peccato" (Eb 4,15)».
• Il
concilio di Calcedonia professa, poi, che dobbiamo riconoscere un solo e
medesimo Cristo «in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza
divisione, senza separazione».
***********************
– Si legge nei Vangeli che Gesù ha invocato il Padre dicendo: «Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Mi sono spesso chiesto: se Gesù
Cristo, che era Dio, sapeva che sarebbe risorto, perché questa gioiosa certezza
non gli è stata di sollievo nel doloroso travaglio della Passione? O, più
semplicemente, il suo lamento era quello di un uomo solo ed abbandonato, che,
quale vero uomo, aveva assorbito dubbi ed incertezze, simili a quelle che
quotidianamente ci accompagnano?
• La domanda ripropone un problema che, in realtà, non
è nuovo. Eppure, ogni volta che si ripresenta, appare sempre molto attuale sia
dal punto di vista strettamente teologico, sia dal punto di vista delle scienze
umane. Sì, perché queste, oggi soprattutto, ci possono aiutare a fare un po' di
chiarezza su alcuni risvolti della personalità di Gesù di Nazareth.
Attenti:
quando dico “teologia” non intendo riferirmi a quel campo aperto soltanto agli
“addetti ai lavori”, bensì a quella riflessione matura sulla fede (sui
suoi contenuti, ma anche sull'esperienza) che è accessibile a tutti i credenti.
Ebbene, questa ci dice che Gesù di Nazareth – secondo la testimonianza del
Vangelo e di tutta la rivelazione biblica –, è vero Dio e vero uomo
e come tale è considerato e creduto.
Sono due affermazioni, queste, oppure possono e devono essere
considerate come due aspetti di un'unica professione di fede?
Spieghiamoci: come vero uomo, Gesù
deve essere considerato alla stregua di ogni creatura umana: razionale,
intelligente e libera. Soggetto pienamente responsabile dei suoi pensieri,
affermazioni ed azioni. Persona dalle molteplici e singolari doti umane;
personalità sotto molti profili eccezionale ma non anormale; un genio, un
leader, un carismatico, indubbiamente, ma dalle caratteristiche personali ben
definite e niente affatto patologiche. Ecco quanto scrive, in proposito, uno
dei più grandi e rinomati psicanalisti contemporanei, L. Ancona: «La maggiore caratteristica di Gesù, così
come emerge dai Vangeli, è là coerenza. Aveva un progetto grande e lo ha
perseguito con estrema coerenza. Coerente in modo straor-dinario, mi sembra,
anche nel tirare le conseguenze di quel che sapeva. Sapeva di essere Figlio di
Dio e al contempo un uomo come gli altri. Ma penso anche [è una mia ipotesi personale,
ovviamente, ma credo non incompatibile con il dogma] che abbia scoperto a mano a mano,
avanzando nella sua avventura, ciò che doveva fare, il senso della sua
missione».
Mi pare che ci sia qui una testimonianza, degna della
massima attenzione non solo per l'autorevolezza dello scienziato, ma anche per
la conferma che ad essa viene soprattutto dai Vangeli. [Ravasi]
• Una volta descritta la
psicologia di Gesù, rimane ancora una penombra, ed è quella dimensione
di mistero che caratterizza la sua personalità e che accompagnerà sempre la
nostra ricerca su di lui.
Più ci
si addentra nella “conoscenza” della sua esistenza terrena, più si assapora la
ricchezza del suo insegnamento; s'intuisce pure che in lui la divinità non
annulla né spegne l'umanità; così come l'umanità non oscura né isola la
divinità. Invece di tentare un connubio forzato e artificioso, siamo invitati,
anche dal magistero della Chiesa, a considerare la santa umanità di Gesù
così da arrivare sempre ad ado–rarlo come vero Dio. Perciò, il fatto che
Gesù, come Dio, sapesse di dover risorgere, nulla toglie alla serietà e alla drammaticità
storica del suo epilogo terreno.
Anzi,
se si riflette che nell'unità della sua persona, anche la divinità ha
esperimentato la sofferenza, allora possiamo intuire quale sommo grado di
dolore Gesù abbia raggiunto nella sua passione è morte.
– E se Gesù avesse scelto il potere e la gloria?
«Ho letto un
commento sull'episodio evangelico delle Tentazioni di Gesù nel deserto, che mi
ha lasciato alquanto perplesso, per non dire disorientato, per cui vorrei, se è
possibile, una risposta. Ecco il testo: “La scena, ambientata probabilmente sul
monte della Quarantena, può dare al lettore moderno l'impressione che quelle di
Gesù non siano state vere tentazioni, ma una semplice discussione.
Bisogna invece riconoscere, sotto la forma letteraria, che Gesù è travagliato
nella sua coscienza dal problema fondamentale della sua vita: quale
Messia essere. Se "scegliere", cioè, quella parte che i suoi
stessi discepoli si attendono da lui: di messia regale, politico, temporale, o
quella parte che gli ha affidato il Padre, il servo sofferente. È una
“scelta”che turba Gesù, come sarà turbato nel Getsemani prima di accettare la
morte. La disputa con il Tentatore è il riflesso oggettivato di questa “scelta”, in cui è coinvolta la stessa
identità di Gesù....
Quest'interpretazione del brano evangelico
ha suscitato in me vari interrogativi e m'ha portato quasi a dubitare della
divinità di Gesù. Perché, è vero che Gesù è stato tentato come uomo, ma
essendo una sola persona con la natura divina [due nature, una
sola persona], se con la natura umana avesse scelto il messia-nismo terreno,
politico, trionfale – come si aspettavano i suoi discepoli –, anche la
natura divina avrebbe dovuto scegliere lo stesso messianismo. In tal caso,
si sarebbe posto in opposizione alla volontà del Padre: che era quella del
“servo sofferente”; e quindi la volontà dei Figlio contro quella del Padre,
come due dèi. Voi mi direte che non è successo, ma leggendo questo commento, si
vede che l'ipotesi di questa possibilità è sorta nei commentatori».
Il lettore pone un
quesito teologico estremamente complesso che si sviluppa lungo i due versanti
fondamentali della realtà di Gesù Cristo, versanti che sono entrambi da
salvaguardare.
•
Da un lato c'è infatti la reale umanità di Gesù, che non
dev'essere semplificata al punto da ridurIa ad una larva evanescente o ad un
dato “spiritualizzato”. Già agli esordi stessi del cristianesimo, s. Giovanni
dovette ripetutamente ribadire – contro le prime eresie gnostiche, che annullavano
l'umanità del Cristo, – la grande professione di fede che il «Verbo si
fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (Gv.
1,14).
In questa
prima direttrice dell'essere di Gesù Cristo, si deve collocare la presenza
della tentazione, cioè della dinamica della libertà propria della
coscienza umana. La Lettera agli Ebrei, alludendo alla prova del
Getsemani, scrive: «Proprio per essere stato tentato ed aver sofferto
personalmente, Cristo è in grado di venire in aiuto a quelli che sono tentati»
(2,18). La stessa lettera in 4,15 definisce però i limiti di questa
“tentazione” in Gesù, e ribadisce che questa fraternità di Cristo con noi non
significa che egli avesse corso concretamente il pericolo del peccato, del
cedimento.
• È qui che
appare il secondo versante del problema: l'unicità dell'uomo Gesù che è
anche partecipe della divinità. Cristo prova la lacerazione interiore
della libertà e della prova [non dobbiamo ridurre il Cristo ad un automatico
esecutore d'un progetto imposto]. Ma contemporaneamente dobbiamo riconoscere
che Cristo Gesù ha sempre orientato le
sue scelte e la sua opera sulla volontà del Padre.
** Per la questione specifica delle tentazioni narrate agli
inizi dei Vangeli e concernenti la via messianica da scegliere [via del trionfo politico, taumaturgico ed
economico o via della croce e della fedeltà alla parola di Dio], gli esegeti
ritengono che si tratti di un'oggettivazione narrativa del travaglio interiore
della libertà del Cristo uomo. In altre parole, si sarebbe
“sceneggiata” visivamente la vicenda interiore di Gesù davanti alla sua
drammatica missione di salvezza.
Ma si può intravedere un aspetto inedito sotteso a quelle
narrazioni. In esse Gesù vorrebbe tratteggiare non soltanto il proprio “stile”,
ma anche quello della Chiesa. Essa deve vivere della Parola di
Dio, deve adorare solo il Signore e non il mondo, non deve sfidare le
promesse di Dio. Gesù respinge in anticipo tali tentazioni ed i Vangeli
invitano la Chiesa a respingere le stesse tentazioni cui sarà continuamente
sottoposta. In un certo senso protagonisti di queste tentazioni sarebbero i
credenti in Cristo, più ancora che il Cristo stesso. [G. Ravasi ]
Non è risorta un’ “anima” , ma un
CORPO
Gesù, risorto davvero? Risorto con il suo
corpo?
A queste domande,
teologi che pur si dicono cristiani [che, anzi, affermano di rappresentare il
vero, "moderno" cristianesimo]
rispondono oggi con dei "distinguo" sottili. O, in qualche caso, con
delle vere e proprie negazioni di quanto le narrazioni evangeliche e la fede
hanno sempre affermato: il sepolcro vuoto, le apparizioni a Gerusalemme e in
Galilea, i "pasti" del Risorto con i discepoli.
Certo: per il Nuovo Testamento, la
Risurrezione di Gesù dai morti è il più grande e insondabile dei misteri di Dio.
Noi, infatti, non sappiamo neppure che significhi "risorgere".
E la nostra esperienza umana può spingersi al massimo a comprendere che sia una
"rianimazione", non una "risurrezione", per la quale ci
manca ogni termine di confronto. Certo: il Cristo uscito dal sepolcro valica i
confini della storia e si allontana dalla possibilità della nostra
comprensione.
Eppure, dopo avere riconosciuto il
mistero, non siamo d'accordo con "riletture" della fede tradizionale
che tentino di toglierle la sua “materialità”. Niente è più lontano
dall'intenzione degli evangelisti che il ridurre a spiritualismo disincarnato
le esperienze pasquali. Il Cristo riemerso alla vita chiede infatti cibo,
mangia, sembra volere sottolineare che la
sua corporeità non si è dissolta, tanto che Pietro, annunciando la fede a
Cesarea, può dire: «Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e volle che apparisse
non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo
mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione
dai morti» (Atti 10,41). L'essere stati a tavola con colui che era
nel sepolcro, pare dunque essere per Pietro uno dei requisiti della
testimonianza.
Per la mentalità giudaica, un'anima senza corpo è
incomprensibile: soltanto per i Greci è pensabile la sepa-razione e magari la
contrapposizione tra i due elementi. Quegli stessi studiosi che sostengono la
necessità di "de-ellenizzare" [= purificare dagli influssi della
filosofia greca] il cristianesimo per riscoprire le sue radici semitiche,
sembrano poi contraddirsi quando cercano d'interpretare in senso
“spiritualista” [= soltanto l'anima è risorta] ciò che per gli
evangelisti è terribilmente concreto: «Metti qua il tuo dito e guarda
le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più
incredulo, ma credente!» (Gv 20, 27).
• Con gli Apostoli, con tutto il Nuovo Testamento,
con la fede dei cristiani di sempre, stiamo dunque per la "realtà"
della Risurrezione, pur riconoscendo alla teologia il diritto (e il dovere) di
tentare di approfondire un mistero che resterà tuttavia sempre tale. Così,
comprendiamo come la Chiesa reagisca ad ogni tentativo di dissolvere la Pasqua
nel cielo spiritualista, di sfumare una certezza senza la quale «la fede è
vana e noi siamo i più sventurati tra gli uomini» – come ricorda Paolo.
In realtà, essere nel
dubbio, qui, significa esserlo su tutto; questa è la roccia su cui la fede
riposa. Tutto cambia se crediamo Gesù vivo o morto. Come ha scritto un
teologo che pure non era cattolico e che non poteva dunque essere accusato di
"papismo": «Se Gesù non è davvero risorto con il suo corpo umano, non
possiamo più credere in lui, possiamo solo commemorarlo.
Possiamo soltanto rievocarlo, non invocarlo. Possiamo parlare di
lui, non possiamo parlare con lui. Se egli non vive, ora, con
la sua materialità anche umana, parlando di lui saremmo noi in qualche modo a
fare vivere Lui; non sarebbe più lui a fare vivere noi».
Ma proprio perché
la Pasqua è il centro della fede, il dubbio è sempre in agguato. Non
dubitano forse gli stessi apostoli, non considerano "vaneggiamenti" i
primi resoconti delle donne tornate dal sepolcro? Non a caso i Vangeli
riportano tracce della polemica della Chiesa primitiva contro chi nega il
sepolcro vuoto ed il suo significato di fede.
Il "mondo" riderà sempre di questa convinzione cristiana,
così come ridono e motteggiano gli smaliziati ateniesi quando Paolo
sull'Areopago annuncia loro la Risurrezione. Ci sarà sempre dello scherno in
riserva per chi s'ostinerà a credere a questo miracolo. «Il miracolo non è
possibile» – spiegheranno con compatimento i "sapienti" di sempre a
quei sempliciotti dei cristiani. «Non è possibile che un morto ritorni in vita:
la scienza, infatti...». Rispettiamo la scienza, ma crediamo anche al
mistero. E, come disse un poeta, Péguy: «Ci sarebbe da soffrire
terribilmente di claustrofobia se il Cristo, rovesciando la pietra della sua
tomba, non ci avesse aperto una breccia verso una dimensione più ampia».
Gli ultimi giorni del Signore
«Mi è capitato, per caso, di leggere un articolo dove
si diceva che la risurrezione del Signore non è avvenuta di domenica. La
tradizione comune cristiana accetta la tesi che Gesù e morto la sera del
venerdì santo ed è risorto all'alba della domenica seguente La Bibbia riporta,
invece, la morte nella sera del mercoledì al tramonto e la risurrezione nel
tardo pomeriggio del sabato. Come si vede i conti non tornano».
Affrontare
le questioni cronologiche dei vangeli è da sempre croce e delizia degli esegeti
e degli storici del Nuovo Testamento. Croce, perché i dati sono estremamente
esigui: i vangeli, infatti, non hanno preoccu-pazioni da “verbale di polizia” o
da “resoconto cronachistico”. Lo stesso nostro lettore è convinto che i vangeli
dicano di più sulle ultime ore di Gesù e così ci contrabbanda un'altra data. Ma
purtroppo i dati da lui offerti sono soltanto una sua deduzione. Gli studiosi
si devono, quindi, affidare alla delizia delle ricostru-zioni sugli scarsissimi
segnali reali offerti dalle pagine evangeliche.
Ci accontentiamo ora di fermarci in forma molto
schematica sulla questione specifica sollevata dal lettore, quella della
sequenza degli ultimi giorni di Gesù.
Considerando come termine degli eventi la notte-alba
del «primo giorno della settimana» – cioè la domenica di risurrezione
ammessa da tutti i vangeli –, il punto di partenza fondamentale è da ricercare
nell'ultima cena.
1 – Essa, nel racconto dei Sinottici
(Matteo-Marco-Luca) sembra avere le caratteristiche di una cena pasquale
giudaica. Di conseguenza si deve supporre che in quell'anno – il 15 del mese di Nisan [la data della Pasqua ebraica], iniziava la sera del
giovedì e si concludeva al tramonto del giorno successivo, il
venerdì della crocifissione. – È noto che il computo giornaliero
giudaico era ed è effettuato da tramonto a tramonto –. Un'esecuzione
capitale in giorno di Pasqua, di per sé era una cosa possibilissima sotto le
forze romane di occupazione ed è storicamente attestata anche in altri casi.
2 – A questa cronologia sinottica si oppone, però, Giovanni
che non presenta l'ultima cena come un banchetto pasquale e che dichiara
esplicitamente che il Cristo muore nella “parasceve” (in greco
"Preparazione") della Pasqua, cioè nella vigilia della festa
(18,28; 19-24). Quindi per il IV vangelo, il venerdì era il 14 di Nisan e
soltanto a sera iniziava il 15, il giorno pasquale.
Come risolvere questa contraddizione?
Le soluzioni
proposte sono molte e complicate. Alcuni ipotizzano che la data di Giovanni sia
più teologica che reale: egli ha modificato la cronologia per mettere in
relazione la morte di Gesù con l'uccisione dell'agnello pasquale. Al contrario altri pensano che siano stati i
Sinottici a variare la cronologia per far coincidere l'ultima cena col
banchetto pasquale.
Scalpore ha suscitato, invece, la proposta avanzata dalla francese A.
Jaubert sulla base dei documenti della comunità essena di Qumran
[scoperti nelle grotte del Mar Morto a partire dal 1947]. Essi, infatti,
dimostrano che questi “monaci” giudei –in polemica col culto gerosolimitano –,
seguivano un calendario solare in cui la Pasqua cadeva sempre
di mercoledì. Gesù coi suoi discepoli avrebbe celebrato la cena pasquale il
martedì sera seguendo questo calendario, l'arresto sarebbe avvenuto quella
notte e la crocifissione di venerdì. Giovanni, seguendo invece il
computo del calendario ufficiale, annoterebbe giustamente che la morte avvenne nella
vigilia (Parasceve) della Pasqua del Tempio, il venerdì 14 Nisan. Gesù avrebbe,
quindi, seguito quel calendario eterodosso, in polemica col sacerdozio
gerosolimitano.
Le perplessità, comunque, restano e l'enigma
cronologico è ancor lungi dall'essere risolto in modo del tutto convincente, fermo
restando il dato della morte, il giorno di venerdì.
[La risurrezione «il terzo giorno» – affermata da Paolo (1 Corinzi 15,4)
– anche se può essere giustificata col fatto che nel mondo semitico ogni
frazione di giorno è computata come se fosse un giorno intero –, ha un valore
soprattutto teologico: il «terzo
giorno» nella Bibbia, infatti, è il segno
di un evento decisivo nella storia della salvezza].
meditiamo sul CREDO
Padre Claudio Truzzi
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