AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

venerdì 3 aprile 2020

ESERCIZI SPIRITUALI CARMELITANI - Settimana Santa






















di andare sino in fondo nella terribile notte del Getsemani e non ritratterà la sua parola che ha dato al Padre: «Non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26, 39). Resterà il Cristo mite e umile di cuore davanti a degli interlocutori che non capiscono. A cominciare da Pilato che «era molto stupito» davanti a questo prigioniero misterioso che restava padrone di se stesso e non cercava di salvare la sua vita. Il silenzio è per noi spesso qualche cosa di negativo: una assenza di parola, un vuoto che si avvicina al nulla, uno stato assurdo. Tuttavia, qui è invece pieno di significato: il silenzio di Gesù nella sua Passione non è un segno di fatalismo (“a che serve rispondere, tanto hanno già deciso la mia rovina”); è un atto di comunicazione al di là delle parole. Perché, come potrebbe la Parola di Dio in persona dire qualche cosa in un tale clima di odio e di sospetto? La sua parola sarà la sua azione; e sarà un agire paradossale perché sarà passivo. Come lo ha scritto Giovanni della Croce, la più grande azione di Gesù sarà la sua passione. Compie la sua più grande opera al momento stesso in cui sembra essere il più passivo, sulla croce. Il silenzio della Croce diventa una parola che attraversa il tempo e la storia. Denuncia tutte le nostre parole inutili e vuote; quanti discorsi vani e nocivi per metterci in primo piano, abbassare gli altri, giustificarci, manipolare gli altri, … Anche tutto ciò che ascoltiamo intorno a Gesù nella sua Passione. Ma Gesù tace. Va avanti con decisione. Ricorda a Pilato la sua responsabilità per ciò che dice, e noi con lui: «Tu lo dici». “Sii responsabile di ciò che dici”. Gesù non dirà più una parola agli uomini. La sua ultima parola sarà un grido verso il Padre suo, con le parole del Salmo 21 : «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato». • Il cuore ferito d’amore Giovanni della Croce, così innamorato di Dio, ha meditato profondamente la Passione del Signore, in modo particolare durante i nove mesi di prigione e di notte interiore nel carcere del convento carmelitano di Toledo, esperienza che lo ha messo a contatto con la Passione. Giovanni cerca di scrutare il cuore di Gesù e di esprimere il suo mistero attraverso un canto profano di due pastori innamorati che viene trasposto a lo divino. Il Signore è comparato ad un pastorello innamorato dell’umanità che è simile ad una pastora. Il dramma nasce dal fatto che questo amore non è reciproco: ella dimentica lui e l’amore eccessivo che nutre nei suoi confronti, sino a lacerare interiormente il suo cuore. Si tratta di una rilettura magistrale dell’Antico Testamento: «Mentre dimenticava me!» (Os 2,15) dice Dio parlando di Israele che gli è infedele. Allora viene sulla terra straniera della nostra umanità, il Figlio; egli accetta di essere ancora un volta ferito e decide alla fine, capendo che è il solo modo per provare il suo amore alla sua pastora e di attirare la sua attenzione, di salire sull’albero della croce per esservi esposto, con il cuore ferito non dalla lancia ma da «il suo amore troppo grande» (Fil 2,4 Vulgata). Con tutta evidenza, ognuno di noi deve potere identificarsi con questa pastora, bella ma ingrata… 
Un pastorello, solo, in pena,
privo di piacere e di contentezza,
il pensiero alla sua pastora
e il petto ferito d’amore.

Non piange perché l’amore lo ha piagato,
non lo addolora vedersi così afflitto,
anche se è ferito nel cuore,
ma piange al pensiero di essere dimenticato.

Solo al pensiero di essere dimenticato
dalla sua bella pastora, con gran pena
si lascia maltrattare in terra straniera,
il petto ferito d’amore.

Dice il pastorello: Ahi, sfortunato
colui che si è privato del mio amore
e non vuole godere la mia presenza!
e il petto ferito per suo amore.

Dopo un lungo tempo è salito
su un albero, ha aperto le sue belle braccia;
è morto ad esse appeso,
il petto ferito d’amore.
(Poesia detta Un pastorello)

• Essere un vero amico di Gesù
Giovanni della Croce capisce che la Passione d’amore di Gesù non è un incidente ma è la chiave di lettura dell’esistenza del Signore. Tutta la vita di Gesù si intensifica in una tensione massima che rivelerà la sua densità nel suo amore per noi. Ciò ha necessariamente delle conseguenze nella nostra vita spirituale. Come l’abbiamo visto nella II settimana, Giovanni della Croce afferma con nettezza che il cammino della santità è un cammino di imitazione interiore di Gesù. Una via d’amore che ci trascina sino al limite della nostra capacità di dare la vita. Ma ciò presuppone una vita come quella di Gesù, una forma di passione e di risurrezione. Giovanni della Croce mostra pure le oscurità della nostra vita, e sue prove, che non sono cose assurde ma possono essere vissuto come partecipazione al mistero pasquale di Cristo. In particolare, la notte della nostra sensibilità come quella del nostro spirito sono una comunione alla vita di Gesù visto che egli stesso le ha vissute. Anche se Gesù è santo e del tutto estraneo al peccato, in un certo senso, non ha permesso che la sua sensibilità lo prendesse in giro; si può dire persino, e questa è un’affermazione molto audace di Giovanni della Croce, che Gesù stesso abbia sperimentato una notte spirituale con un sentimento d’abbandono che il suo grido verso il Padre ha rivelato. Di conseguenza, Gesù ha già vissuto per noi e con noi tutte le prove che costellano la nostra vita spirituale. Se vogliamo essere suoi discepoli, dobbiamo imitarlo, per amore, sino alla fine. Poiché è nelle difficoltà che si mostrano i veri amici. Vogliamo veramente essere gli amici di Gesù? O vogliamo esserlo solo quando ciò ci fa piacere o ci inorgoglisce? La vera amicizia presuppone un amore verso l’altro e non d’amare noi stessi mediante l’esperienza dell’amicizia. Stiamo cercando il Signore o cerchiamo piuttosto noi stessi in lui? …
« «Infatti non si progredisce se non imitando Cristo, che è la via, la verità e la vita, e nessuno viene al Padre se non per mezzo di lui, secondo quanto egli stesso dice per bocca di san Giovanni (Gv 14,6). E altrove dice: Io sono la porta; se qualcuno entrerà per me, si salverà (Gv 10,9). Per cui ogni spirito che vuole camminare nelle dolcezze e nella facilità e fugge dall’imitare Cristo, non lo riterrei buono. Poiché ho detto che Cristo è il cammino, e che questo cammino è morire alla nostra natura nell’ambito sensitivo e in quello spirituale, voglio spiegare come questo avvenga sull’esempio di Cristo, poiché egli è nostro esempio e luce. In primo luogo, è certo che egli morì a ciò che è sensitivo, spiritualmente nella sua vita e naturalmente nella sua morte. Infatti, come egli disse, nella vita non ebbe dove appoggiare il capo (Mt 8,20) e in morte ancor meno. In secondo luogo, è certo che in punto di morte rimase annientato anche nell’anima senza nessuna consolazione o sollievo, avendolo il Padre lasciato in intima aridità, secondo la parte inferiore, per cui fu costretto a gridare: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46). Questo fu il maggior abbandono dal punto di vista sensitivo che avesse mai provato nella sua vita. Così in esso compì l’opera più grande tra quelle che aveva compiuto in tutta la sua vita con miracoli e prodigi, in terra e in cielo, ovvero riconciliare e unire con Dio per grazia il genere umano. Ciò avvenne, come ho detto, al tempo e nel punto in cui il Signore fu maggiormente annientato in tutto: cioè: nella stima degli uomini, infatti, vedendolo morire, si burlavano di lui invece di stimarlo; nella natura, poiché morendo si annientava in essa; nella protezione e nella consolazione spirituale del Padre, poiché in quel tempo lo abbandonò, affinché pagasse meramente il debito e unisse l’uomo a Dio, restando annientato e ridotto come a nulla. Per cui Davide dice di lui: Ad nihilum redactus sum et nescivi (Sal 72,22); affinché il buon spirituale comprenda il mistero della porta e del cammino di Cristo per unirsi a Dio e sappia che quanto più si annienterà per Dio, secondo queste due parti, la sensitiva e la spirituale, tanto più si unirà a Dio e compirà un’opera tanto più grande. E quando giungesse ad essere ridotto a nulla, che sarà la somma umiltà, sarà fatta l’unione spirituale tra l’anima e Dio, che è il maggiore e più alto stato a cui in questa vita si può giungere. Non consiste quindi in consolazioni, gusti e sentimenti spirituali, ma in una viva morte di croce sensitiva e spirituale, cioè interiore ed esteriore. Non mi voglio dilungare ulteriormente, anche se non vorrei smettere di parlarne, perché vedo che Cristo è molto poco conosciuto da coloro che si ritengono suoi amici. Infatti li vediamo ricercare in lui i loro gusti e consolazioni, amando molto se stessi, ma non le sue amarezze e morti, amando molto lui » (II MC 7, 8-12) • Per salire, bisogna scendere! Pertanto il «vero spirituale» scopre che il cammino verso Dio passa per l’annientamento del suo io egoista (e non della sua umanità!). Il nostro vecchio uomo deve passare attraverso la morte perché viva l’uomo nuovo. La riduzione al nulla del nostro io egoista apre l’accesso al tutto di Dio. «Per arrivare a possedere tutto, non voler possedere qualcosa in nulla» (I MC 13, 11) Scopriamo allora che la nostra santità non consisterà in un cumulo di azioni eroiche ma nell’acconsentire di vivere ciò che ci è richiesto con il più grande amore possibile. Pensavamo che per raggiungere il Signore bisognasse salire sempre più in alto verso le cime del Carmelo; ma ora capiamo che in effetti si tratta di scendere sempre più in basso, per raggiungere Gesù nel suo abbassamento per amore. La II lettura della domenica della Passione ce lo ha detto: «Egli svuotò se stesso. (…) umiliò se stesso» (cfr. Fil 2,5-11). Unendoci a Gesù nella sua «kenosi», nel suo annientamento, saremo infine elevati ed esaltati come lui dal Padre. Ma è Dio che deve occuparsi della nostra elevazione, non noi! Nella misura in cui noi siamo figli docili, come lo è Gesù Cristo, parteciperemo alla sua glorificazione. «Chi si umilierà sarà esaltato!» (Mt 23,12). Gesù fu il primo. Numerosi santi lo hanno seguito e ci aspettano. Allora, facendo nostro l’invito di san Paolo di avere «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5), entriamo con amore nella sua Passione, nell’amicizia, per unirci con lui nella sua Risurrezione. Santa settimana a tutti! I tre suggerimenti pratici della settimana 1. Scelgo un momento della settimana per vivere un tempo di raccoglimento e silenzio con Gesù. 2. Prego con la poesia Il pastorello identificandomi con la pastora. 3. Sino a dove sono pronto/a a spingermi per vivere una vera amicizia con Gesù, il Figlio di Dio? Desidero essere un «vero spirituale»? 
Fr. Jean-Alexandre de l’Agneau, ocd (Convento d’Avon)





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