Avevo inviato al poeta e critico letterario Prof. Roberto Vittorio Di Pietro, copia del mio romanzo, per averne un suo sincero parere. Non immaginavo che ne avrebbe scritto un trattato, che mi ha commossa e per il quale gli sono immensamente grata.
Danila Oppio
(Per la
stimata amica Danila:
qualche
riflessione orientativa,o poco più)
Con questa sua recente
pubblicazione, Danila Oppio conferma appieno lo straordinario estro creativo
che senza dubbio le è proprio: quella dote singolare che il personaggio fittizio
di Adam (dietro il quale traspare la figura concreta di un saggio
interlocutore/mentore da lei sinceramente apprezzato e perciò interpellato con
indefettibile fiducia nella vita reale) senza alcuna amichevole piaggeria, non
esita a volerle giustamente riconoscere.
Anziché impegnarsi
pedissequamente nella redazione di un’ennesima autobiografia più o meno
romanzata, indulgendo così ad una fisima oggigiorno consueta e, nelle
motivazioni come nelle risultanze, spesso di opinabile utilità e di scarso
pregio letterario, la Oppio si abbandona alla stesura di un’opera anch’essa di
taglio “confessionale”, ma di tutt’altro spessore, degna della sua sensibilità
e delle sue non comuni attitudini inventive: un romanzo sui generis, tanto più ancorato nella travagliata realtà
storico-contemporanea laddove più sembra ammantarsi di svagate finzioni dell’intelletto
e del cuore: una vera e propria "fuga a più voci” che, nel fitto
alternarsi dialogico/citazionistico in cui consiste il libro, da un capo
all’altro trasuda inconfondibile genuinità di ispirazione, e che di schietti
sentimenti, intrinsecamente “poetici”, può ben dirsi costellata.
Ma dove viene a collocarsi
letterariamente un’opera di questa fatta?
Della letteratura
postmoderna in genere, e dei basilari indirizzi stilistici che la
contraddistinguono, ho già parlato diffusamente altrove; oltre ad aver
segnalato (in alcuni miei “appunti” estrapolati dalla saggistica di Michail
Bachtin) una serie di precipui
antecedenti (dialogo socratico, satira menippea, romanzo polifonico,“carnevalizzazione”
letteraria) ai quali il postmodernismo direttamente o indirettamente si
richiama. Ebbene, per quanto concerne l’impostazione complessiva di questo exploit di Danila Oppio, e per gli
svariati rimandi culturali che vi si trovano espliciti o sottintesi, oserei
affermare che l’autrice si affianca, per non pochi rilevanti aspetti, proprio a
quel particolare filone letterario—e,
in questo caso, il fatto che a guidarla in quella direzione sia stata una poiesis eminentemente istintiva piuttosto
che una consapevolezza critica in materia, è da ritenersi un punto di forza e
di sicuro merito; e ciò sia detto con buona pace di quegli scrittori che,
mentre da un lato sono indotti, tutt’altro che ingiustamente, a considerare
imprescindibile il momento apollineo (tecnico/razionale) della creazione
letteraria, dall’altro tendono a sminuire (o ignorare? talvolta) l’importanza
non certo minore della scintilla dionisiaca che è prima scaturigine di ogni
autentica Arte. Ecco perché dove, in una sorta di breve premessa, l’autrice ama
rivelarci che”il romanzo è nato quasi per gioco, un esperimento condotto per
mano, mentre la storia proseguiva…plasmato come un vaso d’argilla,” sarebbe
riduttivo scorgere un’ammissione di puro e semplice spontaneismo. Sempre che lo
stato d’animo in cui l’autrice confessa di avere operato possa ancora definirsi
in prevalenza “dionisiaco”(passionale/metarazionale), occorre comprendere come
l’ebbrezza procurata dal quel dio non obnubili i sensi bensì ne esalti
positivamente alcune superiori facoltà percettive. A riprova, per quel che può valere una
scanzonata battuta di spirito proposta in una vignetta d’autore che mi è
capitato di leggere, eccone un pochino illustrato il succo: “Sarò pure fuori
come un balcone, ragazzi, ma vi rispondo che da qui si vedono mooolto meglio le
stelle…”
2.
“Un appassionato omaggio ai
nobili valori della solidarietà umana e delle più profonde affinità elettive,
di per sé desiderose di alimentarsi nella convivialità costruttiva delle
coincidenze e delle divergenze d’opinione”: così mi sentirei di compendiare il
tracciato ideale di questo pregevolissimo libro. E lo farei, credo, a ragion
veduta: se è vero che secondo Carl Gustav Jung (a volergli dare giusto credito…ma
resti pur sempre al lettore volenteroso il compito di ogni miglior verifica
anche in questo caso), la più portentosa delle leggi psicologiche l’avrebbe scoperta
Eraclito proponendoci la cosiddetta ”enantiodromìa”. Una parolaccia, specie per
noi, solo mostruosa e impenetrabile? Secondo una lezione del citazionismo
postmoderno, anch’essa piuttosto proficuamente provocatoria, invece. (Lucrezio
diceva bene che Eraclito risultò oscuro - lo skoteinòs per antonomasia! -
solamente agli stolti, non già a quei savi che avevano a cuore la
ricerca della Verità. Ed Eraclito, per parte sua, forse non a caso asseriva che
“i cani abbaiano a quelli che non conoscono”.)
Si tratta più semplicemente
della funzione regolatrice che
scaturisce dal reciproco convergere di
ogni creatura verso l’altra; per cui in ogni rapporto dialettico verrebbe via
via ad instaurarsi e rinnovarsi un
equilibrio di per sé edificante, di volta in volta appagante, seppure
non risolutivo. In questi termini
psicologici, la nota concezione eraclitea di “polemos” (guerra) come motore
vitale non comporterebbe uno sterile confronto/scontro, bensì un benefico
processo di scambio osmotico perenne fra le controparti: e come non
condividere, dato che, passo dopo passo nell’evoluzione del suo romanzo, Danila
Oppio ce ne fornisce istintivamente una magnifica prova ovunque palpabile.
Passiamo ad altre buone
osservazioni. Il Canto XVIII del Purgatorio (che qui trovo citato) è quello in
cui, fra l’altro, Virgilio spiega a
Dante l’essenziale distinzione da doversi fare fra l’amore inteso come
trasporto dei sensi (eros) e quello più propriamente spirituale (agape). Una
distinzione di per sé banale e scontata, si dirà, se è vero che persino nelle
canzonette più becere si insegna a non “confondere il sesso con l’amore”. Se
non fosse che, tornando al Divin Poeta, dalla malaugurata confusione di questi
concetti nascerebbe “l’error dei ciechi
che si fanno duci.” Una citazione questa che, così estrapolata e avulsa dai
versi precedenti e successivi del Canto, a ben pensarci potrebbe calzare a
pennello come esergo addirittura per l’intero romanzo di cui ci stiamo
occupando, dato che ne riprenderebbe,
riassumendolo alla perfezione, il massimo assunto filosofico-morale intorno al
quale tutto il resto ruota.
Si sa invece che, nel
contesto particolare, Dante intendeva denunciare una “cecità” attribuibile ai
quei teorici dell’amore che furono alcuni specifici poeti delle origini fra cui
gli stessi precursori dello stilnovismo (Guinizelli, Cavalcanti):”duci”
fuorviati e fuorvianti, dai quali desidera prendere nettamente le distanze. Ma
nel citazionismo letterario postmoderno, tipicamente eterogeneo come del resto
è quello qui privilegiato dalla Oppio, il rispetto filologico, che imporrebbe
di non distorcere disinvoltamente per
proprio uso e consumo il significato autentico di qualsiasi testo,viene ormai a
cadere. Che questo ‘vezzo letterario’
sia accettabile o meno sotto il
profilo critico-accademico tradizionale, poco importa: è un dato di fatto da
doversi ormai semplicemente riconoscere. Oltre a non voler sottovalutare la vivificante funzione strumentale che questo nuovo elemento viene d’un tratto a
svolgere nei confronti del lettore/fruitore -- il quale, per questo tramite,
può (e dovrebbe!) vedersi spronato a non fare del citazionismo un utilizzo culturale
automatico, meramente passivo.
3.
A maggior lustro
dell’autrice, ho così sommariamente cercato di mettere a fuoco anche alcune valenze
qualitative supplementari insite nella sua scrittura; e se riscontrabili come
sono nella peculiare strutturazione formale di questo romanzo, certo tanto più
meritorie in quanto acquisite esclusivamente in virtù del suo felicemente autonomo
orientamento artistico connaturale.
Di passi suggestivi,
intimamente coinvolgenti, in quest’opera fascinosa non se ne contano. Eccone
uno a caso: in quella eterea dimensione post
mortem ipotizzata dalla Oppio, venuto meno anche il “linguaggio del corpo”,
tenerissima e toccante la sua dichiarata nostalgia per quel prezioso veicolo
puramente sensoriale, diremmo, che “con un abbraccio o uno sguardo” permetteva
ai viventi in carne ed ossa di esprimere molto più calore e trasporto affettivo di quanto non
sarebbe mai stato possibile nemmeno attraverso la più perfetta formulazione verbale del sentimento.
Vi aggiungerei una mia
personale perplessità pertinente: quel “pensiero telepatico” che nella fantasia
dell’autrice potrebbe configurarsi come il solo strumento di comunicazione
destinato a sussistere fra gli estinti, dopotutto rappresenta il dono più
gratificante al quale aspirare per un’eventuale eternità? Sarebbe un mezzo
estremo davvero auspicabile, non potendo in ogni caso affrancarsi -- neppure
quello! --dai vincoli imposti dalla
parola umana articolata? Ah, quella nostra venerata parola indispensabile, di
per sé semanticamente plurivoca e come tale ineluttabilmente infida, ambigua e
troppo spesso ingannevole anche quando non intenderebbe esserlo! Un dubbio
paradossale, il mio, che occasionalmente affligge ogni scrittore chino sul solo
ferro del mestiere di cui alla fin fine disponga.
Senz’altro ammirevole la
maestria della Oppio nel delineare con pochissimi, nudi tratti di penna quel coup de théâtre che conclude questo
romanzo; e non meno geniale, a mio giudizio, l’idea di presentare la fotografia
del bambino mutilato dall’atomica di Hiroshima come l’unico oggetto materiale
che rimanga visibile alla protagonista dopo il risveglio: quasi a voler suggerire che possa essere stata proprio la
presenza (presumibile fin dall’inizio?) di quell’immagine al capezzale della
paziente ad innescare tutto quanto il successivo
“sogno”distopico/utopico/eutopico durante la narcosi? Chissà, però, se questa
mia particolare ipotesi coincida davvero con le intenzioni dell’autrice. Fino a
che punto è significativo che, nel mezzo di altri quesiti rivolti al suo saggio
interlocutore, Danila Oppio (sotto le finte spoglie di Eve), citando
incidentalmente Demostene, avverta il bisogno di chiedergli: perché l’uomo crede vero ciò che desidera? Di questi tempi in cui ricorre sempre più spesso il neologismo
“post-verità”per indicare praticamente questo medesimo concetto, e designare un
tipo di arbitrio sempre più strisciante in ogni ambito della mentalità
contemporanea, ecco una domanda felicemente lasciata aperta, quindi – priva di
una qualche possibile risposta categorica, al pari di innumerevoli altre che
l’autrice ogni tanto si pone con encomiabile onestà intellettuale anche
riguardo alla effettiva correttezza interpretativa
del pensiero di scrittori e filosofi da
lei rammemorati nel corso delle
molteplici argomentazioni intraprese, per
insaziabile amore del Sapere lanciate con foga ora al di qua, ora al di là della fatidica “soglia”. E’ per noi uno spunto di riflessione in più
fra gli svariati stimoli pluridirezionali anche implicitamente (post-modernamente)
offerti da quest’opera composita al lettore meno distratto. Almeno un lettore,
intendo, davvero desideroso di raccogliere la tacita sfida a volersi addestrare
anche in questa maniera allo scopo di poter poi sondare con crescente sagacia
quel vasto acquitrino di subdole mezze
verità/mezze falsità/post-verità che i mass media ci
4.
costringono a guadare ogni
giorno col fiatone, oppure ad allontanarcene con stizza o apatica insofferenza;
e farlo non già per puro gioco sportivo, per il gusto di presentarci come
candidati provetti a qualche nuovo telequiz di successo, anzi: per decidere di
schierarci lancia in resta contro quel genere di vacuo nozionismo fagocitante,
dinanzi al quale l’autentica cultura sembra sempre più prossima a
capitolare.
Chiuso il volumetto, subito
perdonata come trascurabile qualsiasi svista di quelle che inevitabilmente
sfuggono anche all’editing più
scrupoloso, quale l’invito più forte che ci è dato enucleare e voler più di
ogni altro custodire? Credo sia in definitiva riconducibile ad una (logora?
risaputa? obsoleta?) citazione di fatto
mancante e tuttavia onnipresente tra le pagine in vario modo eloquenti
di questo piccolo-grande libro, dove ci viene indicato con sicura coerenza come
“volontà” ed “azione etica” siano decisivi
fattori-guida che dovrebbero saper rettamente coesistere fino ad
identificarsi del tutto anziché contendersi il campo con dissennata ostinazione
nel comportamento umano; e tanto più oggi che la tremenda posta in gioco è la
già precaria sopravvivenza di questo nostro minuscolo globo terrestre, ahimè
una miseranda “aiuola che ci fa tanto
feroci” se osservato dall’alto dei cieli eppure l’unico spazio vitale che in sorte ci sia stato assegnato e sul
quale, per il momento, ci sia ancora permesso di soggiornare:
“Due cose riempiono l’animo di ammirazione sempre nuova e crescente
quanto più spesso ed accuratamente la riflessione se ne occupa: il firmamento
stellato sopra di me e la legge morale dentro di me.”
Come non voler sottolineare
un ‘grazie di vero cuore’ all’amica Danila per essere riuscita tanto bene a
rammentarmene la sempiterna veridicità –- e non solo “telepaticamente”,
attraverso le assidue testimonianze di una sincera vicinanza spirituale, ma
regalandomi anche il sapore di questo
succulento frutto delle sue migliori propensioni creative: una fulgida prova
concreta di come i confini tra phantasia e imaginatio vera magicamente si
annullino quando l’aspirazione ultima di
uno scrittore sia di poter produrre “arte per la vita”.
Roberto Vittorio Di Pietro
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