Gregario viene dal latino gregarius e significa ‘gregge’ e dunque la tendenza a vivere in gruppo. L’istinto gregario è una tendenza spontanea che spinge i membri di un gruppo della stessa specie ad assomigliarsi e a adottare una stessa attitudine. Il comportamento gregario descrive come individui di un gruppo possono agire assieme senza una direzione predeterminata. Ci troviamo in un’epoca che cospira perché le tendenze gregarie siano assunte, giustificate e financo premiate. Si finge di promuovere l’originale creatività del popolo per poi ridurre all’omologazione del mercato che tutto e tutti traduce in mercanzia. Le prime a rivelare lo stato di gregarietà sono le parole. Parole gregarie che come etichette, slogan o apparenti evidenze sono come le chiavi d’ingresso nello spirito del tempo. Tutti i tradimenti cominciano dall’uso e abuso delle parole, dei verbi, sostantivi, aggettivi e congiunzioni. Chi si arroga il potere di decidere l’interpretazione delle parole e imporne il significato ha messo le premesse per governare il mondo. A parole gregarie corrispondono vite gregarie, che si accodano al vincitore e al potente di turno. Vite vissute per imitazione, per sentito dire o per convenienza. È meglio non rischiare di apparire fuori della zona di controllo, assimilare il senso di protezione offerto dalla maggioranza, rimanere dentro il cortile.
Se le vite gregarie si trovano dappertutto, sembrano essersi sviluppate con maggiore intensità e capillarità in Occidente. Qui da noi, invece, si trovano ovunque le vite precarie. La precarietà è l’amica fedele e permanente di ciò che costituisce l’architettura della vita. Il lavoro, la casa, la luce, l’acqua, il cibo, la scuola, il matrimonio, la politica, le amicizie, il giorno dopo e Dio stesso, è reso precario dalle proprie scelte. Uno dei motivi per i quali, qui da noi, non si prevede a media e lunga distanza, è da attribuirsi alla fragile precarietà del momento presente. Quando si riceve qualcuno, spesso, si preparano le cose all’ultimo momento perché non si sa mai quello che potrebbe succedere nel frattempo. Il taxi che non passa o che ha seguito un altro percorso, un incidente tra due moto che ha bloccato il traffico, l’arrivo di un ospite non atteso al quale occorre trovare un posto in casa propria, l’improvviso attacco di malaria o semplicemente un viaggio che, posposto da tempo, si è infine potuto realizzare. La vita è precaria e basta poco, molto poco, per perderla o smarrirla, ad esempio quando si è malati, è ancora più evidente. Dovrete provvedere tutto il necessario alla vostra cura, le medicine e il cibo compreso. Per il posto letto è sempre meglio avere delle conoscenze, così come per la data delle operazioni eventuali. Dovrete prevedere guanti, ago, filo, antibiotici, garze, disinfettanti, sacche di sangue e i soldi necessari per le flebo. Sono vite precarie che si aggomitolano agli avvenimenti che sorprendono sempre, come non fossero mai accaduti prima.
Le vite resistenti esistono. Portano i nomi di quanti attendono per anni che la loro domanda per essere riconosciuti come ‘rifugiati’ sia finalmente presa in considerazione. Strana davvero la vita. Tutti quanti arriviamo al mondo come richiedenti asilo, ed è questo il nostro statuto permanente. Cercatori di asilo, protezione, riconoscimento, attenzione, rispetto, dignità, misericordia e perdono. È questa la nostra condizione primaria che, di fatto, non ci abbandonerà mai, nonostante i tentativi di cancellazione. Fréderic torna in Costa d’Avorio dopo undici anni passati qui a domandare e ricevere asilo. Jean René e Hyppolite che - l’uno, ancora ospite delle istituzioni, e l’altro abbandonato al suo destino - non vogliono tornare nel Camerun che li ha traditi. Sono vite resistenti come quelle dei contadini, la maggioranza della popolazione nigerina, come quelle dei migranti che non si arrendono al destino loro attribuito, come quelle degli sfollati che si ricostruiscono ogni giorno dopo aver sofferto l’imperialismo della violenza armata. Resistono le donne che, sul dorso, portano il fardello della vita quotidiana che dal poco o dal nulla riescono a inventare il domani. Alcune di loro, come Samira, che è giornalista, ridanno un senso e pericolosità alla verità dei fatti. Altri, ancora resistono ed esistono, malgrado l’attiva persecuzione. Cercano pace e giustizia per tutti e non temono di pagarne il prezzo. A loro e a quanti a loro assomigliano appartengono le parole che salveranno il mondo.
Mauro Armanino, Niamey, 13 giugno 2021
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