Eloquenza del silenzio
di Ivan Illich
Biografia: Ivan Illich (Vienna, 4 settembre 1926 – Brema, 2 dicembre 2002) è stato uno scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco.
Personaggio di vasta cultura, viene citato spesso come teologo (definizione da lui stesso rigettata), poliglotta e storico. Viene però più spesso ricordato come libero pensatore, capace di uscire da qualsiasi schema preconcetto e di anticipare riflessioni affini a quelle altermondiste. Estraneo a qualsiasi inquadramento precostituito, la sua visione è strettamente affine all'anarchismo cristiano. Vice rettore dell'Università di Porto Rico e fondatore in Messico del Centro Intercultural de Documentación (CIDOC), ha focalizzato gran parte della sua attività in America Latina.
Illich nacque a Vienna da Ivan Peter Illich, croato, e da Ellen Rose Regnstreif-Orfortiebi, ebrea sefardita. Sin da bambino si dimostrò estremamente versatile: conosceva l'italiano, il francese e il tedesco come un madrelingua e imparò in seguito il croato, il greco antico e in aggiunta lo spagnolo, il portoghese, lo hindi e altri idiomi. Nel 1941 con la madre e i fratelli andò a vivere a Firenze, completò le scuole secondarie al liceo scientifico Leonardo Da Vinci e iniziò l'università. Nel 1944 si iscrisse alla Pontificia Università Gregoriana di Roma con il progetto di diventare prete, e nel 1951 fu ordinato presbitero.
Prestò servizio come assistente parrocchiale a New York, nella diocesi retta dal cardinal Francis Joseph Spellman. Nel 1956 fu nominato vice-rettore della Pontificia Università Cattolica di Porto Rico, e nel 1961 fondò il Centro Intercultural de Documentación (CIDOC) a Cuernavaca, in Messico, che aveva il compito di preparare i preti e i volontari dell'Alleanza per il Progresso alle missioni nel continente americano.[2]
Dopo dieci anni l'attività di analisi critica del CIDOC, l'elaborazione del manifesto dei descolarizzatori e la pubblicazione dei primi cinque testi fortemente critici con le istituzioni moderne, si acuisce il conflitto con il Vaticano. In seguito a contrasti con i membri della Sacra Congregazione Pro Doctrina Fidei Illich subisce un interrogatorio durante il quale gli vengono fatte domande sulle attività condotte nei suoi centri di documentazione e sulle sue posizioni politiche e religiose. Successivamente gli viene chiesto di rispondere per iscritto alle domande, ma Illich si appella alla facoltà di non rispondere. Il suo processo non viene mai portato a termine, Illich decide di astenersi dal celebrare la messa pur mantenendo il celibato. Di fatto non viene mai scomunicato, restando un "monsignore atipico".
Nel 1976 Illich, apparentemente preoccupato per l'afflusso di accademici formali e per la crescente istituzionalizzazione del CIDOC nonché per le pregresse conflittualità, decise, con il consenso degli altri membri, di chiuderlo. Molti dei soci hanno poi proseguito la loro attività di scolarizzazione linguistica a Cuernavaca.
Nel 1977 insegnò alla Facoltà di Sociologia dell'Università di Trento dove tenne lezioni e organizzò seminari, diventando presto un riferimento per il movimento studentesco.
Dal 1980 Ivan Illich iniziò una lunga serie di viaggi, dividendo il proprio tempo tra gli Stati Uniti, il Messico e la Germania. Fu inoltre nominato Visiting Professor di Filosofia, Scienza, Tecnologia e Società presso la Penn State e insegnò anche all'Università di Brema.
Negli ultimi anni fu colpito da una crescita tumorale sul volto che, in conformità con la sua critica alla medicina ufficiale, tentò, senza successo, di curare con metodi tradizionali. Fumava regolarmente oppio per lenire il dolore. All'inizio della malattia, consultò un medico per valutare la possibilità di rimuovere il tumore, ma gli fu detto che con grande probabilità avrebbe perso la facoltà di parlare e così convisse come meglio poté con la malattia, da lui definita "la mia mortalità".
Il suo essenziale interesse fu rivolto all'analisi critica delle forme istituzionali in cui si esprime la società contemporanea, nei più diversi settori (dalla scuola all'economia e alla medicina), ispirandosi a criteri di umanizzazione e convivialità, derivati anche dalla fede cristiana, così da poter essere riconosciuto come uno dei maggiori sociologi dei nostri tempi.Le persone comunicano assai più profondamente con i silenzi che con le parole. Le parole e le frasi sono, infatti, composte anche da silenzi che hanno ancora più significato dei suoni stessi. Queste pause pregnanti che esistono tra i suoni e le espressioni diventano punti luminosi in un immenso vuoto. Il linguaggio è una corda di silenzio con alcuni nodi che sono i suoni...Confucio paragonava il linguaggio ad una ruota: sono i raggi che la uniscono al centro, ma sono gli spazi vuoti che fanno la ruota.
Per questo, se vogliamo capire un uomo, dobbiamo imparare a conoscere piuttosto i suoi silenzi che le sue parole, e, da parte nostra, non è tanto attraverso i suoni, che riusciamo a pronunciare, che trasmettiamo il significato, quanto piuttosto è attraverso le pause, che possiamo farci capire. Lo studio di una lingua si basa sull'apprendimento più dei suoi silenzi che delle sue parole. Soltanto i cristiani credono in una Parola che è, contemporaneamente, Silenzio.
Imparare una lingua in modo umano e maturo, quindi, significa accettare la responsabilità dei silenzi e dei suoni di questa lingua. Il dono che un popolo ci fa quando ci insegna la sua lingua è più prezioso per il ritmo, il tono, le sottigliezze del suo sistema di silenzi, che per l'accordo dei suoni. E' un dono intimo e personale, per il quale dobbiamo essere riconoscenti a questo popolo che ci ha affidato la ricchezza della sua lingua. Una lingua di cui si conosca soltanto le parole e non le pause di silenzio è una continua offesa per chi l'ascolta, è una caricatura, come il negativo di una fotografia.
Ci vuole più tempo, uno sforzo maggiore, una delicatezza più grande ad imparare il silenzio di un popolo che non le sue parole. Qualcuno ha un'attitudine particolare per questo, altri no. Questo forse spiega perché certi missionari, nonostante i loro sforzi, non giungono mai a parlare come si deve, a comunicare con delicatezza anche attraverso i silenzi. Anche se arrivano a parlare' con l'accento degli indigeni' rimangono sempre a mille miglia lontano. L'arte di imparare la grammatica del silenzio è assai più difficile di quella della grammatica dei suoni. Se le parole possono essere apprese col semplice ascolto, seguito da penosi sforzi di imitazione della parlata locale, i silenzi, invece, devono essere acquisiti con l'apertura del cuore. Proprio come per le parole vi è un'analogia tra il nostro silenzio con gli uomini e il nostro silenzio con Dio. Per imparare il pieno significato del primo, dobbiamo praticare ed approfondire il secondo.
Anche questo silenzio è minacciato, non solo dalla fretta e dalla profanazione della delicata molteplicità degli atti racchiusi in una parola, ma soprattutto dalla nostra abitudine ai discorsi verbosi ed alla fabbricazione in serie delle parole con criteri di produzione di massa che non possono perdersi dietro la delicatezza del linguaggio. La testimonianza silenziosa del missionario è, in ultima analisi, un dono, un dono di preghiera, appreso, cioè, nella preghiera da qualcuno che è infinitamente distante e infinitamente straniero, e sperimentato nell'amore per gli uomini che sono sempre più distanti e stranieri di quelli che conosce in patria. Ora, può avvenire che il missionario dimentichi che il suo silenzio è un dono nel suo significato più profondo, cioè qualcosa di dato gratuitamente, un dono concretamente fatto a noi da coloro che vogliono insegnarci la loro lingua. Colui che tenta di acquistare una lingua come si acquista un vestito, di conquistarla impadronendosi della grammatica, è qualcuno che in sostanza tenta di violentare la cultura nella quale è stato inviato. Fino a che si considera un missionario, dovrà riconoscere di essere frustrato, di essere stato, sì, mandato da qualcuno, ma di non essere arrivato da nessuna parte; ha lasciato la sua patria, ma non ha trovato nessun'altra terra, ha lasciato la sua casa, ma non ne ha più trovata un'altra. Continua a predicare ed è sempre più consapevole di non essere capito. Le sue parole sono la parodia di una lingua.
(Illich, I., Rivoluzionare le istituzioni, Mimesis) Mauro Armanino,Niamey
Ora, dopo una breve biografia ripresa da Internet, perché volevo conoscere questo personaggio a me sconosciuto, prima che mi inviasse il ì testo Padre Armanino, posso riportarlo qui, così capiamo parte del loro immenso pensiero:
Eloquenza del silenzio
di Ivan Illich
Le persone comunicano assai più profondamente con i silenzi che con le parole. Le parole e le frasi sono, infatti, composte anche da silenzi che hanno ancora più significato dei suoni stessi. Queste pause pregnanti che esistono tra i suoni e le espressioni diventano punti luminosi in un immenso vuoto. Il linguaggio è una corda di silenzio con alcuni nodi che sono i suoni...Confucio paragonava il linguaggio ad una ruota: sono i raggi che la uniscono al centro, ma sono gli spazi vuoti che fanno la ruota.
Per questo, se vogliamo capire un uomo, dobbiamo imparare a conoscere piuttosto i suoi silenzi che le sue parole, e, da parte nostra, non è tanto attraverso i suoni, che riusciamo a pronunciare, che trasmettiamo il significato, quanto piuttosto è attraverso le pause, che possiamo farci capire. Lo studio di una lingua si basa sull'apprendimento più dei suoi silenzi che delle sue parole. Soltanto i cristiani credono in una Parola che è, contemporaneamente, Silenzio.
Imparare una lingua in modo umano e maturo, quindi, significa accettare la responsabilità dei silenzi e dei suoni di questa lingua. Il dono che un popolo ci fa quando ci insegna la sua lingua è più prezioso per il ritmo, il tono, le sottigliezze del suo sistema di silenzi, che per l'accordo dei suoni. E' un dono intimo e personale, per il quale dobbiamo essere riconoscenti a questo popolo che ci ha affidato la ricchezza della sua lingua. Una lingua di cui si conosca soltanto le parole e non le pause di silenzio è una continua offesa per chi l'ascolta, è una caricatura, come il negativo di una fotografia.
Ci vuole più tempo, uno sforzo maggiore, una delicatezza più grande ad imparare il silenzio di un popolo che non le sue parole. Qualcuno ha un'attitudine particolare per questo, altri no. Questo forse spiega perché certi missionari, nonostante i loro sforzi, non giungono mai a parlare come si deve, a comunicare con delicatezza anche attraverso i silenzi. Anche se arrivano a parlare' con l'accento degli indigeni' rimangono sempre a mille miglia lontano. L'arte di imparare la grammatica del silenzio è assai più difficile di quella della grammatica dei suoni. Se le parole possono essere apprese col semplice ascolto, seguito da penosi sforzi di imitazione della parlata locale, i silenzi, invece, devono essere acquisiti con l'apertura del cuore. Proprio come per le parole vi è un'analogia tra il nostro silenzio con gli uomini e il nostro silenzio con Dio. Per imparare il pieno significato del primo, dobbiamo praticare ed approfondire il secondo.
Anche questo silenzio è minacciato, non solo dalla fretta e dalla profanazione della delicata molteplicità degli atti racchiusi in una parola, ma soprattutto dalla nostra abitudine ai discorsi verbosi ed alla fabbricazione in serie delle parole con criteri di produzione di massa che non possono perdersi dietro la delicatezza del linguaggio. La testimonianza silenziosa del missionario è, in ultima analisi, un dono, un dono di preghiera, appreso, cioè, nella preghiera da qualcuno che è infinitamente distante e infinitamente straniero, e sperimentato nell'amore per gli uomini che sono sempre più distanti e stranieri di quelli che conosce in patria. Ora, può avvenire che il missionario dimentichi che il suo silenzio è un dono nel suo significato più profondo, cioè qualcosa di dato gratuitamente, un dono concretamente fatto a noi da coloro che vogliono insegnarci la loro lingua. Colui che tenta di acquistare una lingua come si acquista un vestito, di conquistarla impadronendosi della grammatica, è qualcuno che in sostanza tenta di violentare la cultura nella quale è stato inviato. Fino a che si considera un missionario, dovrà riconoscere di essere frustrato, di essere stato, sì, mandato da qualcuno, ma di non essere arrivato da nessuna parte; ha lasciato la sua patria, ma non ha trovato nessun'altra terra, ha lasciato la sua casa, ma non ne ha più trovata un'altra. Continua a predicare ed è sempre più consapevole di non essere capito. Le sue parole sono la parodia di una lingua.
(Illich, I., Rivoluzionare le istituzioni, Mimesis)
Mauro Armanino, Niamey