4 – LO STILE DI FIGLI
10 – NON AVRAI ALTRO DIO DI FUORI DI ME - 1 RICCO EPULONE
«C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con gli avanzi che cadevano dalla mensa del ricco. Persino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo.
Poi morì anche il ricco e fu sepolto.
Finito nell'Ade fra i tormenti, alzando lo sguardo verso l'alto, vide da lontano Abramo e Lazzaro che era con lui. Allora gridò: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che hai ricevuto la tua parte di beni durante la tua vita e Lazzaro, parimenti le sofferenze. Ma adesso lui è consolato, tu invece sei tormentato. Per di più, tra noi e voi c'è un grande abisso. Se qualcuno di noi vuol passare da voi, non lo può fare; così pure nessuno di voi può venire da noi”.
Quello continuò: “Allora, padre, ti supplico di inviarlo a casa di mio padre. Ho cinque fratelli e vorrei che li ammonisca a non venire anche loro in questo luogo di tormento”.
Abramo rispose: “Hanno Mosè ed i profeti: li ascoltino!”. Quello replicò: “No, padre Abramo; ma se qualcuno dai morti andrà da loro, cambieranno il modo di vivere”. Abramo disse: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno convincere neppure se qualcuno risorge dai morti”» Luca 16, 19,31
Una parabola pericolosa per le semplificazioni abusive cui può dar luogo.
Ad esempio: Tutto è rimandato all'aldilà. Soltanto allora ci sarà il rovesciamento delle situazioni presenti: i ricchi all'inferno ed i poveri in paradiso. Giustizia è fatta! Per cui: i poveri devono solamente pazientare un poco, giusto il tempo che i ricchi finiscano tranquillamente il loro banchetto e ricevano una bella sepoltura... Poi, gli appartenenti alla categoria di Lazzaro si prenderanno la loro strepitosa rivincita.
Ma, nessuna concezione è più opposta allo spirito della Bibbia di simile “rassegnazione”, di questo rimandare all'aldilà le soluzioni delle ingiustizie presenti. La fede – non dimentichiamolo – è anche principio d'indignazione, di lotta, non solo di rassegnazione. Il giudizio di Dio va letto e proclamato anche nella storia presente, non rimandato all'ultimo giorno. [Cfr. Il Magnificat!]
––– Cerchiamo quindi, di cogliere la parabola nel suo significato più genuino.
• Il povero ha un nome piuttosto comune nell'ebraismo: Lazzaro (da Eleazaro, che significa “Dio aiuta”, “Yahweh viene in soccorso”). Il ricco, invece, non ha nome. Secondo la concezione semitica, il nome esprime la realtà profonda delle persone, riassume la sua storia.
Ora, questo ricco non ha nome perché ha costruito la sua esistenza sul vuoto. Ha perso il nome perché ha smarrito le vere ragioni del vivere (non si può vivere per banchettare tutti i giorni...).
– Non sono poche, infatti, le persone che hanno “smarrito il proprio nome”, perché l'hanno sostituito con altri nomi: “denaro”, “carriera”, “potere”, “successo”, “piacere”, “yacht” ...
– E poi chiediamoci: è proprio vero che l'eternità costituisca il rovesciamento radicale della situazione presente? Almeno nel caso del ricco, pare proprio di no.
La sua sorte nell'aldilà non è altro che la fissazione definitiva di ciò che egli vive (o non-vive) oggi, il prolungamento di ciò che egli è (o, non-è) sulla terra. Lui è un isolato. Impegnato a guardare nel piatto ricolmo, non vede il povero che sta alla sua porta. I cani vedono meglio di lui.
Ora, l'inferno non è altro che la “consacrazione” di questo stato di separazione: separazione da Dio e dai suoi amici (Abramo, Lazzaro).
Perché? Perché quaggiù lui è vissuto lontano dagli altri, separato dai veri valori, attaccato unicamente all'avere, appiccicato al piacere egoistico, separato dal se stesso più autentico.
Il ricco in questione era già un “dannato” durante la sua esistenza terrena, scandita da regolari abbuffate, perché imprigionato nel suo “privato”. Perché, privato dal senso della vita.
Si potrebbe obiettare: “Ci sono, però, là, anche i tormenti. Mentre sulla terra quell'individuo ha goduto, s’è divertito, se l'è spassata. Almeno in questo, sembrerebbe, la situazione dell'aldilà costituisce un capovolgimento”. Ma, siamo proprio sicuri che il banchettare spensieratamente, indossare vestiti di gran lusso, accumulare denaro, spendere senza vergogna per ferie,… sia sorgente di felicità?
Ritengo non ci sia tormento maggiore di una vita vuota, o riempita di cose inutili, che è la stessa cosa; che ci sia tortura più lancinante dell'isolamento, della chiusura agli altri, del non vedere di là del proprio “io”, del non saper usare le mani nel gesto del dono, del soffocare le esigenze dello spirito.
Anche se tale tormento, quest'angoscia sono soffocati con l'allegria e la spensieratezza, con il chiasso stordente, la dissipazione. Se cadessero le maschere, vedremmo spalancarsi ferite profonde, abissi di disperazione. Un inferno, appunto. Già su questa terra. Un inferno dotato di tutti i comfort.
•• La parabola evangelica, più che descriverci la geografia dell'aldilà, più che informarci di ciò che avviene nell' “altra vita”, ci ammonisce severamente che la sorte dell'uomo si gioca oggi, quaggiù, in questo momento. È il presente che viene “fissato” in eternità.
È l'”al di qua” che viene trasformato in “al di là”. Il ricco pare accorgersi di aver bisogno degli altri (di Abramo, oppure di Lazzaro) quando ormai ha “passato” l'abisso, quando non è più in tempo. E sembra occuparsi degli altri (i suoi cinque fratelli) in ritardo.
Gli incontri, infatti, avvengono quaggiù; gli appuntamenti decisivi sono per l'oggi.
È soltanto l'oggi, qui, che si può essere liberati dal proprio passato, e garantirsi quindi il futuro.
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–– Esistono ricette per dimenticare il passato e non temere il futuro?
Il rimedio facile non esiste, giacché è impossibile vivere senza dar peso agli avvenimenti che han lasciato tracce in noi, soprattutto riguardo al male. Questi, a loro volta, ci predispongono e ci marcano per il futuro. Però, sì, deve esistere un’attitudine d’abbandono e di confidenza in Dio, e da questa fede, cercar di vivere soltanto il momento presente. Un proverbio ascetico afferma:
«L'ora che tu vivi, il compito che adempi, l’uomo che tu incontri in questo momento
sono i più importanti della tua vita».
• Perché, in "tre secondi" ci giochiamo molto ...
Se tutta la santità si riduce al fatto d’essere o no fedeli alla missione che il Signore ci chiede in ogni istante, l'esercizio di tale “fedeltà” consisterà nell'accettazione di ciò che Dio desidera da noi in questo preciso momento per quanto breve sia. Per questo, oggi, molti autori spirituali parlano del "sacramento dell'istante presente", perché ogni momento – quantunque secondo gli esperti non duri più di due o tre secondi – è sempre pieno d’infiniti messaggi divini, d’infinite lezioni. Esso contiene più saggezza di quanto l'uomo possa apprendere in libri o consigli.
Quindi lo dobbiamo trattare in maniera adeguata. Non si tratta, infatti, di pregare in questa o quell'altra occasione, ma di convertire ogni "istante" della vita in preghiera. Sembra che sia così ...:
Il "presente" dell'uomo dura esattamente questi tre secondi. Vale a dire, un istante fugace.
Perdonami, Signore; però è chiaro che sono un po’ “spiazzato".
Ho appena saputo che gli uomini non sono capaci di ritenere l'immagine del presente più di tre secondi.
Tre secondi, ed è tutto finito: l'aria stessa che ho appena respirato non mi appartiene più.
L'immagine che ho appena terminato d’essere è già memoria del passato.
Il bacio che ho appena dato è morto fra l'emozione e il sospiro.
Mi dico, Signore: questo è terribile! Mi dico: questa constatazione limita, in modo angustiante, quella sensazione di potere che finora ci aveva sostenuto in piedi sulla terra.
– Noi assicuravamo che il passato non ci apparteneva, che però non ce ne importava molto.
In alcune occasioni l'avevamo vissuto; in altre c’era appartenuto, e che ce ne restava la memoria,
e la malinconia, e la nostalgia;
o il dolore, che il suo passaggio aveva potuto lasciare sulla nostra pelle.
– L'assunto del futuro poneva ancor meno problemi.
Il futuro non c’era mai appartenuto, e neppure eravamo sicuri di poterlo vivere.
Ti assicuro, Signore, che molte volte, quando ho pensato alle guerre e agli incerti ed insicuri orizzonti futuri dell'umanità, mi sono rifugiato – un po' vigliaccamente – nella consolante idea che forse mi avresti chiamato a Te prima che accadessero. Sarei entrato nel tuo seno, e si sarebbe posto fine a tutto questo "guazzabuglio"; o sarebbe iniziata la gioia completa, che è ancor molto più consolante.
– Però, nel presente c'eri Tu, Signore!
Tu stesso! Più affidabile che mai; più che mai possesso nostro, cosa nostra e alimento dello spirito.
Il presente è come tenerti fisicamente fra le mani. È come se stessi scaldando il nostro cuore. È qui, diciamo. ... Lo diciamo, e il nostro cuore si colma di gioia.
– E ora, scopriamo, che non è proprio così!
Ora constato che appena, appena ci appartieni, non più che per questi tre miserabili secondi!
Ci scorrono fra le dita e Tu non sei altro che la memoria dell'immediato passato.
Sei stato cancellato da un’altra immagine, da un'altra sensazione...
Ci possono essere immagine di Te, un'altra volta, ma che, ugualmente, non è più quella di prima.
E ti voglio dire una cosa, Signore: ciò che più mi abbatte è che Tu stesso ti debba misurare con il nostro tempo. Credo che sbagliasti il giorno che ti sei fatto cosa nostra: perfettamente calcolabile, perfettamente "misurabile". Perché quando ti rendesti come noi, ti sottomettesti alla precarietà del tempo: al prima e al poi. E tutto questo accadde a Te che eri – e che sei – l'eternità che distrugge ogni tempo. Sono sicuro di quel che dico: non l'hai indovinato. ...
C’è, però, una cosa che non ha tempo: l'amore.
E c'è un'altra cosa che è dura come la morte e bella come uno sguardo: è la fede.
Temo che gli scienziati dell'immagine che giunsero alla conclusione del fatto che il nostro presente non dura che tre secondi, erano degli esperti per i quali non conta nulla l'immagine oscura della fede.
A colui che Ti crede, Signore, – che, mi sembra, sia un qualcosa di distinto dall' “avere fede in Te” o credere a Te –, a colui che ha fede gli basta – e gliene avanza –, continuare a possederla:
– gli bastano gli schiaffi che gli dà l'aria fino a che T’incontri;
– gli basta e avanza questo andare e venire che la fede sempre comporta.
Il meraviglioso non è possedere un cammino per dove camminare.
Il meraviglioso è averlo iniziato, con te al fianco. I nostri tre secondi del presente diventeranno così i tre secondi più eterni che mai sono dati agli uomini che hanno fede.
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Ammonisce Gesù: «Hanno Mosè ed i profeti: li ascoltino!». E anche noi abbiamo, per questo, “Mosè ed i profeti”, ossia la Parola di Dio.
Non abbiamo bisogno di miracoli eccezionali, come quello di un morto che venga ad ammonirci (come vorrebbe il ricco per i suoi fratelli). La fede non nasce dai miracoli. Non è un morto resuscitato ma la Parola di Dio che risuona nel nostro cuore che può farci aprire gli occhi. È la Parola il vero miracolo, la sola che può provocare una risurrezione.
Nessuna conversione può essere fondata su un miracolo spettacolare e la paura. Certo, la risurrezione di Cristo è un miracolo, il grande miracolo. Tuttavia, anche questo miracolo è trasformato, per noi, in Parola efficace, in insegnamento (in parabola). E siamo beati perché, pur non avendo visto Gesù uscire dal sepolcro, ascoltando la Parola di Dio usciamo dal nostro sepolcro e usciamo alla scoperta dei fratelli.
«Gesù non cerca principalmente di spaventarci con un inferno futuro o di consolarci con un paradiso futuro. Intende, piuttosto mostrarci come il cielo cammini là dove risuona la Parola di Dio che permette ad un uomo di trovare il proprio fratello» (A. Maillot).
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2 – UN UOMO A COLLOQUIO COI SUOI BENI. (Ricco sazio e stolto)
«Le terre di un uomo ricco avevano dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé così: “Ora non ho più dove mettere i miei raccolti: che cosa farò?
E disse: “Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi, così che raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: “Anima mia, hai disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti”.
Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita e a chi andranno le ricchezze che hai accumulato?”.
Così accade a chi accumula ricchezze solo per sé e non s’arricchisce davanti a Dio». (Lc 12. 16-21)
Ciò che maggiormente colpisce in quest'uomo ricco ed avido della parabola evangelica, è la sua solitudine. Qualcosa di tetro, terrificante.
Nessuno è solo come quest'uomo che è circondato, quasi soffocato dai suoi beni. Può contare le sue rendite; lo vediamo a colloquio con le cifre. La sua voce ha il suono dei soldi.
È un individuo senza nome, senza volto [Come il ricco epulone], non ha moglie, figli, amici.
L'unico legame stretto sono i suoi beni materiali. S'identifica con le proprie ricchezze. Lui stesso diventa campo, granaio, frumento, magazzino, portafoglio. Non è più un uomo. È una cosa in mezzo alle cose.
I beni, invece di essere veicolo di relazione con gli altri, per lui sono cose da accumulare, conservare, proteggere, difendere. Invece di essere mezzi [anticamente si diceva, giustamente, che uno aveva tanti “mezzi”], diventano fine cui si sacrifica tutto.
Quest'uomo squallido è un prigioniero. Può anche ampliare i magazzini. Ma non ne uscirà più.
È un uomo chiuso, senz'avvenire. Proprio lui che s'illude di stare al sicuro per molti anni.
Allorché gli si pronunzia la terribile sentenza: «Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita», in realtà lui lo è già da un pezzo. La sentenza l'ha pronunziata lui stesso su di sé. Giustamente è stato rilevato che «più che una punizione, è un esaudimento».
• Gesù lo si definisce “stolto”. Perché?
– Perché fonda la propria sicurezza sull'avere e non sull'essere.
– Perché s'identifica con le cose, e non le trasforma in sacramento di comunione con i fratelli.
– Perché crede che molto denaro significhi molta vita.
– Perché pensa che il possesso egoistico dia gioia.
– Perché non sospetta che, anche se i conti tornano, la sua esistenza è un fallimento.
– Perché non capisce che “l'io non ha altra protezione che il darsi, il perdersi” (A. Paoli).
– Perché non si rende conto che non è possibile riempire il vuoto con l'ingombro.
– Perché non si avvede che la vita va colmata di amicizia, di dono, di relazioni; non di cose.
Proviamo, ora a trarre alcune conseguenze.
* Il possesso è sempre una limitazione. “Chiunque acquista un campo e lo recinge, si priva del resto della natura, s'impoverisce di tutto il resto” (E. Cardenal).
Il possesso è soprattutto limitazione di libertà. «Non avete mai notato che essere ricco si traduce sempre in un impoverimento su un altro piano? Basta dire: “Possiedo questo orologio, è mio!”, e rinchiudere la mano su di esso per avere un orologio, e aver perduto una mano» (A. Bloom). Il nostro spirito, il nostro cuore, tendono a rimpicciolirsi, a restringersi alle dimensioni degli oggetti sui quali si rinchiudono, alle dimensioni dei beni sui quali si ripiegano.
* La ricchezza è falsificazione delle cose, perché falsa i rapporti con esse. Il ricco crede che il suo certificato di possesso lo leghi intimamente ai beni. Ma è una colossale illusione. Le cose, come le persone, hanno una “soglia d'inviolabilità”, un “limite d'invalicabilità che non possono essere forzati da un diritto derivante semplicemente dal denaro. Una cosa non si lascia “violare dal portafoglio” (le persone, qualche volta, sì...). Per questo, anche se mi appartiene, essa rimane inviolata nella sua essenza più vera, e mi lascerà sempre insoddisfatto.
La cosa mi rimane ostinatamente “estranea”; mi sfuggirà di mano anche se la trattengo, anzi, proprio perché pretendo afferrarla, tenerla, mi sorriderà beffarda, intatta, intoccabile.
Per entrare in unione intima con un bene creato (la proprietà legata ai soldi, al diritto), può costituire un ostacolo. La facoltà di possedere si colloca al livello più profondo di noi stessi, là dove un oggetto esterno può entrare soltanto interiorizzandosi. (Liberamente da Domenica C- p. 159)
Per possedere veramente una cosa, bisogna stabilire con essa non un rapporto di possesso, di aggressività, ma di partecipazione, di meraviglia, di contemplazione.
È l'uomo “liturgico”, non l'uomo “economico” che è in armonia col creato.
La terra appartiene ai “miti”, ossia a coloro che non rivendicano nulla. Soltanto chi prega, avendo le mani vuote, può pregare nelle cose e con le cose.
C'è un momento nella Messa, in cui ci viene ricordato l'uso corretto che dobbiamo fare delle mani. L'offertorio è il momento della consacrazione delle mani; quelle mani che ritrovano la loro funzione più vera nel gesto dell'offerta: “... Dalle tue mani abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell'uomo”
Le mani mi sono state date per dare. Chi le usa, abitualmente, soltanto per prendere, tenere, arraffare, non ha ancora imparato ad adoperarle, anche se è molto avanti negli anni. Soprattutto non ha ancora gustato la gioia più grande: la gioia di donare.
Ci si preoccupa d'insegnare a camminare, e il giorno in cui il bambino muove i primi passi segna un grosso avvenimento in famiglia. Bisognerebbe far festa quando il bambino inizia ad usare le mani nell'unica maniera corretta, che è la maniera di dare.
Ci si preoccupa delle mani sudicie. In realtà, le mani sono sporche soltanto quando “trattengono” qualcosa. Un cristiano, ossia un cercatore di Dio, supererà la tentazione di fermarsi, soltanto se sarà capace di trasformare le realtà terrestri in “segno” e “dono”.
Soltanto se imparerà ad usare le mani nell'unica maniera “giusta”.
I nostri conti, a differenza di quelli dello “stolto” della parabola,
tornano, quando tornano i conti degli altri.
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Una donna si recò alla fontana: un piccolo specchio tremolante, limpidissimo, tra gli alberi del bosco.
Mentre immergeva l'anfora per attingere, scorse nell'acqua un grosso frutto roseo, cosi bello che sembrava dire: «Prendimi!»
. Allungò il braccio per coglierlo, ma quello sparì, e ricomparve soltanto quando la donna ritirò la mano dall'acqua. Così per due o tre volte. Allora la donna si mise ad estrarre l'acqua per prosciugare la fontana. Lavorò a lungo, sempre tenendo d'occhio il frutto misterioso, ma quando ebbe estratto tutta l'acqua, s'accorse che il frutto non c'era più.
Delusa per quell'incantesimo, stava per andarsene via, quando udì una voce tra gli alberi (era il Gufo Belvedere, quello che vede sempre tutto): «Perché cerchi in basso? Il frutto sta lassù ...»
.
La donna alzò gli occhi e, appeso ad un ramo sopra la fontana, scorse il bellissimo frutto, di cui nell'acqua aveva visto soltanto il riflesso.
••• Ovvio, no? Eppure spesso nella vita ci comportiamo così.
Cerchiamo affannosamente ed inutilmente la felicità nelle vicende di questo mondo.
Disillusi ed amareggiati non ci rendiamo conto
che solo in Dio è la nostra vera fonte di felicità…
Per quale ragione siamo sulla terra?
Noi siamo sulla terra per riconoscere ed amare Dio,
per fare il bene secondo il suo volere e raggiungere un giorno il cielo
. (Catech. Chiesa Cattolica per Giovani)
"Sulla terra non bisogna attaccarsi a nulla,
neppure alle cose più semplici e innocenti,
perché ci vengono a mancare quando meno ci si pensa."
(S. Teresa di Gesù Bambino)
La PAROLA di D I O
Bene e male, vita e morte
povertà e ricchezza, tutto proviene dal Signore,
Sapienza, senno e conoscenza della legge,
vengono dal Signore;
carità e rettitudine sono doni del Signore,
Errore e tenebre sono per gli empi
e il male resta per i malvagi.
Il dono del Signore è assicurato ai pii
e il suo favore li rende felici per sempre.
C’è chi è ricco a forza di privazioni e di risparmio;
ed ecco la parte della sua ricompensa:
quando dira: “Ho trovato riposo, ora mi godrò i miei beni”,
non sa quanto tempo ancora trascorrerà;
lascerà tutto ad altri e morirà.
Sta’ fermo al tuo impegno e fanne la tua vita;
invecchia compiendo il tuo lavoro.
Non ammirare le opere del peccatore,
confida nel Signore e persevera nella fatica,
perché è facile per il Signore
arricchire un povero all’improvviso.
La benedizione del Signore è la ricompensa del pio;
in un istante Dio farà sbocciare la sua benedizione.
Non dire. “Di che cosa ho bisogno
e di quali beni disporrò d’ora innanzi?”.
Non dire: “Ho quanto mi occorre;
che cosa potrà ormai capitarmi di male?”.
Nel tempo della prosperità si dimentica la sventura;
nel tempo della sventura non si ricorda la prosperità.
È facile per il Signore nel giorno della morte
rendere all’uomo secondo la sua condotta,
L’infelicità di un’ora fa dimenticare il benessere;
alla morte di un uomo si rivelano le sue opere.
Prima della fine non chiamare nessuno beato;
un uomo si conosce veramente alla fine”.
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