12 – STILE DEL CRISTIANO
b – ATTEGGIAMENTI COERENTI
3. AMMINISTRATORE INFEDELE
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di aver dissipato i suoi beni. Il padrone lo chiamò e gli disse: “È vero quello che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché da questo momento non potrai più amministrare”.
L'amministratore disse fra sé: “Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, medicare, mi vergogno.
So io che cosa devo fare, affinché quando mi sarà tolta l'amministrazione, mi accolgano nelle loro case”. Chiamò uno ad uno quelli che avevano debiti con il suo padrone e disse al primo:“Tu quanto devi al mio padrone”. Quello rispose: “Cento barili d'olio”. Gli disse: “Prendi il tuo foglio, siediti e scrivi cinquanta”. Poi disse ad un altro:“E tu quanto devi?”. Quello rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi il tuo foglio e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. Infatti, i figli di questo mondo, nei loro rapporti con gli altri, sono più astuti dei figli della luce». (Luca 16,)
Si tratta, indubbiamente, di una parabola imbarazzante, persino scandalosa.
Un latifondista capta alcune voci circa l'irregolarità amministrative compiute da un suo fattore.
Lo manda a chiamare. L'interessato non pensa neppure a discolparsi: i libri contabili gli danno torto. Il licenziamento risulta inevitabile.
Ciò di cui lui si preoccupa è del proprio futuro.
L'unica maniera per cavarsela, dal momento che non saprebbe fare altri mestieri, consiste nel procurarsi degli amici.
Ed eccolo subito in azione. Convoca i debitori del suo padrone – probabilmente mercanti-grossisti – e riduce notevolmente l'ammontare del loro debito. Una riduzione del venti per cento per il grossista di grano, e del cinquanta per cento per quello dell'olio. In ogni caso, l'abbuono è di parecchi milioni.
Bella maniera di “sistemare” uno scandalo amministrativo! A una serie d'irregolarità si rimedia con altre irregolarità. Scoperta la truffa, si evitano le conseguenze spiacevoli con altre operazioni truffaldine.
E il tutto con la benedizione del padrone, il quale “lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con destrezza”. – Anzi, secondo certi studiosi, l'approvazione non sarebbe del padrone, ma del Signore! Ossia Gesù stesso ammira il comportamento del fattore infedele.
Per questo molti parlano di “scandalo”. Qualcuno definisce il racconto come “la più raccapricciante delle parabole”. Una vergogna, insomma. Non c'è più religione (!), dal momento che Dio stesso tiene il sacco ad un ladro.
– Cerchiamo di mantenere la calma.
L'approvazione del Signore va all'amministratore disonesto, certo.
La lode, tuttavia, non riguarda la sua disonestà, bensì la scaltrezza di cui ha dato prova.
Gesù non pronuncia un giudizio morale sulla condotta truffaldina. Ma apprezza l'intelligenza e l'intraprendenza del furfante.
Nell'interpretazione di una parabola [ormai lo sappiamo!], si deve evitare l'errore di trovare ad ogni costo un significato, un'applicazione pratica – o, peggio, un motivo edificante – in ogni particolare. Occorre cogliere il motivo dominante, la lezione di fondo, senza soffermarsi sugli elementi di contorno.
Ora, nel nostro caso, la lezione fondamentale non è quella dell'ingiustizia, ma della capacità di tirarsi fuori da una situazione critica.
Il Signore ama le parsone che si danno da fare, che non si dimenticano di possedere un cervello, che ricorrono alle risorse della fantasia.
Qui, l'amministratore infedele trova un varco che gli permette di uscire dalla sua situazione attraverso una scoperta decisiva: la scoperta degli altri.
Finora non si era accorto, praticamente, della loro esistenza; aveva pensato solo a sé, ai propri interessi. Adesso scopre la realtà dell'amicizia. Dispone ancora una volta ingiustamente della proprietà che deve amministrare, tuttavia non più per sé, ma a vantaggio degli altri. E la propria salvezza passa attraverso quest'apertura agli altri.
• Mi sembra questa una lezione essenziale per la Chiesa.
Essa non è padrona, bensì semplice amministratrice e dispensatrice dei tesori del suo Signore.
La Chiesa non può vivere in un circuito chiuso, pensando alla propria sicurezza, ai propri diritti, al proprio prestigio. Deve “porre in circolazione” i beni del suo Padrone. Deve scoprire la propria identità nel suo “essere per” gli uomini.
La Chiesa non può trasformare la propria vocazione in autogestione o, peggio – in “auto-digestione”. Elezione non significa privilegio, ma servizio.
I beni del Signore vengono “dissipati” quando sono tenuti per sé, chiusi, protetti, difesi. La colpa non sta nel dilapidare, ma nell'appropriarsi. Non nel dilapidare a vantaggio dell'umanità.
Chi può illudersi di saper amministrare fedelmente?
Eppure, la vera, grossa infedeltà consiste nel non largheggiare, nel non distribuire a piene mani.
Ed è bello, è giusto, che la Chiesa – come l'amministratore che si dichiara incapace di maneggiare la zappa – non sappia, non possa, non debba fare “altri mestieri”. L'unico suo mestiere, l'unica sua specializzazione, infatti, è: perdonare, usare misericordia, compatire, comprendere, aprire, liberare.
•• La lezione riguarda anche ciascuno di noi.
Nessuno ha registri a posto. Per poco che Dio ci dia un'occhiata, c'è da tremare. I conti con Lui non tornano mai.
Ebbene, la parabola ci insegna a compiere “irregolarità”. Anche se in altra maniera.
Dio ama le “irregolarità” che vanno a vantaggio del prossimo.
Si tratta di minimizzare le colpe degli altri (e non di maggiorarle, come facciamo abitualmente), di ridurre i loro difetti, di cancellare le offese, di tirare una riga sopra i torti, di non ragionare in termini di diritti o ragione, ma in termini di amore.
Le nostre mani ridiventano “pulite” quando le spalanchiamo nel gesto del dono, per regalare gioia, luce, speranza.
Col prossimo non sono consentite le misure “giuste”. L'unica misura consentita è la “dismisura”, l'eccesso. Allora il Signore tornerà a fidarsi di noi.
Certo, mancherà sempre qualcosa nei nostri conti: farli quadrare sarà praticamente impossibile.
Lui, però, è soddisfatto ugualmente della nostra “cattiva amministrazione”.
Perché, ciò che manca dovrà andarlo a cercare “altrove”, e non nel portafoglio. I suoi beni sono al sicuro nelle tasche degli altri, che sono poi i legittimi destinatari.
Allora, noi ci saremo fatti degli amici che parleranno bene di noi presso l'Amico.
……………………….
4. PARABOLA DEL FICO STERILE (LA PAZIENZA DI DIO)
«Disse anche questa parabola: Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.
Allora disse al vignaiolo: – Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? –.
Ma quegli rispose: – Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai –» (Luca 13,6-9).
Potremmo disquisire a lungo sulla giustizia di Dio, ma non che sia una giustizia che non sappia attendere, così come sa attendere il cuore d’un Padre.
Potremmo dire tante cose sulla pazienza di Dio, ma non che essa non sappia esigere ciò che è giusto e buono per ciascuno di noi, per essere dei veri figli.
Una pazienza, perciò, che è attesa del nostro impegno.
Un'attesa che non perdona un disimpegno, ma lo rimuove, pena l'auto-condanna. Dio interviene, suscita una scelta continua.
Ogni intervallo di passività è messo sotto giudizio da Dio, che, se dilaziona la condanna, è per provocare una crisi e un risveglio.
Pazientare non è perciò un guardare in silenzio l'oziare dei figli. È un dialogare continuo tra uno sguardo d'amore del Padre e lo sforzo di questi figli.
Dio attende che il nostro aprire gli occhi e le orecchie agli inviti della coscienza, che sono poi i richiami di Dio stesso, diventi l'inizio di una ripresa di dialogo.
Essenziale è dare al Signore il permesso di entrare in azione, di creare cioè quel minimo indispensabile che dia via libera alla grazia di fare il resto.
Affinché un filo d'erba spunti è necessaria almeno una zolla; un seme può attecchire anche in una fessura di muro, purché trovi qualcosa in cui marcire.
L'esigenza di questo “minimo” – in confronto alla potenzialità e al miracolo dell'agire di Dio è sempre un minimo anche il nostro eventuale eroismo – è quanto basta per rendere possibile il dialogo tra Dio e noi.
La morte di ciascuno di noi (ci ricorda il Vangelo).
Ogni stagione ha il suo frutto squisito. Ogni pianta ha la sua stagione per maturare. La natura è varia e sempre interessante, sia nel suo apparire morta, sia nel suo rifiorire e rivivere a tempo opportuno.
La natura è sempre obbediente alla legge di Dio. Per questo ci affascina. Se non si riesce più ad assaporare la dolcezza di un frutto, colpa sarà sempre dell'uomo che ha intaccato con il suo egoismo di pietra anche le bellezze più innocenti di questo mondo.
Più che lo scatenarsi di una tempesta, la natura paventa l'imprevidenza e la noncuranza dell'essere più intelligente, che s'accorge troppo tardi del danno che può procurare ogni forma di violazione dell'armonia nel creato.
Se tutto il mondo è una parabola, tutto va giudicato e letto come un messaggio della bontà e della giustizia di Dio. Perché chiudere gli occhi? Perché non sentire?
Se un albero abbattuto da una raffica di vento può impressionare, che dire d’un'anima sconvolta da una tragedia, d’una coscienza tradita nella sua più profonda bellezza interiore?
Se il sussultare della terra – mai esente da una responsabilità umana – può terrificare e farci gridare contro il Cielo, che dire allora quando l'uomo imbestialisce a tal punto da ridurre tutto a odio, vendetta, sangue, depravazione morale?
Quando Cristo è morto sulla croce, anche la natura ha pianto. Ma l'uomo, dov'era?
Quando certe piante secche della nostra società – cioè coloro che riduciamo tali con la nostra indifferenza –, non ci impressionano più nella loro dignità emarginata, ma ci danno fastidio perché rovinano il bel panorama del nostro egoismo –, non è forse segno che siamo diventati noi delle piante aride e prive di frutti, mentre Dio ha già scelto dove far scaturire il seme di speranza per un mondo nuovo?
O Gesù,
mi piace identificarti in quel saggio vignaiolo,
che chiede tempo all'impazienza del padrone della vigna.
Non che Tuo Padre sia solo giusto, senza cuore!
Forse perché senza un tale Figlio
il volto di Dio sarebbe stato diverso.
Non è concepibile un Padre senza Te, Figlio!
Lo Spirito Santo non è forse questa reciproca esigenza?
Ed è proprio questo Spirito a rinnovare la faccia di questo mondo.
Dove c'è Spirito,
c'è vita, c'è il rifiorire dell'uomo, il suo camminare a maturazione.
O Gesù, ho sempre nel cuore
quella frase che hai rivolto alle donne di Gerusalemme, sulla via della croce:
«Perché, se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?».
Se Tu, o Cristo, il legno verde,
il frutto benedetto dello Spirito e del sì d’una Vergine ebrea,
hai percorso la strada del sacrificio supremo,
perché noi, legni secchi, alberi ricchi di sole foglie,
ci crediamo dispensati
dal duro impegno di rinascere continuamente a vita nuova,
facendo del nostro indispensabile sì allo Spirito di Dio
un'adesione verginale,
una testimonianza di povertà, una fede operosa?
Tu dilazioni la pazienza del Padre in un'attesa d'amore;
ma non togli il nostro impegno di dissodare il terreno,
per dare più vitalità alla pianta della nostra vita.
Proprio perché Tu sei paziente,
noi dovremmo a maggior ragione assumerci più responsabilità,
corrispondere al Tuo amore in attesa con più impegno,
come il figliol prodigo ritornato a casa dal padre,
la cui pazienza d'amore
è sempre rimasta presente
nel cuore del figlio, pur lontano. Don Giorgio De Capitani (Messaggero)