“Bangui, la capitale
spirituale del mondo”. La testimonianza di un carmelitano
Al Meeting di
Rimini, padre Federico Trinchero racconta il suo impegno in Centrafrica per gli
oltre 3mila profughi accolti nel suo convento
“È
da sette anni che vivo in Centrafrica. Vi saluto e vi ringrazio dell’invito
anche a nome dei profughi che da ormai tre anni vivono nel nostro convento.
Avvertendo che era per un viaggio fuori dell’ordinario la mia partenza da
Bangui per Rimini, un profugo mi ha voluto lucidare i sandali perché potessi
presentarmi da voi in ordine. Nella sua semplicità mi è sembrato un gesto molto
bello”.
Dopo
l’introduzione e le prime domande di Davide Perillo, direttore diTracce, è iniziata così la testimonianza
di padre Trinchero, missionario carmelitano a Bangui, la capitale del
Centrafrica. Il Centrafrica, ha detto il missionario, è un paese grande
due volte l’Italia, ma con solo cinque milioni di abitanti. “È uno dei paesi
più poveri della terra, nonostante possieda diverse ricchezze naturali. Negli
ultimi tre anni ha conosciuto anche il dramma della guerra tra una coalizione
di ribelli, a maggioranza musulmana, provenienti da Nord e le truppe
governative. Il 5 dicembre 2013 un gruppo di profughi incomincia ad arrivare in
convento. All’inizio erano circa seicento persone, il giorno dopo duemila. Oggi
ospitiamo tremila profughi, ma a un certo punto abbiamo superato la cifra dei
diecimila”.
Insomma
il convento è diventato un campo profughi e padre Federico, con grande
naturalezza e una buona dose di humor, ha raccontato gli straordinari problemi
che lui e i confratelli hanno dovuto affrontare: dalla sistemazione dei
profughi, al cibo, dall’igiene alla realizzazione, in refettorio, di un
ospedale da campo, dall’organizzare una tale moltitudine di gente
all’assistenza alle donne partorienti.
“Ma
non era questo il vostro ‘mestiere’. Perché – ha chiesto Perillo – vi siete
buttati in questa impresa?”. “Non siamo noi che ci siamo buttati – ha risposto
padre Trinchero – sono loro che sono arrivati. Questi ospiti ci hanno costretto
a vivere il Vangelo. Avere Gesù a portata di mano era un’occasione da non
perdere. Non ho mai avvertito, in quello che stavo facendo, di sottrarre il
tempo al Signore”.
Il
Centrafrica, com’è stato ricordato nell’incontro, è un paese “non solo lontano,
ma sconosciuto alla maggior parte di noi”. Qualcosa è cambiato nel novembre
2015, quando Papa Francesco ha visitato Bangui (29-30 novembre) ed ha aperto la
Porta Santa del Giubileo della misericordia nella sua Cattedrale. È stato Papa
Francesco a definire Bangui – come ricordava il titolo dell’incontro – “la
capitale spirituale del mondo”. “Il Papa – aggiunge Federico Trinchero – ha
ripetuto tre volte questa affermazione. Per noi, abituati come a vivere un
complesso di inferiorità, è stato un positivo capovolgimento. Come dice il
Vangelo di oggi: gli ultimi saranno i primi”. Il Papa ha avuto anche il
coraggio di oltrepassare la zona del Km5, quella di massima concentrazione
musulmana, e di visitare la moschea centrale. “Dopo la venuta del Papa la
situazione è cambiata – afferma il missionario carmelitano – si spara molto di
meno, è cambiato il clima, si registra un’apertura”.
Sollecitato
dall’intervistatore, padre Federico ha raccontato anche la storia del
22enne centrafricano che, per diverse settimane, ha dormito davanti alla
porta del convento e ha incominciato a frequentare la Messa. “Ad un certo punto
mi dice – racconta il relatore – ‘Padre, vorrei essere come voi. Vi vedo così
uniti, pregare, intervenire attivi e poi scomparire… San Benedetto dice di
aspettare che uno bussi per cinque giorni alla porta del monastero, prima di
accogliere la sua richiesta; questo ha aspettato settimane – dice padre
Federico – penso che una possibilità gliela dobbiamo dare”.
“Come
abbiamo ascoltato – ha commentato Davide Perillo – c’è un prima e un dopo
l’apertura della Porta Santa a Bangui da parte del Papa”. Il Direttore di
“Tracce”, concludendo l’incontro, ha sottolineato il valore della testimonianza
di Trinchero, documentato “dalla faccia e dal sorriso di padre Federico e,
insieme, dalle cose che ci ha detto”.
Il
suo è stato uno degli interventi più apprezzati in questo primo scorcio del
XXXVII Meeting di Rimini. Per padre Federico Trinchero, 39 anni, piemontese, missionario carmelitano nella Repubblica Centrafricana dal 2009, è stato un
ritorno in patria, ma laggiù, a Bangui, capitale di un paese ancora lacerato da
una terribile guerra civile, c’è già chi ha nostalgia di lui.
Nel
corso della sua testimonianza al Meeting,
il missionario ha raccontato di come alcuni locali, saputa della sua imminente
trasferta riminese, si sono offerti per lucidargli le scarpe, in segno di
premura e di affetto. C’è infatti molta gratitudine in Centrafrica, per questi
missionari arrivati dall’Europa, che hanno trasformato il loro convento in un
campo profughi, e che non sono fuggiti nemmeno nei momenti più neri della
guerra civile.
Dopo
la visita di papa Francesco, che lo scorso 29 novembre ha aperto la prima Porta
Santa a Bangui, facendone la “capitale spirituale” del mondo, tuttavia,
qualcosa sta cambiando in meglio. I segni di questa speranza sono stati
raccontati a ZENIT da padre Trinchero, a seguito della sua relazione di
domenica scorsa.
Padre Federico, quanto è stata importante la visita del Santo
Padre dello scorso novembre? Che cambiamenti ha prodotto?
Per
un disegno della provvidenza, mi sono trovato a Bangui nei due momenti più
importanti della sua storia. Parlo innanzitutto della più sanguinosa guerra che
abbia mai coinvolto il Centrafrica: nonostante in passato non siano mancati
colpi di stato e conflitti, mai il livello di violenza era stato così alto. In
positivo, abbiamo avuto la visita del Papa, avvenuta proprio nel mezzo di
questa guerra. La venuta del Santo Padre sembra aver davvero avviato un cammino
di pace. Non si può dire che la guerra sia finita ma di certo non si spara più
come prima.
Quali sono state le parole del Santo Padre che, a suo avviso,
hanno più colpito il cuore dei centrafricani?
Sicuramente
quando ha detto che Bangui diventava “la capitale spirituale del mondo”. Una
frase che, indubbiamente, ci ha sorpreso e che, tuttora, forse non comprendiamo
cosa significhi veramente. I centrafricani sono stati colpiti, probabilmente,
non tanto dall’aggettivo “spirituale”,
quanto dal sostantivo “capitale”:
una volta tanto si sono sentiti come quegli “ultimi” che, evangelicamente,
diventano i “primi”. Abituati ad occupare gli ultimi posti, il Papa ci ha messo
sul podio. Non dico che dobbiamo insegnare qualcosa agli altri – questo sarebbe
orgoglio – però, adesso, abbiamo forse qualcosa da dire al mondo e questo non
ce lo aspettavamo. “Spirituale”
è quello che dobbiamo fare: è un impegno che il Papa ci ha dato e cosa
realmente significa, lo vedremo nei prossimi anni.
Quali sono le caratteristiche umane più spiccate del popolo
centrafricano?
È
un popolo che, anno dopo anno, sto conoscendo e sto amando sempre di più.
Questa convivenza quotidiana con loro, mi ha permesso di conoscerne meglio i
difetti e di apprezzarne di più le virtù. Un loro pregio è quello di sorridere
nella sofferenza. Molti italiani cui ho mostrato le foto del campo profughi mi
hanno detto: “hanno perso tutto ma si vede che sono felici”. Sono capaci di
sopportare molto, di sorridere nella sofferenza, di vedere sempre il lato
positivo di ogni cosa e di non disperarsi. All’apparenza possono sembrare
passivi e poco dinamici ma, di fatto, si impegnano sempre e danno il meglio di
sé.
Quanto sono recettivi i centrafricani nei confronti del
messaggio cristiano?
Dal
punto di vista della fede, troviamo tutti i difetti e i pregi di una chiesa
giovane. C’è molto entusiasmo, le chiese sono strapiene, i movimenti
frequentatissimi, i giovani partecipano alla vita della Chiesa e sono molto
disponibili. Mentre qui in Europa, i preti non sanno cosa inventarsi per
attirare i giovani, in Centrafrica, talora, nemmeno pubblicizziamo le nostre
iniziative, per paura che ne vengano troppi! Per loro Dio non è un problema,
non è – come io dico spesso – qualcosa di cui si discute ma Qualcuno
con cui si discute. È come se Dio, per loro, facesse parte degli
amici di famiglia.
I
problemi nascono, invece, nella conversione dalle credenze legate alla
stregoneria e riguardo a come il Vangelo possa veramente diventare vita e
cambiare il comportamento morale. In particolare per ciò che riguarda la
famiglia e il matrimonio, c’è ancora molto cammino da fare. Mi riferisco in
particolare alla paura del matrimonio sacramentale da parte delle coppie
giovani. Le nozze in chiesa, purtroppo, le celebrano ancora in pochi e lo fanno
per lo più coppie mature che hanno vissuto per tanti anni nel concubinaggio e
hanno già parecchi figli. Un altro ostacolo è quello della dote. C’è anche
molto disordine sessuale, promiscuità, vagabondaggio, persone che hanno figli
da diverse relazioni, bambini che crescono senza la figura del padre. Le
famiglie veramente unite sono rare.
Come è lo stato della convivenza interreligiosa in Centrafrica?
Prima
della guerra, il Centrafrica era un esempio di buone relazioni islamo-cristiane.
Le cifre ufficiali – che a mio avviso sarebbero da rivedere – parlano di un 25%
di cattolici e un 25% di protestanti, pertanto la metà dei centrafricani
sarebbero cristiani. C’è poi un 15% di musulmani, mentre il resto della
popolazione è animista. I musulmani sono diminuiti (molti sono fuggiti), mentre
i cattolici credo che siano un po’ di più. Purtroppo questa guerra, iniziata
per motivi di interesse economico, è sfociata in un conflitto interreligioso,
che poi è degenerato. Inizialmente i musulmani hanno vessato i cristiani, poi
questi ultimi, attraverso il movimento Antibalaka, si sono vendicati: prima i
musulmani hanno distrutto le chiese, poi i cristiani hanno distrutto le
moschee. Ci vorranno anni per tornare come prima, sebbene qualche segnale di
miglioramento si stia registrando. È probabile che, da tempo, fosse latente un
sentimento di frustrazione da parte dei cristiani che, nelle attività
commerciali, sono spesso i servitori del musulmani, titolari della maggior
parte dei negozi. Pur essendo maggioranza, pativano questa situazione di
sudditanza.
Quali sono gli episodi più belli che ha vissuto a Bangui
dall’inizio della sua missione?
Come
raccontavo prima, i rapporti tra cristiani e musulmani stanno lentamente
tornando alla normalità e io l’ho riscontrato in una recente esperienza
personale. Poco tempo fa stavo trasportando delle sedie in macchina, con
l’aiuto di un musulmano. Era il primo musulmano con cui parlavo dopo due anni
di guerra. Durante il tragitto ho sbagliato strada e ho imboccato un senso
vietato. Il vigile voleva multarmi ma l’amico musulmano si è opposto, perché –
ha argomentato – ero un “ministro di Dio”. Quella contravvenzione onestamente
l’avrei pagata ma lui è riuscito ad impedirlo: è un gesto che ho molto
apprezzato.
Lo
scorso Natale, poi, abbiamo assistito ad un vero e proprio miracolo. Avremmo
tanto voluto fare un regalo ai nostri bambini del campo profughi ma erano ben
500 e la cosa non sembrava proprio possibile. Senonché, il pomeriggio del 24
dicembre sono giunte al Carmelo due macchine di grossa cilindrata, da cui sono
scesi dei signori ben vestiti, scaricando degli scatoloni, con 1600 regali e
giocattoli per i nostri bambini. Sono poi spariti e non sappiamo da dove
venissero e chi fossero, né li abbiamo più rivisti. La Provvidenza, quindi, ci
ha ascoltato: a noi che desideravamo fare questo regalo, ci ha mandato dei suoi
“ministri” e noi, in poche ore, abbiamo potuto distribuire i regali ai bambini
di tutto il campo profughi.
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