AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

lunedì 30 settembre 2024

CICLO SULLA BEATIFICAZIONE DI SR. ANNA DI GESU' - Lirica e foto di Padre NICOLA GALENO OCD


Ciclo sulla Beatificazione di Sr. Anna di Gesù

(Medina del Campo 1545-Bruxelles 1621)


FIORI PER LA BEATIFICAZIONE 131.703


Cara Sorella, seppur con un filo

di voce predicai su te stamani

alle Sacramentine. Non mi stanco

d’ammirare la somma tua pazienza:

ben oltre quattro secoli attendesti

il semaforo verde della Chiesa

per essere Beata proclamata.

Sa consolarsi il frate barboncello.

Un millennio per lui occorrerà,

ma certo d’un primato può fregiarsi:

fotografò dei fiori, che poi seppe

cesellare con vera maestria

per decorare quell’altare belga,

testimone di tanta santità!

(Legnano 26-9-2024), Padre Nicola Galeno












LA MONACA BEATIFICATA DAL PAPA CHE AIUTO' SANTA TERESA D'AVILA A RIFORMARE IL CARMELO: ANNA DI GESU'

 

La monaca beatificata dal Papa che aiutò santa Teresa d’Avila a riformare il Carmelo: ANNA DI GESU'

Questa mattina, nella Messa allo stadio “Re Baldovino” di Bruxelles, Francesco ha elevato agli altari Anna di Gesù, religiosa vissuta nel Seicento. Il ritratto della religiosa nelle parole del postulatore.
di Marco Chiesa*
Stretta collaboratrice di santa Teresa di Gesù, che aiutò a riformare l’ordine Carmelitano e di cui raccolse gli scritti, conobbe anche san Giovanni della Croce, il quale le dedicò una delle sue opere più note. Bastano queste poche note biografiche per comprendere l’importanza della figura della monaca Anna di Gesù (al secolo Anna de Lobera y Torres), che Papa Francesco ha proclamato beata questa mattina, 29 settembre, durante la Messa allo stadio “Re Baldovino” di Bruxelles, prima lasciare Belgio.
Nella capitale belga era infatti morta all’età di 76 anni il 4 marzo 1621 ed è tuttora sepolta.
Nata il 25 novembre 1545 a Medina del Campo, in Spagna, nel 1570 entrò tra le Carmelitane scalze nel monastero di San José di Ávila e svolse l’anno di noviziato avendo come maestra santa Teresa di Gesù, con la quale, dopo tre mesi, si trasferì nella nuova fondazione della comunità di Salamanca.
Nel 1570 conobbe anche san Giovanni della Croce, che le dedicò il commento al Cantico Spirituale.
Il 22 ottobre 1571 la giovane emise la professione religiosa e fu incaricata della formazione delle novizie. Nel 1575 fu nominata superiora della nuova comunità di Beas de Segura in Andalusia. 
Nel 1582 santa Teresa la incaricò di fondare un monastero a Granada e, quattro anni dopo, ella diede inizio a un altro monastero a Madrid, dove dovette far fronte alle prime difficoltà per difendere le Costituzioni di Alcalà, (1581), contestate da alcuni. In tale clima polemico Anna fece ricorso a Papa Sisto v, che la sostenne approvando le Costituzioni teresiane. Subentrarono, però, ulteriori complicazioni e, poiché il suddetto ricorso alla Santa Sede fu considerato un atto di imprudenza e di disobbedienza, Anna venne punita per tre anni, cosa che accettò con umiltà e obbedienza eroiche.
Quindi, allo scadere del tempo fissato per la penitenza, nel 1594 fu trasferita a Salamanca, dove fu eletta priora. Nel 1604, guidata da Pietro Bérulle, con la beata Anna di san Bartolomeo e altre quattro monache, passò in Francia, dove fondò i monasteri di Parigi (1604), Pontoise e Dijon (1605). Alcuni dissensi col Bérulle, che sembrava dare al Carmelo francese un’impronta non corrispondente all’ideale di santa Teresa, e il desiderio di essere diretta dai Carmelitani scalzi spinsero Anna ad accettare l’invito degli arciduchi del Belgio e a trasferirsi nelle Fiandre, dove fondò i monasteri di Bruxelles, Lovanio e Mons (1607).
Già all’età di sedici anni ella aveva promesso di «entrare nella comunità più austera che esistesse e di ricercare continuamente la volontà di Dio». Il suo direttore spirituale le fece incontrare santa Teresa d’Ávila, con la quale collaborò molto e della quale si impegnò a raccogliere gli scritti. Nella vita e specialmente nelle difficoltà, Anna non si lamentava mai, anzi era sempre di sostegno e di conforto a tutti. Sentiva più vive le tribolazioni degli altri che le proprie e aveva i doni della consolazione, del discernimento e del consiglio. Anima profondamente contemplativa, sapeva trasfondere nell’azione la sua intensa esperienza di fede e il suo straordinario amore verso il Signore Gesù.
Dopo aver governato il monastero di Bruxelles per quattordici anni, durante i quali subì grandi sofferenze interiori e fisiche, vi morì il 4 marzo 1621, lasciando fama di grande santità, comprovata anche da grazie e miracoli. Ciò portò a istruire i Processi ordinari nel 1635 a Malines-Bruxelles, Anversa, Tournai, Cambrai e Douai (Arras), che furono inviati a Roma nell’agosto 1636, ma, in ossequio alle norme di Urbano viii, rimasero chiusi fino al 1680.
La causa fu introdotta a Roma il 2 maggio 1878. Tra quell’anno e il 1898 si svolsero i Processi apostolici e si portarono avanti tutte le altre procedure (super continuatione famae sanctitatis, super scriptis, de non cultu) completando l’iter della Causa. E il 17 maggio 1904 fu concesso il Decretum super validitate processuum; quindi, si poté procedere alla preparazione della Positio Super Virtutibus, stampata nel 1905, ma che per diverse circostanze esterne alla Causa non venne discussa fino al 2014.
Papa Francesco ha riconosciuto l’eroicità delle virtù il 28 novembre 2019 e approvato un miracolo il 14 dicembre 2013, rendendo così possibile la beatificazione, che sarà da lui presieduta. La data della memoria liturgica è il 25 novembre.
*Postulatore generale dell’ordine dei carmelitani scalzi
Aggiornamento 29 settembre - ore 12.10 


sabato 28 settembre 2024

NULLA DI NUOVO SOTTO IL SOLE (E LA PIOGGIA) DEL SAHEL di Padre MAURO ARMANINO

 

Nulla di nuovo sotto il sole (e la pioggia) del Sahel


Così scriveva il saggio tanto tempo fa quando, ancora con onestà, si osservava la condizione umana nella sua drammaticità. Oggi si preferisce piuttosto descriverla come spettacolo. Le vittime, così come i drammi che si ripetono nel Sahel e altrove, confermano che il ‘nuovo’ è già accaduto.  C’è forse qualcosa di cui poter dire ‘ecco finalmente qualcosa di nuovo’... ciò era già stato nel tempo che ci ha preceduto e di cui non si serba alcun ricordo. Vanità delle vanità, scriveva il saggio, tutto è vanità. C’è un tempo per tutto e tutto per un tempo, dice il saggio.  Un tempo per cercare e uno per perdere.
In questo contesto ‘vanità’ va interpretato come sinonimo di soffio, alito, bruma del mattino che svanisce con l’arrivo del sole. Vanità sono le inconsistenze che sono presentate al popolo come necessarie. Come vaghe promesse di un mondo e futuro migliore che, certamente, arriverà domani o comunque a breve. Questione di giorni, anni o generazioni ma che, senza dubbio, accadrà quanto prima. L’arte della guerra continua a trasmettersi e, peggio ancora, quando si prende Dio come ostaggio, si giustifica. C’è un tempo per tutto, dice il saggio. Un tempo per tacere e uno per parlare.
Non c’è nulla di nuovo sotto il sole del Sahel. Così sembra nell’accaparramento, gestione e conservazione del potere politico, economico e religioso. Da elites civili a quelle militari purché il popolo degli umili, cioè il popolo di sabbia, sia escluso, controllato e condotto nella direzione stabilita dagli ‘illuminati’ del momento. Vanità sono le parole che non hanno più nessuna relazione con la verità e diventano il mezzo per imprigionare la realtà nell’ideologia dominante. La menzogna si riproduce grazie alla complicità delle parole vendute al vento. C’è un tempo per tutto, scrive il saggio.
Un tempo per dare la vita e uno per morire. Un tempo per piantare e uno per sradicare. Un tempo per distruggere e uno per costruire. Un tempo per gemere e uno per danzare. Vanità delle vanità, tutto, diceva il saggio, è vanità. I regimi di eccezione, quelli di transizione, le monarchie, le repubbliche e le dittature che preparano la democrazia, per finire nelle mani dei detentori di denaro contante. Anche questa è vanità, direbbe il saggio. C’è un tempo per tutto. Un tempo per essere cittadini e un tempo per vivere come schiavi. Un tempo per strappare e un tempo per unire.
Non c’è nulla di nuovo sotto il sole del Sahel. Passano le stagioni e passano anche i diritti che si pensavano inespugnabili. Il diritto di pensiero, della mobilità, di associazione, di professare convinzioni politiche e religiose, il diritto all’informazione e soprattutto il diritto a una vita decente. Vanità delle vanità, tutto è vanità, immagina il saggio. Perché c’è un tempo per ogni cosa e ogni cosa per un tempo. Un tempo per la guerra e uno per la pace che è quanto il Sahel e il mondo hanno smarrito. Quest’ultima è come un sentiero che, smesso di percorrere, è andato smarrito. Solo coloro che camminano disarmati ne ricordano l’esistenza, la direzione e il segreto.

                Mauro Armanino, Niamey, settembre 2024 




domenica 22 settembre 2024

PADRE LINO MAUPAS francescano




Parma Fratello Ladro Padre Lino


Padre Lino, noto come il Santo di Parma, nasce a Spalato, in Croazia, il 30 agosto 1866. E’ il più giovane di dieci figli. Suo padre, Giovanni, è un nobile raffinato di origini francesi. La mamma, Rosa Marini, è un’attrice abruzzese dal cuore immenso.

Il 30 novembre 1882, Lino entra in convento a Capodistria, come francescano. Il suo corpo è fragile, provato da numerose patologie croniche. Il suo animo è indomito.

Fin da giovane, è insofferente alla disciplina che limita gli slanci del cuore: viene allontanato perché suona il pianoforte fuori orario !! Esce dall’ordine nel 1883. Entra nella Guardia di Finanza.

Lo riammetteranno tra le mura di un monastero nel 1888, stavolta in Toscana.

Veste infine il saio francescano nel 1890, consacrato dal Vescovo di Forlì, Mons. Domenico Svampa.

Dopo una breve permanenza a Casalmaggiore, il 18 giugno 1893, eccolo destinato a Parma, dove rimarrà fino al termine della sua laboriosa, travagliata e coraggiosa esistenza.

Prima diventa cappellano della Chiesa dell’Annunziata, nella zona povera dell’Oltre Torrente, poi del Riformatorio Lambruschini e, infine, dal 1900, si occupa degli ultimi nel carcere di San Francesco Del Prato. Non ha mai goduto di buona salute, ma la sua energia sembra comunque inesauribile.

Fuma volentieri i mozziconi dei sigari. Si dedica soprattutto ad assistere i meno abbienti, i diseredati, i detenuti e le loro famiglie. I superiori e i confratelli lo ritengono scomodo e lui finisce per stabilirsi in prigione, tra i suoi assistiti.

Frequenta i quartieri più malfamati, le catapecchie infette e fatiscenti, le taverne.

Quando gli viene affidato un neonato orfano, preferisce portarlo in una casa di tolleranza perché se ne occupino le lucciole, piuttosto che saperlo in mano a bigotte pedanti.

Padre Lino è un anticonformista, un ribelle, uno spirito libero. Che non esita a rubare una stufa ( e non soltanto quella !!) per farne dono ai derelitti. Saccheggia anche la dispensa del convento pur di sfamare qualche infelice.

 Porta con sé nei tuguri dove il dolore si respira medicine, pane, coperte. Risorse ottenute nei modi più rocamboleschi.

Non era nato a Parma, ma forse nessuno come lui ha saputo addentrarsi nell’anima e nel cuore dei parmigiani.

Durante scioperi e proteste, si presenta sulle barricate per evitare che si verifichino fatti sanguinosi. Durante gli scioperi agricoli del 1908, quando divampano i dissapori tra scioperanti e “crumiri”, vengono arrestati cento sindacalisti. Ne restano dietro le sbarre una sessantina. Padre Lino non esita a testimoniare in loro favore, determinandone la liberazione.



“E’ il Resto del Carlino a pubblicare per primo una lettera di padre Lino all’anarchico Domenico Zavattero; lettera che viene ripresa dall’edizione lucchese della testata L’Internazionale:«Padre Lino Maupas , cappellano delle carceri di Parma, ha scritto all’anarchico Zavattero, uno degli accusati del processone, una lettera nella quale ha detto: «Sono lieto che si avvicini il giorno in cui, chiamato a deporre nel processo loro, potrò portarvi una parola di difesa ed a conforto loro, e se, come qui a Parma quasi tutti si spera, avranno termine le sofferenze di tanti cari amici che con piacere imparai a conoscere ed apprezzare, sarà con sommo piacere che gli(!)accompagnerò alle loro dilette famiglie»”.

Il Santo di Parma muore improvvisamente, a 57 anni, il 14 maggio 1924, davanti al pastificio Barilla, dove si era recato per ottenere l'assunzione di un giovane bisognoso. Nelle sue tasche poche briciole. I suoi piedi esausti calzano sandali ormai consumati.

Saranno gli ergastolani che gli vogliono bene a costruirgli la bara. Trentamila parmigiani seguono commossi il suo feretro.

Il processo di beatificazione viene avviato dalla Curia Vescovile di Parma, nel luglio 1942.



Sarà dichiarato venerabile dalla Chiesa Cattolica il 26 marzo 1999. Attendiamo che venga santificato a tutti gli effetti.

Riposa nel cimitero della Villetta a Parma, accanto all'ingresso principale. Vicino al sarcofago in marmo, sempre coperto da fiori, è presente una statua che lo raffigura.



La "Mensa Padre Lino" di via Imbriani a fianco della chiesa dell'Annunziata, che offre pasti alle persone bisognose, reca il suo nome. È gestita dai frati francescani dell'Annunziata e collegata alla Caritas di Parma.






Mi spiace non essere stata informata prima di questo musical dedicato al "Ladro di Dio! Padre Lino Maupas. Ringrazio Edi Morini per avermi fatto conoscere  questo grande personaggio.

Danila Oppio






sabato 21 settembre 2024

DOV'È IL DOLORE, LÀ IL SUOLO È SACRO di Padre MAURO ARMANINO


Dov’è il dolore, là il suolo è sacro

Per il dolore è come per l’ingiustizia. Non ci si dovrebbe mai abituare alla loro pervasiva presenza. Molto spesso il dolore è una conseguenza dell’ingiustizia. Entrambi sono a loro modo una rivelazione. Il dolore è una delle risposte, quella forse più immediata e drammatica, alla separazione tra la realtà e l’anelito alla pienezza di vita. Rivela un disagio, spesso incomunicabile, con se stessi, gli altri e il mondo. L’ingiustizia si esprime come un tradimento perpetrato alla persona che viene privata del primo e fondamentale diritto che è il riconoscimento della sua inalienabile dignità umana.

‘Dov’è il dolore, là il suolo è sacro’, scrisse il drammaturgo e poeta di origine irlandese Oscar Wilde. Il Sahel è dunque un luogo sacro e come tale andrebbe accolto e rispettato. Il suolo di cui parla il poeta non è solo quello geologico o geopolitico. Il primo suolo sacro è costituito dalle persone, i corpi, le speranze e l’immaginario che caratterizzano ogni umana avventura. Il dolore che non trova parole per raccontarsi perché indicibile e prezioso come un pianto di madre. Il dolore che sembra arrivare ancora prima di nascere al mondo. Il dolore dei poveri che lo trasmettono, in silenzio, da padre a figlio.

Il dolore della morte per la fame che, secondo l’Ufficio di coordinazione delle azioni umanitarie, mette a rischio la vita di 33 milioni di persone nel Sahel. Questa carestia è la conseguenza di crisi che, come il deterioramento della sicurezza, l’instabilità e il clima, minacciano i mezzi di sussistenza delle famiglie. La violenza dei conflitti armati obbliga milioni di persone a fuggire dalle case e dalle terre per cercare un futuro precario altrove. Una vita passata scappando da un luogo all’altro e da una guerra alla seguente. Sembra difficile trovare un dolore che somigli a quello raccontato dagli scampati.

Perché il dolore è una maledizione, un mistero, un silenzio, parole che non bastano, un miracolo non accaduto e un grido inascoltato. C’è un dolore collettivo che non è la somma dei dolori individuali e che neppure i libri di storia riescono ad evidenziare. Il dolore lo si porta dentro come fanno i padri che la vita ha reso curvi e fieri per non aver pianto davanti ai figli. C’è il dolore del parto e quello che sembra del tutto irriverente e sterile. Il dolore tace perché difficilmente trova una riva dove approdare con la sicurezza di essere compreso. Come quello dei bambini che pochi sanno decifrare. 

Il loro dolore, quello dei bambini, non ha ancora trovato un lessico capace di trasmetterlo alle generazioni che verranno. I bambini presi come ostaggi per farne mendicanti sulle strade delle città e per impietosire i distratti consumatori di beni. Obbligati a lavorare nei cunicoli scavati in terra in cerca di minerali preziosi per l’industria e il commercio dei grandi. Il dolore dei bambini strappati troppo in fretta dall’abbraccio delle madri e dal futuro che i consigli del padre non potrà più ascoltare. Un recente rapporto sul Sahel rivela che i bimbi costretti a fuggire da casa sono circa 1, 8 milioni. 

Il dolore del tradimento sofferto o perpetrato non ha ancora trovato un’unità di misura per stimarlo. Le conseguenze di scelte politiche funzionali alle ideologie dominanti aggiungono dolore ai poveri che il sistema di dominazione ha reso inutile periferia. Il dolore dei giovani a cui vengono espropriati, venduti e manipolati i sogni di un futuro possibile. L’accanimento globale contro i migranti che ne sono una delle espressioni più libere e pure, genera rivoli di dolore che, come fiumi sotterranei, prepara sorgenti nel deserto. Nessun dolore andrà perduto perché scritto sulla palma della mano, sacra, di una madre.

      Mauro Armanino, Niamey, Settembre 2024


lunedì 16 settembre 2024

LE PAROLE E LE COSE NEL SAHEL: ISTRUZIONI PER L'USO di P. MAURO ARMANINO

        Le parole e le cose nel Sahel: istruzioni per l’uso 

...La risposta che Confucio (VI sec. a.C.) diede a un suo discepolo che gli chiedeva: «Maestro, che cosa faresti per prima cosa, se fossi capo dello stato?» «La prima cosa che farei – rispose Confucio – sarebbe quella di raddrizzare i nomi.»

Le parole sono le strade che percorriamo ogni giorno per arrivare agli altri, a noi stessi e alla realtà. Le parole sono semi che il vento trasporta e che, talvolta misteriosamente, danno frutti insospettati. Le parole sono sassi che feriscono o dei fili spinati che dividono come frontiere armate. Le parole tradiscono la vita oppure sono come sorgenti a cui abbeverarsi per continuare a sperare il futuro. Le parole ci fanno e noi facciamo le parole. C’è chi le custodisce gelosamente e chi le butta come orpelli senza importanza. Le parole indicano la direzione del cammino e, spesso, le scelte che si compiono. Tra parole, pensiero e azione c’è una sorprendente complicità. Nessuna parola, si sa, è innocente.

               La perversione della città inizia con la frode delle parole

La citazione è attribuita al noto filosofo greco Platone e trasmette un messaggio difficile a contestare. Chi ha il potere sulla scelta e sul senso delle parole ha anche il potere sulla definizione della realtà. Ci fu un tempo nel quale, nel Sahel, per definire chi cercava altrove fortuna si parlava di ‘esodanti e avventurieri’. Arrivò poi la parola migrante che si tramutò in clandestino e l’illegalità sfociò nell’irregolarità per toccare, infine, la criminalità. La trasformazione delle parole e la padronanza del senso che esse contengono, hanno comportato un cambiamento di visione della realtà migrante. 

Sono passati pochi anni e il dizionario sociopolitico del nostro spazio nigerino è stato attraversato da parole, concetti e orientamenti che l’hanno marcato. L’indipendenza, la Costituzione, le Conferenze Nazionali Sovrane, le elezioni e i mandati presidenziali. Il rinascimento, l’africanizzazione dei quadri, lo sviluppo endogeno, il partenariato vincente, la democrazia e la crescita compatibile. Il potere per servirsi del popolo, il pluralismo e la transumanza dei partiti mentre i Nigerini nutrono i Nigerini. Queste ed altre parole hanno segnato la vita sociale del nostro Paese negli ultimi decenni. I reiterati ‘colpi di stato’ ne hanno rivelato e insieme nascosto l’importanza e la drammaticità. In fondo la politica non è che il tentativo di tradurre o tradire, le parole portatrici di progetti sociali di chi detiene il potere in quel momento.

Grazie alla “presa di potere” del Partito, è passata da lingua di un gruppo sociale a lingua di un popolo.  Si è impadronita di tutti gli ambiti della vita privata e pubblica: la politica, la giurisprudenza, l'economia, la scienza, la scuola, lo sport, lo sport, gli asili e le camere da letto. (Victor Klemperer, L.T.I).

L’autore citato, filologo di formazione, ha scritto il suo diario durante la dittatura nazista in Germania. Lui, ebreo e dunque perseguitato, ha conservato la lucidità necessaria per sopravvivere grazie anche alla sua ‘decostruzione’del linguaggio dittatoriale del regime al potere. Si tratta di una lezione da imparare a memoria in tutte le circostanze e sotto tutti i regimi, compreso quello di eccezione attuale. L’attenzione alle parole e al loro uso dovrebbe costituire il primo compito degli intellettuali che meritano questo titolo. Essi e i comuni cittadini non dovrebbero delegare a nessuno il dovere di prendere sul serio le parole e usarle con circospezione, sapendone l’impatto sulla realtà quotidiana. 

La patria e la sua salvaguardia, la sovranità politica, economica, alimentare, culturale e umanitaria, il nazionalismo, il ritorno alla radici, la dignità, la sacralità delle frontiere e la sicurezza sono parte del nuovo lessico politico. Sappiamo quanto le parole elencate ed altre simili, possano contenere elementi di verità e possibilità di derive e divisioni con chi potrebbe dare loro contenuti diversi. 

Il rischio è quello evidenziato, tra gli altri, da Philippe Breton, politologo, ... Il discorso manipolato è una forma di violenza: in primo luogo contro la persona a cui è diretto e in secondo luogo contro il discorso stesso, che è il pilastro centrale della nostra democrazia

 Mauro Armanino, Niamey, settembre 2024

Ndr: aggiungo una breve ricerca giusto per far conoscere chi era Victor Klemperer 


Victor Klemperer. Filologo Tedesco (Landsberg an der Warthe 1881 - Dresda 1960). Ebreo, convertito al protestantesimo nel 1912, è stato soldato nell’esercito tedesco durante la Prima guerra mondiale. Esperto di letteratura francese, laureato con una tesi su Montesquieu, allievo di K. Vossler e collega di E. Auerbach, dal 1920 è stato professore di Filologia all'Università di Dresda. Nel 1935 dopo l’emanazione delle leggi razziali naziste è stato costretto a lasciare la cattedra. Obbligato a trasferirsi in una Judenhaus ("casa degli ebrei") e a lavorare in fabbrica con la stella gialla cucita sul petto, è scampato ai campi di concentramento solo perché la moglie non era ebrea. K. è noto per aver scritto LTI - Notizbuch eines Philologen, dove LTI sta per Lingua Tertii Imperii, pubblicato nel 1947 (trad. it. LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, 1998), una sorta di diario personale in cui ha annotato dal 1933 al 1945 le manipolazioni compiute sulla lingua tedesca da parte del nazionalsocialismo. La creazione di una nuova lingua, con l’utilizzo ad esempio di parole composte (soprattutto con Volk, "popolo") e dei simboli runici antichi che richiamavano alla Germani antica, serviva alla propaganda nazista a creare anche un nuovo pensiero asservito all’ideologia al fine di manipolare le masse. K. annotava tutti i dettagli non solo le parole, ma anche i gesti e i rumori della vita quotidiana, come per salvarla dalla tragedia storica e, nel contempo, per dare testimonianza di come dai minimi cambiamenti della vita si possa arrivare alla catastrofe.

lunedì 9 settembre 2024

IL FUORIGIOCO DI MOUSSA di Padre MAURO ARMANINO

 



                            Il fuorigioco di Moussa

Parte di nascosto dalla famiglia nel 2022. Sono quattro sorelle e tre fratelli coi genitori sorpresi dalla sua telefonata dalla capitale del Camerun, Yaoundé. Moussa si presenta di professione calciatore e gioca in difesa. Originario del Gabon che per molto tempo ha galleggiato sul petrolio attirando migliaia di lavoratori migranti, Moussa è convinto che il suo futuro sarà in una squadra di calcio d’Europa. Passa la Nigeria e attraversa il Niger per raggiungere l’Algeria. Trova lavoro come imbianchino nella capitale e riesce a mettere da parte i soldi sufficienti per completare il suo viaggio nella città di Sfax, in Tunisia. 
Lavorando come può in città si può permettere di pagare i 700 euro che il passeur gli ha chiesto per il transito in Italia. Siamo a inizio settembre dell’anno scorso. Profittando della notte, Moussa e una ventina di passeggeri con nove donne e alcuni bambini, si imbarcano su una zattera di ferro. Non sono lontani da riva quando una pattuglia della guardia costiera tunisina li intercetta e li riporta sul continente che avrebbero voluto lasciare per sempre dietro di sè. Moussa e gli altri compagni di vaggio passano due mesi in prigione a Sfax. Con altre centinaia di migranti e rifugiati sono trasportati in bus nel deserto alla frontiera con l’Algeria e ivi abbandonati al loro destino.
Raccolti in un centro di raccolta e detenzione nella città di Tamanrasset sono poi caricati su camion come animali o mercanzia da vendere e abbandonati nell’ultima città frontaliera dell’Algeria col Niger, chiamata In Guezzam. La notte raggiungono il confine col Niger camminando nel deserto e osservando le luci lontane del villaggio di Assamka, provvisorio asilo per miglia di migranti espulsi e deportati. Passata la città di Arlit, Moussa, coi pochi soldi nascosti alle rapine dei militari, raggiunge Tahoua e, infine, Niamey. Alloggiato per un paio di settimane nella stazione del bus che l’ha trasportato alla capitale del Paese, è in cerca di cibo e alloggio. Cerca un lavoro qualsiasi che gli permetta di raggiungere l’ambasciata più vicina onde tornare al Paese natale. Suo padre si chiama Ibrahim e sua madre Fatima. Moussa, Mosè, non ha attraversato il Mare, perché ha saputo dopo di trovarsi in fuori gioco.
                                                                             
Mauro Armanino, Niamey, settembre 2024

BENVENUTO|

Il Paradiso non può attendere: dobbiamo già cercare il nostro Cielo qui sulla terra! Questo blog tratterà di argomenti spirituali e testimonianze, con uno sguardo rivolto al Carmelo ed ai suoi Santi