AFORISMA

Meglio aggiungere vita ai giorni, che non giorni alla vita
(Rita Levi Montalcini)

Nostra Signora del Carmelo

Nostra Signora del Carmelo
colei che ci ha donato lo scapolare

sabato 29 giugno 2024

Ciclo sul pellegrinaggio al Santuario di Oropa (BI) foto di Padre Nicola Galeno OCD











Ringrazio Padre Carmelitano NICOLA  GALENO OCD per lo splendido ciclo 
relativo al Santuario d'Oropa e per il gesto amichevole di aver pregato per me la Madonna per una per la mia guarigione.
 


 

lunedì 24 giugno 2024

SOLO DIO È LA MIA CASA di Padre MAURO ARMANINO

 


Solo Dio è la mia casa


Lo affermava Joy senza esitazione stamane. Originaria di Benin City, nello stato di Edo, nella Nigeria da cui è partita con il figlio minore nel 2022. Menziona problemi legati alla famiglia e fa allusione pure a morti rituali che l’hanno impaurita e fatta fuggire in Egitto. Passa dal Camerun e, dopo aver attraversato il Ciad e il Sudan, raggiunge la capitale dell’Egitto, Il Cairo. Suo figlio Emanuele ha 17 anni e si separa dalla madre per andare a vivere con alcuni coetanei in un’altra città. Joy trova lavoro come domestica per oltre un anno. Frequenta la chiesa presbiteriana di St John nella capitale dove si sente accolta e rispettata dalla comunità parrocchiale e dal clero straniero. Sente un’attrazione divina del monte Sinai e vorrebbe raggiungerlo per poi stabilirsi in Israele. È fermata prima di raggiungere la meta per mancanza di documenti di viaggio idonei ed è riportata al Cairo dove sarà detenuta per tre mesi in una prigione della capitale.
Terminata la pena è deportata a Lagos in Nigeria con un volo speciale assieme ad altri connazionali. Non torna nella sua città di origine perché è convinta che il suo futuro si farà altrove, lontano dall’Africa che ha smesso di sentire come la sua terra. Solo Dio è la mia casa, dice Joy come parlando a se stessa e guardando lontano. Parte di nuovo per raggiungere un parente che, secondo lei, avrebbe fatto fortuna a Niamey, la capitale del Niger. Naturalmente in città del parente non c’è traccia alcuna e inutili sono stati i tentativi di rintracciarlo tra i membri della folta comunità nigeriana Ibo che si assicura un ruolo di rilevo nel mercato locale. Joy afferma che il denaro è il suo schiavo e non il suo padrone. Ha osservato come varie nigeriane commerciavano il loro corpo in Egitto mentre altri mendicavano sulle strade, senza vergognarsi. Da quando si trova a Niamey, un paio di settimane, non cerca soldi ma un luogo di ristoro sicuro per passare la notte. 
Joy si chiama anche Glory ed è originaria di Benin City, luogo assai noto in Nigeria e in Italia a causa dell’emigrazione femminile che molto spesso assume i connotati della tratta con scopo di prostituzione. Non vuole continuare a vivere in Africa e crede che il suo destino sia quello di abbandonare un continente che per lei è alla deriva. Nel frattempo, domanda aiuto per tornare in Nigeria per mettere assieme il denaro sufficiente per il viaggio e l’eventuale visto per un Paese che ancora non sa. Andrà via dall’Africa. ripete ad alta voce congedandosi. Promette di tornare domattina perché Dio è la sua casa.


                              Mauro Armanino, Niamey, giugno 2024

martedì 18 giugno 2024

CHI E' QUEST'UOMO? LEV TOLSTOJ

 




Quest'uomo non è povero, 
mendicante o senzatetto, 
Quest'uomo è:
un gigante della letteratura mondiale "Lev Tolstoj"
Tolstoj era un nobile Russo
che possedeva immense terre e grandi fortune. 
Tolstoj diede tutte le sue ricchezze ai poveri e ai senzatetto. 
Visse una vita di ascetismo.
Tra i suoi detti più famosi ci sono:
"Non parlatemi della vostra religione, 
ma fatemi vedere la religione nelle vostre azioni “

Ancora: 

"Se senti dolore, 
...sei vivo, 
ma se senti il dolore degli altri, 
...sei umano. "

lunedì 17 giugno 2024

33 ANNI DI SOLITUDINE PER IL "CAMARA EMMANUEL - di Padre MAURO ARMANINO

                       

Non  ho una foto di Emanuel, ma penso che per P. Mauro tutti coloro che vivono una storia analoga, si trovino nella stessa condizione. Questa immagine l'ho presa da una delle tante che P. Armanino mi ha inviato. Qui penso che stia dialogando con chi deve pensare al bene degli africani, da qualsiasi  Paese arrivino.         33 anni di solitudine per il ‘Camara’ Emmanuel 

Parte all’età di 17 anni dalla sua nativa contea, Maryland, in Liberia. Siamo nel 2008 e ci troviamo nel primo mandato di Ellen Johnson Sirleaf, prima donna presidente del Paese insanguinato e diviso da anni di guerra civile. Emanuel lascia la città portuaria di Harpour, chiamata anche Cape Palmas, per passare nell’adiacente Costa d’Avorio e stabilirsi a Tabou, città rifugio per migliaia di liberiani. Dopo un paio d’anni si trova a Nzérékoré, Guinea tra le altre migliaia di rifugiati e sopravvive come agente informale di cambiavalute grazie a un fratello maggiore.  Amici e la navigazione sul net lo fanno migrare in Algeria nel 2012.

Ciò che cerca è l’attraversamento del mare Mediterraneo che si pone come spartiacque tra i due continenti, uno dei quali Emanuel vorrebbe abbandonare al suo destino. In Algeria guadagna quanto basta per tentare la traversata del mare e passa in Marocco. Per tre volte tenta di lasciarsi alle spalle il continente africano e per tre volte la guardia costiera marocchina riporta i natanti a riva. Per i primi due viaggi ha speso 500 euro mentre per l’ultimo ne ha sborsati, inutilmente, il doppio. Faceva la spola tra i due Paesi, il Marocco e l’Algeria, dove lavorava da manovale e guadagnava abbastanza per pagarsi i viaggi.

Siamo ormai nel 2022. La vita di Emanuel sembra tornata normale e per un anno si ristabilisce ad Algeri.  Per strada, come gli altri africani neri, spesso è chiamato ‘Camara’ (compagno) o ‘dog’(cane). Entrato in un negozio per comprare di che nutrirsi, è stato fermato da un poliziotto. L’hanno arrestato, derubato e infine deportato fino a Tamanrasset. Ivi ha convissuto nel centro di detenzione con altre centinaia di migranti, rifugiati o richiedenti asilo. Dopo qualche settimana, sono stati imbarcati e poi buttati nel deserto presso la frontiera col Niger. Una settimana ad Assamaka, cittadina migrante inventata dal nulla, e dopo ad Agadez.

Passa qualche mese nello snodo delle migrazioni dell’Africa occidentale e centrale, per raggiungere, con mezzi di fortuna, la capitale Niamey. Abita, da un paio di settimane, con decine di migranti come lui, non lontano dall’attuale palazzo adibito come Ministero della Giustizia che non c’è. Emmanuel custodisce 33 anni di solitudine e spera di attraversare il mare per un’ultima volta.



               Mauro Armanino, Niamey, giugno 2024


C'E' SEMPRE UNA PRIMA VOLTA di Padre MAURO ARMANINO



         C’è sempre una prima volta 

Questo 14 giugno pomeriggio, papa Francesco ha fatto il viaggio a Borgo Egnazia, stazione balneare della Puglia in Italia, per partecipare al vertice del G7, che riunisce le 7 grandi potenze economiche mondiali. Una prima storica poiché nessun papa aveva finora partecipato al G7. (Agenzia vaticana Zenit)

Difficile dire quanto di vangelo c’è in questa presenza e quanto di diplomazia vaticana che, com’è noto, appare tra le più rodate e lungimiranti. Ciò che nondimeno stupisce è anzitutto il fatto stesso che il papa, rappresentante della Chiesa Cattolica, sia stato invitato a questo tipo di vertice che mette assieme alcuni tra i ‘potenti’ della politica e dell’economia del mondo.

L’invito del papa, per motivi che non è poi difficile discernere, è già un segno e un messaggio la cui tragica scelta non potrà non lasciare tracce nel presente e il futuro del papato e della Chiesa stessa. Essere invitati al vertice di alcuni tra i Paesi più ricchi e potenti del globo significa dare sufficienti ‘garanzie’ al sistema perché esso possa perpetuarsi o quantomeno continuare a legittimarsi.

Aver accettato l’invito (o allora la proposta è giunta dal vaticano e accolta dalle diplomazie del vertice), come il papa ha fatto, non è che l’ennesimo e patetico tentativo di accompagnare, da ‘cappellano di corte’, il sistema attuale che, come il capitalismo di cui è l’espressione, è nato e cresciuto senza cuore. Non dovremmo dimenticare che i membri di questo vertice sono corresponsabili o sostenitori della produzione, vendita e uso di armi in zone di guerra. Si tratta dunque di persone che hanno le mani macchiate di sangue.

D’altra parte, sembra tipico di questo insondabile e ambiguo pontificato giocare su tutti i fronti con la stessa spudorata disinvoltura. Incontrare e valorizzare i movimenti sociali. Assumere i poveri come elemento trasformatore del sistema (secondo le lezioni latinoamericane ben assimilate). Proteggere i migranti nella loro ricerca di futuro e parlare di ‘periferie’ dalle quali dovrebbe sgorgare un mondo nuovo e una Chiesa che ascolta.  Questo e molto altro all’ordine del giorno, senza dimenticare le innumerevoli volte nelle quali è stato necessario precisare, rettificare, contraddire quanto affermato il giorno precedente in uno dei tanti discorsi letti o improvvisati.

Allo stesso tempo, lo stesso pontefice (vero ponte tra sponde diverse) accompagna e celebra un’alleanza vaticana col ‘Capitalismo Inclusivo’ che vede tra i suoi membri e promotori i più quotati magnati del capitalismo globalizzato. Con la manipolata crisi del Covid poi, l’attuale papa, ha toccato quanto di peggio ci si sarebbe potuto attendere da un qualunque politico da strapazzo. L’obbligazione per tutto il personale dello Stato Vaticano alla vaccinazione pena il licenziamento in tronco, il fermo invito fatto ai fedeli cristiani di vaccinarsi ‘come gesto d’amore’ e gli incontri più o meno ‘segreti’ col boss dell’industria delle vaccinazioni l’Amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla.


Malgrado i danni occasionati e accertati, l’aumento della mortalità nei Paesi che più hanno somministrato i ‘vaccini’, non è mai sfuggita al papa una sola parola di attenzione per quanti hanno sofferto a causa del suo fermo invito a vaccinarsi e tantomeno la richiesta ufficiale di perdono per essersi sbagliato di bersaglio. Mai ha domandato venia per la mancanza di rispetto dei diritti dei dipendenti che avrebbero potuto scegliere o meno di vaccinarsi in tutta libertà di coscienza come i documenti della Chiesa e della medicina ufficiale sottolineano da tempo.

La parvenza ‘democratica’ di questo papato è poi contraddetta da protagonismi nella vita pubblica quotidiana che si esibisce in modo asfissiante fino a domandarsi se esiste ancora una conferenza episcopale italiana degna di questo nome. Dappertutto e su ogni tema ci si aspetta una parola, un’allusione e soprattutto una conferma. Persino nelle trasmissioni televisive seguite da largo pubblico dove si ha il diritto e il piacere di ascoltare quanto papa Bergoglio afferma, sostiene, propone e soprattutto allude.

E, infine, la partecipazione anche fisica al vertice del G7 che ha annoverato altri invitati di marca, ma non la Russia e la Cina ad esempio. Invitato, accolto e infine assimilato ai potenti, tra coloro che hanno diritto di presenza, ascolto e udienza. Per parlare dell’intelligenza artificiale di cui, sembra, il vaticano ha assunto un ruolo non trascurabile e naturalmente apprezzato. Una Chiesa segno di contraddizione per gli imperi di oggi sembra essere passata di moda. Accomodarsi accanto al potere di turno e allo stesso tempo prendere le difese dei poveri desta sospetto sull’autenticità e sincerità di chi gioca a dare spettacolo per il pubblico.

Al vertice citato nessun povero è stato invitato. In un non lontano passato, ad esempio il G8 di Genova, si presentava come un vanto del summit quello di invitare persone di alcuni Paesi che aiutassero a non dimenticare che c’è anche e soprattutto un altro mondo. Quello a cui spesso il papa allude e che diventa visibile nelle guerre, le migrazioni e le terre rare … da sfruttare per motivi ecologici ben ricordati dall’ultima esortazione, al soldo anch’essa  di una sola versione del mondo.

La presenza del papa tra i ‘grandi’ del sistema addolora, preoccupa e fa vergognare chi pensava che scegliere i poveri e la loro strada non fosse per farsi strada tra i potenti per diventarne il ‘cappellano’ e in definitiva il garante. Si tratta dell’esibizione di un tradimento nell’usare i volti e il silenzio dei poveri per poi accomodarsi alla mensa dei ricchi e dei potenti. 


Padre Armanino, Chou Chou et maman, bellissima foto



Mauro Armanino, Niamey, dalla sabbia e dai poveri del Niger, 15 giugno 2024.

Mauro Armanino, già operaio e sindacalista, è un missionario. Ha vissuto in Costa d’Avorio, Argentina, Liberia. Da tredici anni vive nel Niger per un servizio ai migranti.



giovedì 13 giugno 2024

SANT'ANTONIO DA PADOVA! Ricorre oggi, auguri a tutti coloro che portano il suo nome!!

 



Il periodo trentennale (1190-1220), in cui Fernando di Martino de’ Buglioni visse, in Portogallo, coincide con il periodo a cavallo tra la fine del secolo XII e la prima parte del XIII secolo. È uno spazio di tempo in cui l’intera Europa vive dei profondi cambiamenti sociali e culturali, storici e religiosi, economici e politici. Basti pensare: alla nascita dei Comuni e delle società urbane; alla trasformazione della produzione agricola; allo sviluppo del commercio specialmente via mare; alla nascente borghesia con la costituzione di notai e avvocati, che si aggiungevano alle già presenti classi dei cavalieri, dei nobili e del clero.
In questo periodo, anche l’istituzione della Chiesa vive profondi cambiamenti di rinnovamento spirituale, culturale e artistico. Ne sono un esempio: il richiamo alle origini della fede evangelica; la costruzione di “cattedrali” di gotico stile, attorno alle quali gravitavano le diverse attività sociali; il fenomeno tanto discusso delle crociate, per la conquista dei luoghi Santi; la coincidenza di grandi Papi, come Innocenzo III e Gregorio IX, sia per la difesa del potere della Chiesa e sia per l’attuazione della grande riforma ab imis della cristianità, come mostrano la nascita di ordini sia contemplativi, come i cistercensi, sia apostolici, come i Canonici regolari di Sant’Agostino, e, in particolare, gli Ordini Mendicanti dei domenicani e dei francescani.
 
LA VITA

La tradizione e alcune antiche fonti vogliono che i coniugi Martino de’ Buglioni e Maria Taveira, nella città di Lisbona, il 15 agosto del 1190, diedero alla luce il loro primogenito, cui al fonte battesimale posero nome Fernando. Nome di origine germanica, che etimologicamente significa “audace, coraggioso nella pace”. Della sua infanzia non si conosce nulla di certo. Come data di nascita viene riportata l’anno 1195; tuttavia, per ragioni indirette, ossia per la ratio studiorum del tempo, e per l’età canonica richiesta per ricevere l’ordine sacro, fissata intorno ai 30 anni dal diritto canonico dell’epoca, dev’essere anticipata almeno al 1190. Poiché la residenza della nobile famiglia era nei pressi della cattedrale di Lisbona, è logico pensare che abbia avuto la prima formazione culturale e spirituale dai Canonici della stessa cattedrale; e abbia seguito anche la carriera delle armi, secondo la tradizione della famiglia e della nobiltà del tempo
Difficile precisare l’occasione che abbia orientato il giovane Fernando alla scelta della vita religiosa. Nelle allegre comitive giovanili, si possono trovare compagni predisposti sia alla vita religiosa che a quella delle armi, come anche si possono sperimentare situazioni di mediocrità morale, di superficialità e di corruzione sociale; di facili amori e amorose delusioni. Tutti elementi che hanno potuto orientare Fernando, alla sua maggiore età dei 18 anni, a fare qualche scelta di esperienza personale. Come di fatto, è avvenuto tra i Canonici Regolari di Sant’Agostino, e così entrò nel monastero di San Vincenzo di Fuori, ossia ubicato fuori le mura della sua città nativa.

Tra gli agostiniani
A San Vincenzo di Fuori dimorò per circa due anni, come prova esperienziale della nuova scelta di vita, dedicata alla preghiera, allo studio e al ministero apostolico. Infastidito, però, dalle continue visite degli amici, con i quali più nulla aveva a che spartire, chiese e ottenne di trasferirsi altrove, sempre all’interno dell’Ordine, per completare la sua formazione al sacerdozio. Fernando affrontò così il suo primo grande viaggio, di circa 230 chilometri, quanti separavano Lisbona dal grande convento di Santa Cruz, in Coimbra, allora capitale del Portogallo. Il nuovo ambiente religioso era formato da una numerosa comunità di circa 70 religiosi. Il corso di studi durava almeno 8 anni. E sono stati gli anni più importanti e delicati per la formazione intellettuale e spirituale di Fernando, il quale, poteva fare affidamento non solo su valenti maestri, ma anche su una ricca e aggiornata biblioteca conventuale.
Fernando si dedicò completamente allo studio delle scienze umane, teologiche e bibliche. Impegno che gli servì anche per estraniarsi dalle tante e difficili tensioni, che attraversava la comunità religiosa. Gli anni trascorsi a Coimbra lasciarono una profonda traccia nella sua personalità, che, già per indole, era incline alla solitudine e al silenzio interiore. Per libera scelta, divenne un uomo privo di ambizioni sociali e restio a ogni ostentazione ed esibizione di sé e delle sue doti: diffidente delle polemiche e indifferente alle esteriorità di qualunque tipo. Dagli studi di Coimbra, uscì un uomo maturo ed esperto in ogni campo dello scibile umano e teologico, sostanziato di Bibbia e di tradizione patristica.

Ferdinando sacerdote
A Coimbra, Fernando ricevette l’ordine presbiteriale, che gli fu conferito nella stessa chiesa di Santa Cruz, probabilmente nel 1220, all’età circa 30 anni, secondo le norme ecclesiastiche dell’epoca. Essendo ben versato nelle Sacre Scritture e nella predicazione, gli si prospettava una buona carriera all’interno dell’Ordine. Purtroppo, due avvenimenti contribuirono a scrivere una storia diversa per il neo sacerdote agostiniano don Fernando: le difficoltà interne alla comunità e l’incontro con il francescanesimo.

Difficoltà in comunità

Al re Alfonso I succedette, sul trono del Portogallo, il figlio Sancho I, e, alla sua morte (1211), il nipote Alfonso II. Mentre Alfonso I era un re devoto e rispettoso del potere religioso; i suoi successori, invece, si intromisero nelle decisioni ecclesiastiche a vari livelli decisionali, finanche negli affari interni al monastero di Santa Cruz. Alfonso II nominò, come “priore” del locale convento, un religioso di sua fiducia, indipendentemente dagli effettivi interessi spirituali del monastero, e anche dalla scarsa capacità gestionale del relativo patrimonio. In breve tempo, le sostanze del ricchissimo monastero furono completamente sperperate, a causa di uno stile di vita non sempre coerente con lo stato religioso. A poco a poco, perciò, la comunità monastica finì per spaccarsi in due correnti: da una parte coloro che sostenevano il nuovo priore; e dall’altra coloro che desideravano condurre una vita sobria e dedita alla contemplazione e allo studio. Tra questi ultimi, si schierò anche il giovane don Fernando.

L’incontro con il francescanesimo
Nel 1219 Francesco d’Assisi approntò una spedizione missionaria alla volta del Marocco, con l’intento di convertire i musulmani d’Africa. I membri della spedizione, tre sacerdoti - Berardo, Pietro ed Ottone - e due fratelli laici - Adiuto e Accursio - transitarono anche da Coimbra. Non è certo se Don Fernando abbia conosciuto personalmente il gruppetto di questi francescani approdati in terra lusitana. Certo, ne sentì parlare, e ne subì il fascino. Dapprima, essi si portarono a Siviglia, in Spagna, dove iniziarono a predicare la fede di Cristo nelle moschee. Vennero malmenati, fatti prigionieri e condotti davanti al sultano Miramolino, e, in seguito, trasferiti in Marocco con l’ordine di non predicare più in nome di Cristo. Nonostante questo divieto, essi continuarono a predicare il Vangelo nelle loro moschee, e, per questo, furono di nuovo imprigionati e sottoposti più volte alla fustigazione. Noncuranti del pericolo, sfidarono le autorità religiose del luogo e anche la suscettibilità religiosa del popolo e, ben presto, il 16 gennaio 1220, vennero decapitati e i loro corpi furono barbaramente trucidati ed esposti all’aperto, in pasto agli uccelli. La Provvidenza ha voluto, però, che i loro resti mortali venissero recuperati, custoditi e racchiusi in due cofani d’argento e portati dall’Infante Pedro e dal suo seguito fino a Ceuta, da qui trasportati ad Algesiras, indi a Siviglia e finalmente traslati a Coimbra, dove furono collocati nella stessa chiesa agostiniana di Santa Cruz, nella quale tuttora sono custoditi e venerati. Tutto questo contribuì, da un lato, a porre il movimento francescano al centro dell’attenzione del popolo portoghese e, dall’altro, ad orientare la decisione di don Fernando ad entrare nell’Ordine francescano.

Frate Antonio
Nel settembre 1220, don Fernando lasciò le bianche vesti lanose degli agostiniani, per rivestirsi della grezza tunica di bigello e un cordiglio ai fianchi dei francescani. Per l’occasione, abbandonò anche il nome di battesimo per assumere quello di “Antonio”, in onore dell’eremita egiziano titolare del romitorio di Santo Antonio de Olivares, presso cui vivevano i francescani. Tuttavia, è simpatico ricordare che il cambio del nome in “Antonio”, nel suo etimo etrusco, conserva lo stesso significato di Fernando: “coraggioso, inestimabile che combatte per la pace”. E don Fernando lo sapeva bene!
Dopo un breve periodo di studio della regola francescana, frate Antonio parte alla volta del Marocco. L’itinerario da lui seguito, per via terra e via mare, è sconosciuto. Molto probabilmente, insieme a qualche confratello, sarà arrivato nel territorio del sultano Miramolino, e ospitato in casa di qualche cristiano, ivi residente per ragioni di commercio. Frate Antonio non poté dare corso al suo progetto di predicazione, perché fortemente condizionato da una malattia tropicale, forse, la malaria, provocata certamente da una vita di penitenza e dalle scarse norme d’igiene. Male che lo accompagnerà per tutta la vita. Per recuperare la salute, decise di ritornare in patria, senza però abbandonare l’ideale missionario e neppure il suo tacito desiderio di martirio.
Fu costretto a lasciare il Marocco, per riprendere la via del ritorno. Ma, a causa di una tempesta, la nave venne trascinata sulle coste della Sicilia, nei pressi di Milazzo (Messina). I due Frati furono soccorsi da alcuni pescatori, e portati nel vicino convento francescano della zona. Qui, frate Antonio apprese che, in occasione della Pentecoste, Francesco aveva convocato tutti i suoi frati per il Capitolo Generale, da celebrarsi in Assisi, dal 30 maggio all’8 giugno del 1221. Così, nella primavera del 1221, frate Antonio insieme ai frati di Messina cominciarono a risalire l’Italia a piedi, per raggiungere Assisi.
Frate Antonio era uno sconosciuto fraticello straniero, giovane e senza incarichi di governo, fisicamente provato. La sua convalescenza siciliana durò circa due mesi. Ad Assisi, rimase ugualmente sconosciuto a tutti, perché entrato solo da pochi mesi nell’Ordine; passò i nove giorni dell’adunanza appartato e solingo, immerso nell’osservazione e nella riflessione. Era uno dei tanti, nulla aveva che lo distinguesse. Al momento del commiato non fu preso in considerazione da nessuno dei “ministri”. Quando furono partiti quasi tutti per le rispettive residenze, frate Antonio fu notato da frate Graziano, ministro provinciale della Romagna. Saputo che il giovane frate era anche sacerdote, lo pregò di seguirlo.

Eremita a Montepaolo
In compagnia di fra Graziano da Bagnacavallo e di altri confratelli romagnoli, frate Antonio arrivò a Montepaolo (Forlì) nel giugno 1221. Le giornate nell’eremo trascorrevano in preghiera, mediazione, lavoro e umili servizi. Durante questo periodo, frate Antonio poté confrontare meno la dottrina che l’esperienza della sua nuova vocazione francescana, approfondire l’esperienza missionaria bruscamente interrotta, rinvigorire l’impegno ascetico, affinarsi nella contemplazione, esercitarsi nel nuovo carisma. Data la visione prevalentemente sacrale e di prestigio, in cui era guardata la figura del sacerdote, i confratelli trattavano frate Antonio con grande venerazione e profondo rispetto e sincera stima, perché spezzava loro il Pane celeste. Un giorno, avendo visto che uno dei compagni aveva trasformato una grotta in una cella solitaria, frate Antonio gli chiese con insistenza che la cedesse a lui. Il buon confratello accondiscese all’appassionato desiderio del giovane sacerdote. Così, frate Antonio si ritirava spesso in tale grotta, per gustare la presenza di Dio nella contemplazione solitaria.

L’ora della chiamata
Nel settembre 1222, si tenevano a Forlì le ordinazioni sacerdotali di religiosi domenicani e francescani. Prima che il drappello degli ordinandi si recasse nella cattedrale cittadina per ricevere gli ordini sacri dal vescovo Alberto, si era soliti rivolgere un discorso esortativo ai candidati e a tutti gli ospiti. Tra coloro che furono interpellati a tale compito, nessuno volle accettare la delicata responsabilità: né domenicani né francescani. Intanto, il momento della cerimonia sacra stava per cominciare, e tutti ricusarono d’improvvisare l’esortazione di circostanza. Il superiore di Montepaolo, che conosceva bene le doti di frate Antonio, lo pregò di prendere la parola. Così, frate Antonio ebbe l’occasione di rivelare la sua profonda cultura biblica e la salda dottrina teologica con la nuova spiritualità. Commozione, esultanza e, soprattutto, stupore e ammirazione invase l’intero uditorio, che osannava al Signore, per il dono manifestato. La sacra ordinazione si svolse con grande gioia; e gli occhi di molti furono captati dalla rivelazione del neo predicatore.

Antonio predicatore
Dopo l’esperienza rivelativa di Forlì, iniziò per frate Antonio la nuova missione di predicatore. Parlava con la gente, ne condivideva l’esistenza umile e tormentata, alternando l’impegno della catechesi con l’opera pacificatrice; insegnava la scienza sacra ai confratelli e attendeva alle confessioni, si confrontava personalmente o in pubblico con i sostenitori di eresie. La Romagna, all’epoca, era una regione funestata da una guerriglia civile endemica: le fazioni, maggiori e minori, avvelenavano le città e i clan familiari, disgregando le strutture comunali e seminando dovunque sospetti, congiure, colpi di mano, vendette. Non bastava questa situazione civile, ma anche sul piano religioso si pativa la calamità delle sette, prima fra tutte, nelle sue diverse ramificazioni, quella dei Catari. La Chiesa reagiva scarsamente e male, a causa della sua poco credibilità esemplativa e per la mediocrità della forza dottrinale e spirituale dei suoi figli. Buon gioco avevano dunque gli eretici che diffondevano teorie distorte e dubbi pericolosi. Proprio a Rimini ebbe luogo l’episodio della mula. Tenuta a digiuno per tre giorni, la mula andò verso l’Eucaristia presentata nell’ostensorio da frate Antonio e non verso la fresca biada offerta dall’eretico, il quale poi si convertì.

“Antonio, mio vescovo”
Francesco d’Assisi voleva che i suoi frati si dedicassero, con prudenza, allo studio della teologia. Ecco, come “ordinò” a frate Antonio di insegnarla: “Placet mihi quod sacram theologiam legas fratribus, dummodo inter huius studium orationis et devotionis spiritum non estinguas, sicut in regula continetur”: “Approvo che tu insegni sacra teologia ai fratelli, purché in questo studio tu non spenga lo spirito di orazione e devozione, come è stabilito nella Regola” (in K. Esser, Gli scritti di S. Francesco d’Assisi, Padova 1982, p. 183). In questo testo, Raoul Manselli scorge un valore normativo e un “significato essenziale per tutta la storia dell’Ordine” (San Francesco, Roma 1980, pp. 280-288), perché esprime il fondamento della prima “ratio studiorum del francescano” (G. Lauriola, Introduzione a Francesco d’Assisi, Noci 1986, p. 146).

Il periodo padovano
A Padova, frate Antonio fece un paio di soggiorni ravvicinati relativamente brevi: il primo, fra il 1229 e il 1230; il secondo, fra il 1230 e il 1231. Durante quest’ultimo periodo, sorella morte lo chiamò precocemente. Nella sua patria di elezione, frate Antonio non trascorse che appena un anno, sommando i due momenti della sua permanenza. Padova gli servì come scriptorium dei suoi scritti, perché trovò, forse, una ricca biblioteca e dei validi collaboratori nella stesura dei testi. I Sermones di frate Antonio vanno considerati come l’opera letteraria di carattere religioso più notevole, compilata in Padova durante l’epoca medievale. Frate Antonio aveva un debole per i centri culturali. Difatti, come prima aveva prediletto le università di Bologna, Montpellier, Tolosa, Vercelli, così privilegiò Padova per la sua università. Dire università era soprattutto sinonimo di concentrazione di elementi giovanili. E frate Antonio era un esperto “pescatore di giovani”.

La morte
Nella tarda primavera del 1231, frate Antonio fu colto da malore. Deposto su un carro trainato da buoi venne trasportato dall’eremo di Camposampiero a Padova, dove aveva chiesto di poter morire. Giunto però all’Arcella, un borgo della periferia della città, la morte lo colse. Spirò mormorando: “Vedo il mio Signore”. Era il 13 giugno. Aveva 41 anni! Venne sepolto a Padova, nella chiesetta di santa Maria Mater Domini, il rifugio spirituale del Santo nei periodi di intensa attività apostolica. Prima di un anno dalla morte, la fama dei tanti prodigi compiuti, convinse Gregorio IX a bruciare le tappe del processo canonico e a proclamarlo Santo, il 30 maggio 1232, a Spoleto. 

LE OPERE

La redazione dei Sermones
Nell’ultimo periodo della sua vita, frate Antonio mise per iscritto due cicli di Sermoni, intitolati rispettivamente Sermoni domenicali e Sermoni Mariani e dei Santi, destinati ai predicatori e agli insegnanti degli studi teologici dell’Ordine francescano. In questi Sermoni, egli commenta i testi della Scrittura presentati dalla Liturgia, utilizzando l’interpretazione patristico-medievale dei quattro sensi, quello letterale o storico, quello allegorico o cristologico, quello tropologico o morale, e quello anagogico, o escatologico. Questi sensi, nella visione odierna, sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura e che è giusto interpretarla cercando le quattro dimensioni della sua parola. Questi Sermoni sono testi teologico-omiletici, che riecheggiano la predicazione viva, in cui Antonio propone un vero e proprio itinerario di vita cristiana. La recente edizione italiana, a cura P. Giordano Tollardo, (Sant’Antonio di Padova, I Sermoni, Ed. Messaggero, Padova 1994, pp. 1260), ha reso più facile la conoscenza dottrinale del Santo.

Il Pensiero
Data la diversità delle tematiche trattate nei Sermoni, è difficile tracciare una sintesi; tuttavia, per dare un’idea del pensiero antoniano, è sufficiente accennare a qualche argomento specifico, come per esempio, a quello della Vergine Maria, a cui dedica 6 “sermoni” - (2 all’Annunciazione, 2 alla Purificazione, 1 alla Natività e 1 all’Assunzione) -  dai quali si possono evidenziare alcuni aspetti abbastanza significativi. Certamente, i riferimenti non sono esposti in modo sistematico o in forma dimostrativa, bensì in maniera affermativa e sparsi a secondo le feste liturgiche commentate. Sembra interessante accennare almeno ad alcuni aspetti della mariologia antoniana e al suo naturale fondamento, che in seguito troveranno sviluppo nella storia della teologia mariana, e applicazione pastorale nella vita della Chiesa.

L’Immacolata Concezione
Per quanto riguarda la Vergine Immacolata, pur non essendo ancora diffusa la specifica liturgia, tuttavia si trovano nei “sermoni” diverse affermazioni in suo onore, dalle quali si può dedurre un certo orientamento verso il privilegio mariano. Nel II sermone dell’Annunciazione, commentando Isaia (16,1), scrive: “la beata Vergine è chiamata ‘pietra del deserto’: ‘pietra’, perché impossibile a essere solcata dall’aratro; e il diavolo, che coltiva le ombre, non poté trovare passaggio in essa, ossia traccia di colpa; ‘del deserto’, perché non seminata da seme umano, ma resa feconda per opera dello Spirito Santo” (n. 8, p. 1086); e nel sermone della Domenica di quinquagesima, annota: “Il Padre rivestì il suo Figlio Gesù di bianca stola, cioè di carne monda da ogni peccato, che ricevette dalla Vergine Immacolata” (n. 16, p. 62); e ancora, nel sermone della Domenica III di quaresima, precisa: “la gloriosa Vergine fu prevenuta e ricolma di una grazia singolare, per poter avere nel suo seno proprio colui che, fin dall’eternità, fu il Signore dell’universo” (n. 2, p. 151).

L’Assunzione al cielo di Maria
Per riguarda, invece, la glorificazione di Maria, nel II sermone dell’Assunzione, scrive: “Io glorificherò il ‘luogo dove ho posto i miei piedi’ (Is 60,13). Il luogo dove il Signore pose i suoi piedi, cioè la sua umanità, fu la beata Vergine Maria, dalla quale prese l’umana carne. Questo luogo, oggi, è stato dal Signore glorificato, perché ha esaltato Maria al di sopra dei cori degli angeli. Da ciò si rende manifesto che la Vergine fu assunta in cielo anche con il corpo, che fu il luogo dove pose i piedi il Signore. A questo mistero alludeva il salmista, quando cantava: ‘Alzati, Signore, verso il luogo del tuo riposo, tu e l’arca della tua potenza’ (Sal 132, 8). Il Signore è risorto quando ascese alla destra del Padre; è risorta anche l’Arca [Maria], dove egli ha riposato, quando la Vergine Maria fu assunta al talamo celeste. O inestimabile dignità di Maria, o ineffabile sublimità inenarrabile di grazia, o imperscrutabile abisso di misericordia!... Veramente superiore a ogni grazia fu quella di Maria, che ebbe un Figlio in comune con l’Eterno Padre, e, quindi, oggi ha meritato di essere coronata in cielo” (nn. 2-5, pp. 1110-1115).
Per questa interpretazione, è ricordato da Pio XII, nella bolla dogmatica Munificentissimus Deus (1 novembre 1950), con queste parole: “Tra i sacri scrittori che, servendosi di testi scritturistici o di similitudini ed analogie, illustrarono e confermarono la pia sentenza dell'assunzione, occupa un posto speciale il dottore evangelico, s. Antonio da Padova. Nella festa dell'Assunzione, commentando le parole d'Isaia: ‘Glorificherò il luogo dove posano i miei piedi’ (Is 60, 13), affermò con sicurezza che il divino Redentore ha glorificato in modo eccelso la sua Madre dilettissima, dalla quale aveva preso umana carne. ‘Con ciò si ha chiaramente - dice - che la beata Vergine è stata assunta col corpo, in cui fu il luogo dei piedi del Signore’. Perciò scrive il Salmista: ‘Vieni, o Signore, nel tuo riposo, tu e l'Arca della tua santificazione’. Come Gesù Cristo, dice il santo, risorse dalla sconfitta morte e salì alla destra del Padre suo, così ‘risorse anche dall'Arca della sua santificazione, poiché in questo giorno la Vergine Madre fu assunta al talamo celeste’“.

La Madre di Dio
Se, a questi riferimenti mariani, si aggiungono anche alcuni sulla maternità divina e sulla mediazione, si ha un quadro più completo della mariologia antoniana. Nel I sermone dell’Annunciazione, scrive: “Maria rifulse veramente come il sole e fu l’arcobaleno splendente nel concepimento del Figlio di Dio. L’arcobaleno si forma con il sole che entra in una nuvola…E in questo giorno, il Figlio di Dio, sole di giustizia, entrò nella nube, cioè nel seno della Vergine gloriosa, e questa diventò quasi un arcobaleno, segno dell’alleanza, della pace e della riconciliazione…’Il mio arco sulle nubi sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra’. E di quest’arco dice l’Ecclesiastico: ‘Osserva l’arcobaleno e benedici colui che l’ha fatto: è bellissimo nel suo splendore. Avvolge il cielo con un cerchio di gloria’. Contempla l’arcobaleno, considera cioè la bellezza, la santità, la dignità della beata Vergine Maria…È veramente stupenda nello splendore della sua santità, sopra tutte le figlie di Dio. Ella avvolse il cielo, cioè circondò la divinità con un cerchio di gloria, con la sua gloriosa umanità” (n. 6, pp. 1084-1085).
Nel III sermone sul Natale del Signore, scrive: “Maria diede alla luce il figlio. Quale figlio? Il Figlio di Dio, Dio lui stesso. O donna, più felice di ogni altra, che avesti il Figlio in comune con Dio Padre!... Il Padre gli ha dato la divinità, la Madre l’umanità; il Padre la maestà, la Madre l’infermità. Partorì il suo Figlio, cioè l’Emanuele, che è quanto dire: Dio-con-noi” (n. 6, p. 940); mentre, nel sermone sull’Assunzione: “Quanto grande è la dignità della Vergine gloriosa! Ella meritò di essere la madre di colui che è il ‘firmamento’ e la bellezza degli angeli… Ella fu il soglio di questa gloriosa altezza di Cristo fin da principio, cioè fu predestinata ad essere Madre di Dio con potenza [dalla costituzione del mondo], secondo lo spirito di santificazione” (n. 1-2, pp. 1108-1109); e ancora nel sermone della III domenica di quaresima, aggiunge: “Veramente beato è questo seno, circondato di gigli, che portò te, Dio e Figlio di Dio, Signore degli angeli, Creatore del cielo e della terra, Redentore del mondo! La Figlia ha portato il Padre, la Vergine poverella ha portato il Figlio. O cherubini e serafini, o angeli ed arcangeli, in umile atteggiamento e con capo chino, adorate il tempio del Figlio di Dio, il sacrario dello Spirito santo, il grembo beato adorno di gigli, dicendo: Beato il seno che ti ha portato! E voi o mortali, figli di Adamo, a cui fu fatta questa grazia e concessa questa prerogativa, animati di fede, compunti nel cuore, prostrati a terra, adorate anche voi il trono d’avorio eccelso elevato dal vero Salomone [il Signore] e dite: Beato il grembo che ti ha portato!” (nn. 1-3, pp. 151-152).

La celeste mediatrice
Tra i titoli più diffusi della mariologia antoniana, quelli sulla universale mediazione godono di una particolare preferenza. Intorno al questo tema, frate Antonio ha delle affermazioni e delle immagini simpatiche e suggestive a un tempo, che contribuiscono alla sua diffusione nel popolo di Dio con molta incisività. Nel sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria, scrive: “La Vergine Maria è nostra mediatrice, perché ha ristabilito la pace tra Dio e il peccatore… è lei il segno della pace e dell’alleanza…e l’ulivo della misericordia” (n. 11, p. 1090); mentre nel sermone della Domenica IV di avvento: “La beata Maria, essendo una valle, fu colmata di grazia, e della sua pienezza di grazia noi tutti abbiamo ricevuto”; e nel II sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria, commentando Luca (1, 35), precisa: “Come da un vaso troppo pieno si riversa sulla terra qualche goccia, così Maria fu ripiena della grazia divina e fecondata dallo Spirito Santo, perché cadesse su di noi lo stillicidio delle sue grazie” (n. 8, p. 135); e poco prima aveva detto: “Maria diede al mondo l’autore di tutta la grazia” (n. 4, p. 132).
Nel sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria, scrive: “La Vergine Maria è la porta del cielo, la porta del paradiso, sulla quale il vero Salomone [Cristo] ha scolpito i cherubini, che rappresentano la vita angelica e la pienezza della carità; le palme, che indicano la vittoria sul nemico…; i bassorilievi di fiori, che sono le preziose cesellature raffiguranti l’umiltà e la verginità. Tutto questo è stato scolpito nella beata Vergine Maria dalla mano della Sapienza” (n. 1, p. 1080-1081); mentre nel II sermone dell’Annunciazione, precisa: “Maria è la stella del mare, perché siamo ancora in mezzo al mare, siamo sbattuti dai flutti, sommersi dalla tempesta. Invochiamo la stella del mare, per arrivare con il suo aiuto al porto della salvezza. È lei che salva dalla tempesta coloro che la invocano, che mostra la via, che guida al porto” (n. 14, p. 1139); mentre nel sermone della Domenica I dopo Natale, aggiunge: “Chi è privo di questa stella è cieco e cammina a tentoni: la sua nave sarà infranta dalla tempesta ed egli sarà travolto dalle onde” (n. 4, p. 985).
Ancora nel sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria, scrive: “L’iride risplende per una posizione del sole che pervade le nuvole…Così il Figlio di Dio, sole di giustizia, penetrando la nuvola, cioè la Vergine gloriosa, la rese come arcobaleno, segno… d’alleanza tra Dio e i peccatori” (n, 6, p. 1084). E nel II sermone della Purificazione della beata Vergine Maria: “In principio il Signore Dio piantò un giardino di delizie…e vi pose l’uomo a custodirlo e a coltivarlo. L’uomo, però, lo coltivò male  e male lo custodì. Era necessario che il Signore piantasse un altro giardino, di gran lungo migliore, cioè la beata Vergine Maria, alla quale ritornassero gli esuli del primo giardino. In questo nuovo giardino fu posto il secondo Adamo [Cristo Gesù], che lo coltivò e lo custodì” (n. 1, p. 1097). E, infine, nel II sermone dell’Annunciazione della beata Vergine Maria: “Orsù, dunque, Signora nostra e nostra speranza, noi ti supplichiamo, affinché illumini le nostre menti con lo splendore della tua grazia, per purificarle con il candore della tua illibatezza, per infiammarle col calore della presenza, per riconciliarle col Figlio tuo, onde possiamo sollevarci allo splendore della tua gloria. Ce lo conceda colui che ha voluto prendere da te il suo glorioso corpo e abitare per nove mesi nel tuo grembo” (n. 6, p. 1085).

Fondamento cristocentrico della mariologia
A fondamento di questi sparsi pensieri mariani, c’è sempre il mistero di Cristo, che per Antonio costituisce il centro della vita e del pensiero, dell’azione e della predicazione. In questo, sembra un antesignano dell’inizio del cristocentrismo, tratto caratteristico della teologia francescana, che, poi, in Giovanni Duns Scoto, troverà la sua perfetta realizzazione e sistemazione. Per Antonio, non solo i misteri della Natività sono un punto centrale dell’amore di Cristo per l’umanità, ma anche la visione del Crocifisso ispirano pensieri di riconoscenza verso Dio e di stima per la dignità della persona umana.
Nel sermone sulla Invenzione della santa Croce, scrive: “Sul legno della Croce fu elevata l’umanità di Cristo, come segno della nostra salvezza. Alziamo, dunque, i nostri occhi e ‘guardiamo all’autore della nostra salvezza, Cristo Gesù’. Consideriamo il nostro Signore sospeso alla croce, trapassato dai chiodi… Come l’anima è la vita del corpo, [così] Cristo è la vita dell’anima. Ecco, dunque, la tua vita è sospesa [alla croce]! Non senti un fremito di dolore e di compassione, pensando a ciò? Se egli è la tua vita, come puoi frenarti e non essere pronto ad affrontare il carcere e la morte per lui, come Pietro e Tommaso? Egli è sospeso davanti a te, per muoverti a compassione verso di lui, esclamando con il profeta: ‘O voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore’ (Lam 1, 12) […]. Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi te stesso nella croce, come in uno specchio. Nella croce potrai constatare che le tue ferite sono veramente mortali e che nessuna medicina avrebbe potuto guarirle, se non il sangue del Figlio di Dio. Se osserverai attentamente, lì potrai scoprire quanto grande è la tua dignità umana e quanto sei prezioso […]. Mai un uomo può scoprire la sua dignità che allo specchio della Croce […]. Vedere e credere è la stessa cosa, perché quanto credi, tanto vedi. Perciò, credi con fede viva alla tua vita, per vivere con lui che è Vita, nei secoli eterni” (n. 7, pp. 1192-1194).
Significative sono anche le immagini con cui frate Antonio spiega la centralità di Cristo nella vita. Nella IV domenica dopo Pasqua, scrive: “Il cerchio, così chiamato perché corre all’intorno, raffigura Cristo Gesù, che è ritornato da dove era partito” (n. 3, p. 287); e nel sermone dell’Ottava di pasqua, afferma: “Gesù sta al centro di ogni cuore; sta al centro perché da lui, come dal centro, tutti i raggi della grazia si irradiano verso di noi che camminiamo all’intorno” (n. 6, p. 230); e precisa: “Il cerchio raffigura Cristo Gesù che, come il cerchio, è ritornato da dove era partito: è partito dal Padre […] ed è ritornato al trono del Padre […]. Il cerchio… è anche la croce di Cristo Gesù… che ha perforato il diavolo e liberato il genere umano. E, quindi, conclusa l’opera redentrice, Cristo dice: Vado dal Padre che mi ha mandato” (n. 3, p. 288).

Dottore della Chiesa
Tra i contemporanei e nelle generazioni immediatamente successive, frate Antonio fu ritenuto maestro di sapienza cristiana, biblista impareggiabile, autore di opere insigni. Uno storico dice che Antonio possedeva un talento così eminente, da poter servirsi della memoria al posto dei libri, e che si sapeva esprimere con un’abbondante grazia di linguaggio mistico. La profondità insospettata del suo parlare accresceva lo stupore dell’uditorio. Anche la curia romana ebbe modo di ascoltarlo e lo stesso Gregorio IX lo chiamò Arca del Testamento.
Nelle celebrazioni due volte centenarie, il VII della morte (1231-1931) e il VII della canonizzazione (1232-1932), l’Ordine Francescano ha richiesto il riconoscimento del titolo di Dottore, già riconosciuto da Gregorio IX fin dal giorno della sua canonizzazione (30 maggio 1232), come ricorda la stessa Lettera Apostolica Esulta, Lusitania felix di Pio XII (16 gennaio 1946), che conferma a Sant’Antonio di Padova il titolo di “Dottore della Chiesa universale”, con l’appellativo di Doctor Evangelicus.
Del Pontefice Gregorio IX, si ricordano due episodi: uno riguarda la testimonianza di aver chiamato frate Antonio ancora vivente “Arca del Testamento” e “Scrigno delle Scritture”; e l’altro l’intonazione dell’antifona dei Dottori della Chiesa - O Doctor optime, Ecclesiae sanctae lumen; beate Antoni, divinae legis amator, deprecare pro nobis Filium Dei [O Dottore della Chiesa, beato Antonio, amatore della divina parola, prega per noi il Figlio di Dio] - in onore del novello Santo (30 maggio 1232). E questo fu il motivo per cui nella Liturgia si cominciò a tributargli il culto proprio dei Dottori; e anche l’arte cominciò a riprodurre il Santo con un libro aperto in mano.
L’opera, cui la critica ha riconosciuto il merito di essere stato “un prezioso contributo per la causa del Dottorato antoniano” e “una fonte di consultazione di tutti gli studiosi del Santo”, è certamente La figura intellettuale di S. Antonio di Padova. I suoi scritti. La sua dottrina (Roma 1934), di D. Scaramuzzi. Il saggio consta di due parti: l’una, di carattere storico-critico, affronta le questioni preliminari inerenti alla collocazione storica e culturale di Antonio, all’autenticità e genuinità degli scritti, all’originalità della dottrina e all’influsso esercitato sui contemporanei e sui posteri; l’altra, di carattere dottrinale, è una ricostruzione sistematica di testi in latino, scelti con gusto e perspicacia, contenenti le principali tesi teologiche, morali mistiche e religiose, tratte dagli scritti del Santo, così da risultare una particolare Antologia, molto utile per lo studioso. Gli argomenti principali riguardano: Dio, l’uomo, Cristo Gesù, la Vergine, la vita morale e soprannaturale, l’al di là.

IL CULTO

Sant’Antonio da Padova è tra i santi il più noto e amato nel mondo. Milioni di pellegrini e devoti, provenienti da ogni parte della terra, visitano ogni anno la sua Basilica a Padova. Al termine dei festosi e solenni funerali del 17 giugno 1231, il corpo del Santo venne sepolto nella chiesetta Santa Maria Mater Domini del conventino francescano della città; probabilmente non interrato, ma anzi un po’ sopraelevato, in maniera che i devoti, sempre più frequenti e numerosi, potessero vederne e toccarne l’arca-tomba. Non vi è chiesa al mondo che non abbia un altare, un dipinto, una statua, un affresco, una nicchia a Lui dedicati. Per non parlare poi delle piccole statue e dei santini presenti in vari luoghi, prime fra tutte le abitazioni private. Nel 1920 Benedetto XV elegge Sant’Antonio da Padova “patrono particolare e protettore della Custodia di Terra Santa”. Sant'Antonio è patrono anche del Portogallo, del Brasile, e di numerose città in Italia, Spagna e Stati Uniti.

Traslazioni
La più importante traslazione avvenne l’8 aprile del 1263, quando, terminata una fase decisiva della costruzione della nuova chiesa, si procedette a trasferirvi il venerato corpo. San Bonaventura da Bagnoregio, allora Ministro generale dei francescani, presiedette la cerimonia. Nell’esaminare i sacri resti, si accorse che la lingua del Santo era rimasta incorrotta. A tale scoperta esclamò: “O lingua benedetta, che sempre hai benedetto il Signore e l’hai fatto benedire dagli altri, ora si manifestano a tutti i grandi meriti che hai acquistato presso Dio”. In quell’occasione, l’arca con i resti mortali del Santo venne collocata probabilmente al centro del transetto, sotto l’attuale cupola conica (dell’Angelo), davanti al presbiterio. Un’altra traslazione avvenne nel 1310, allorché ultimata la nuova cappella dedicata al Santo, all’estremità sinistra del transetto, le sacre spoglie furono solennemente trasportate. Una terza Traslazione, tra il 14 o 15 febbraio del 1350, il Cardinale Guido de Boulogne-sur-Mer, Legato Pontificio, si recò a Padova per adempiere un voto, essendo stato guarito dalla peste, e donò un prezioso reliquiario nel quale, lui stesso sistemò l’osso mandibolare.

Ricognizione

Un’importante indagine sui resti del Santo fu iniziata il 6 gennaio 1981, in occasione del 750° anniversario della morte di sant’Antonio. Una commissione religiosa e una commissione tecnico-scientifica, entrambe nominate dalla Santa Sede, curarono l’apertura della tomba ed esaminarono quanto vi rinvennero. Rimossa una lastra laterale di marmo verde, si trovò una grande cassa di legno d’abete, avvolta in preziosi drappi. Essa conteneva un’altra cassa più piccola in legno, dentro cui in diversi involti, sistemati in tre comparti, avvolti in drappi preziosi e con scritte indicative, c’erano: lo scheletro, ad eccezione del mento, dell’avambraccio sinistro e di altre parti minori (da secoli conservate in altri reliquiari particolari); la tonaca; e la “massa corporis”, cioè le ceneri. I resti di Sant’Antonio furono poi ricomposti in un’urna di cristallo ed esposti, dalla sera del 31 gennaio alla sera della domenica 1° marzo 1981, alla venerazione dei devoti. Al termine dell’ostensione, l’urna di cristallo venne rinchiusa in una cassa di rovere e riposta nella secolare tomba-altare della cappella dedicata a sant’Antonio. Alcuni reperti, in particolare la tonaca e le reliquie dell’apparato vocale, sono tuttora esposti nella Cappella delle Reliquie.

Ostensione del 2010

A causa dei lavori di restauro del 2008, le Spoglie di Sant’Antonio sono state esposte, nella Cappella delle Reliquie della Basilica del Santo, alla venerazione dei fedeli dal 15 al 20 febbraio del 2010, prima di essere riposte di nuovo nella Cappella dell’Arca.
Autore: P. Giovanni Lauriola ofm

È uno dei Santi più amati e venerati della cristianità. La Basilica di Padova, dove si trovano le sue spoglie mortali, è meta ogni anno di milioni di pellegrini provenienti da ogni parte del mondo. Nel 1946 Pio XII lo ha proclamato Dottore della Chiesa. È patrono di poveri e affamati. Il suo emblema è il giglio bianco con il quale viene raffigurato. I suoi miracoli in vita e dopo la morte hanno ispirato molti artisti fra cui Tiziano, che ha dipinto il ciclo dei Miracoli di sant'Antonio da Padova nella Scuola del Santo a Padova, e Donatello. Antonio fu canonizzato l'anno seguente la sua morte dal papa Gregorio IX.
La grande Basilica a lui dedicata sorge vicino al convento di Santa Maria Mater Domini. Trentadue anni dopo la sua morte, durante la traslazione delle sue spoglie, San Bonaventura da Bagnoregio trovò la lingua del Santo incorrotta, ed è conservata nella cappella del Tesoro presso la basilica della città veneta di cui è patrono. Sant'Antonio è anche patrono del Portogallo, del Brasile, della Custodia di Terra Santa e di numerose città in Italia, Spagna e Stati Uniti.

Le origini e l'ingresso nell'ordine agostiniano
Fernando di Buglione nasce a Lisbona il 15 agosto 1195 da nobile famiglia portoghese discendente dal crociato Goffredo di Buglione. A quindici anni è novizio nel monastero di San Vincenzo a Lisbona, poi si trasferisce nel monastero di Santa Croce di Coimbra, il maggior centro culturale del Portogallo appartenente all'Ordine dei Canonici regolari di Sant'Agostino, dove studia scienze e teologia con ottimi maestri, preparandosi all'ordinazione sacerdotale che riceverà nel 1219, a 24 anni. Quando sembrava dover percorrere la carriera del teologo e del filosofo, decide di lasciare l'ordine dei Canonici Regolari di Sant'Agostino perché mal sopportava i maneggi politici tra i canonici regolari agostiniani e re Alfonso II, anelando ad una vita religiosamente più severa.  

La scelta dei francescani e la missione in Marocco
Il suo desiderio si realizza allorché, nel 1220, giungono a Coimbra i corpi di cinque frati francescani decapitati in Marocco, dove si erano recati a predicare per ordine di Francesco d'Assisi. Quando i frati del convento di monte Olivares arrivano per accogliere le spoglie dei martiri, Fernando confida loro la sua aspirazione di vivere nello spirito del Vangelo. Ottenuto il permesso dal provinciale francescano di Spagna e dal priore agostiniano, Fernando entra nel romitorio dei Minori e fa subito professione religiosa, mutando il nome in Antonio in onore dell'abate, eremita egiziano. Anelando al martirio, subito chiede ed ottiene di partire missionario in Marocco. È verso la fine del 1220 che s'imbarca su un veliero diretto in Africa, ma durante il viaggio è colpito da febbre malarica e costretto a letto. La malattia si protrae e in primavera i compagni lo convincono a rientrare in patria per curarsi. Secondo altre versioni, Antonio non si fermò mai in Marocco: ammalatosi appena partito da Lisbona, la nave fu spinta da una tempesta direttamente a Messina, in Sicilia. Curato dai francescani della città, in due mesi guarisce.  

L'incontro con san Francesco
A Pentecoste è invitato al Capitolo generale di Assisi, arriva con altri francescani a Santa Maria degli Angeli dove ha modo di ascoltare Francesco, ma non di conoscerlo personalmente. Il ministro provinciale dell'ordine per l'Italia settentrionale gli propone di trasferirsi a Montepaolo, presso Forlì, dove serve un sacerdote che dica la messa per i sei frati residenti nell'eremo composto da una chiesolina, qualche cella e un orto. Per circa un anno e mezzo vive in contemplazione e penitenza, svolgendo per desiderio personale le mansioni più umili, finché deve scendere con i confratelli in città, per assistere nella chiesa di San Mercuriale all'ordinazione di nuovi sacerdoti dell'ordine e dove predica alla presenza di una vasta platea composta anche dai notabili.

Predicatore contro le eresie
Ad Antonio è assegnato il ruolo di predicatore e insegnante dallo stesso Francesco, che gli scrive una lettera raccomandandogli, però, di non perdere lo spirito di preghiera. Comincia a predicare nella Romagna, prosegue nell'Italia settentrionale, usa la sua parola per combattere l'eresia (è chiamato anche il martello degli eretici), catara in Italia e albigese in Francia, dove arriverà nel 1225. Tra il 1223 e quest'ultima data pone le basi della scuola teologica francescana, insegnando nel convento bolognese di Santa Maria della Pugliola. Quando è in Francia, tra il 1225 e il 1227, assume un incarico di governo come custode di Limoges. Mentre si trova in visita ad Arles, si racconta gli sia apparso Francesco che aveva appena ricevuto le stigmate. Come custode partecipa nel 1227 al Capitolo generale di Assisi dove il nuovo ministro dell'Ordine, Francesco nel frattempo è morto, è Giovanni Parenti, quel provinciale di Spagna che lo accolse anni prima fra i Minori e che lo nomina provinciale dell'Italia settentrionale.

Fautore della “riforma” per i debitori insolventi
Antonio apre nuove case, visita i conventi per conoscere personalmente tutti i frati, controlla le Clarisse e il Terz'ordine, va a Firenze, finché fissa la residenza a Padova e in due mesi scrive i Sermoni domenicali.
A Padova ottiene la riforma del Codice statutario repubblicano grazie alla quale un debitore insolvente ma senza colpa, dopo aver ceduto tutti i beni non può essere anche incarcerato. Non solo, tiene testa ad Ezzelino da Romano, che era soprannominato il Feroce e che in un solo giorno fece massacrare undicimila padovani che gli erano ostili, perché liberi i capi guelfi incarcerati. Intanto scrive i Sermoni per le feste dei Santi, i suoi temi preferiti sono i precetti della fede, della morale e della virtù, l'amore di Dio e la pietà verso i poveri, la preghiera e l'umiltà, la mortificazione e si scaglia contro l'orgoglio e la lussuria, l'avarizia e l'usura di cui è acerrimo nemico.

Predicatore papale e le visioni mistiche
Convinto assertore del dogma dell’assunzione della Vergine, su richiesta di papa Gregorio IX nel 1228 tiene le prediche della settimana di Quaresima e da questo papa è definito "arca del Testamento". Si racconta che le prediche furono tenute davanti ad una folla cosmopolita e che ognuno lo sentì parlare nella propria lingua. Per tre anni viaggia senza risparmio, è stanco, soffre d'asma ed è gonfio per l'idropisia, torna a Padova e memorabili sono le sue prediche per la quaresima del 1231. Per riposarsi si ritira a Camposampiero, vicino Padova, dove il conte Tiso, che aveva regalato un eremo ai frati, gli fa allestire una stanzetta tra i rami di un grande albero di noce. Da qui Antonio predica, ma scende anche a confessare e la sera torna alla sua cella. Una notte che si era recato a controllare come stesse Antonio, il conte Tiso è attirato da una grande luce che esce dal suo rifugio e assiste alla visita che Gesù Bambino fa al Santo.

La morte e la disputa delle spoglie

A mezzogiorno del 13 giugno, era un venerdì, Antonio si sente mancare e prega i confratelli di portarlo a Padova, dove vuole morire. Caricato su un carro trainato da buoi, alla periferia della città le sue condizioni si aggravano al punto che si decide di ricoverarlo nel vicino convento dell'Arcella dove muore in serata. Si racconta che mentre stava per spirare ebbe la visione del Signore e che al momento della sua morte, nella città di Padova frotte di bambini presero a correre e a gridare che il Santo era morto. Nei giorni seguenti la sua morte, si scatenano "guerre intestine" tra il convento dove era morto che voleva conservarne le spoglie e quello di Santa Maria Mater Domini, il suo convento, dove avrebbe voluto morire. Durante la disputa si verificano persino disordini popolari, infine il padre provinciale decide che la salma sia portata a Mater Domini. Non appena il corpo giunge a destinazione iniziano i miracoli, alcuni documentati da testimoni.

I miracoli operati da vivo
Anche in vita Antonio aveva operato miracoli quali esorcismi, profezie, guarigioni, compreso il riattaccare una gamba, o un piede, recisa, fece ritrovare il cuore di un avaro in uno scrigno, ad una donna riattaccò i capelli che il marito geloso le aveva strappato, rese innocui cibi avvelenati, predicò ai pesci, costrinse una mula ad inginocchiarsi davanti all'Ostia, fu visto in più luoghi contemporaneamente, da qualcuno anche con Gesù Bambino in braccio.

Autore: Maurizio Valeriani
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lunedì 10 giugno 2024

ESERCIZI (africani e non) DI QUOTIDIANI APARTHEID di PADRE MAURO ARMANINO

Vorrei che l'apartheid fosse trasformata ovunque in museo, come in Sud Africa! Un brutto ricordo e niente altro!  Nelson Mandela ha lottato per questo. Danila

Esercizi (africani e non) di quotidiani apartheid

Buongiorno Mauro, 

è vero, da due mesi è vietato agli africani (neri) di prendere i bus delle grandi distanze e i treni. All’interno delle città ciò è più o meno tollerato. Quanto ai taxi in città e fuori, ciò resta un pericolo. Infatti, l’autista rischia il ritiro della patente e il passeggero l’arresto e la deportazione alla frontiera col Niger …

È da Algeri, il 5 giugno scorso che, un vecchio amico impegnato nell’accoglienza dei migranti, ha inviato la mail trascritta sopra. Scorrendo il suo messaggio la prima idea che mi è venuta in mente è stata quella di un nuovo ‘apartheid’.  Si tratta di una parola afrikaans che significa letteralmente ‘separazione’ o ‘partizione’. Era il nome dato alla politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo al potere nel Sudafrica. Rimase in vigore fino al 1991 ed è stata attualizzata, come denunciato proprio da questo Paese, tra l’altro da Israele nei confronti del popolo palestinese. In molte altre parti del mondo è tornato senza vergogna.

Nel Nord Africa, non da oggi, si pratica spesso con disinvoltura una politica di disprezzo per gli africani di origine sub sahariana. Le testimonianze ricevute dai migranti di ritorno sono in questo senso inesorabili e precise. L’arco della cosiddetta ‘Africa bianca’, dal Marocco sino all’Egitto, si distingue per applicare forme anche estreme di stigmatizzazione nei confronti dei migranti o rifugiati ‘neri’ che cercano in quell’area lavoro, protezione o semplicemente una riva per andare in Europa. Insulti, minacce, ruberie, sfruttamenti e accuse di propagazione di tutti i mali possibili sono quanto più i migranti, con tristezza, raccontano. C’è chi ricorda, con amarezza, che molti di loro erano considerati puramente e semplicemente schiavi o cose. 

Nulla di nuovo sotto il sole, direbbe il saggio che si intendeva di umane vicende nella storia. La separazione o partizione si trova anzitutto dentro il cuore umano ogni qualvolta si esclude o mutila la coscienza e lo spirito che lo lega a se stesso, agli altri e alla trascendenza che lo spinge all’altrove. Seguono poi, e di conseguenza, le altre ‘partizioni’ o esclusioni. Quelle tra popoli, continenti, culture e immaginari simbolici. All’interno stesso delle società si sviluppano fenomeni violenti e discriminanti tra chi rivendica la pienezza dell’umano e chi si trova, suo malgrado, ad essere considerato uno scarto, superfluo e, talvolta, come i poveri, ‘pericoloso’ per l’ordine pubblico. L’apartheid ha probabilmente un futuro brillante dinnanzi a sé perché le società, nel loro insieme, non sembrano disposte a mettere in pratica quanto suggerito dal prezioso e disatteso articolo 3 della Costituzione italiana. 

"È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese"… 

 Finché le varie forme di organizzazione politica al potere, quali esse siano, saranno lontane o ostili a questo orientamento civico, l’apartheid troverà un terreno propizio per svilupparsi e creare società ogni volta più escludenti. Col rischio che, in definitiva, gli africani saranno i peggiori nemici degli africani.

              Mauro Armanino, Niamey, giugno 202



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