8 – LO STILE DI FIGLI
b – COME IL CUORE DEL PADRE [1]
1. PERDONO DA CONDIVIDERE (Il servo Malvagio)
[“Signore, dovrò perdonare fino a sette volte?”. Gesù rispose a Pietro: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”]. «Per questo il Regno dei cieli è paragonato a un re che volle fare i conti coi suoi servi. Iniziando, dunque a chiedere i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. Poiché costui non poteva pagare, il padrone comando che fossero venduti lui, la moglie, i figli e quanto possedeva e saldasse così il conto. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: “Signore abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò libero e gli condonò il debito”. Appena uscito, quel servo s'imbatté in uno dei suoi compagni che gli doveva cento denari. Lo afferrò e, quasi strozzandolo, diceva: “Paga quel che devi!”. Bocconi a terra lo implorava dicendo: “Sii benevolo con me e ti soddisferò!”. Egli non acconsentì, ma andò a farlo gettare in carcere fino a che non gli avesse pagato il debito. Venuti a conoscenza dell'accaduto, gli altri servi se ne rattristarono grandemente e andarono a riferire ogni cosa al loro padrone. Allora il padrone, chiamatolo a sé, gli dice: “Servo malvagio, ti ho condonato tutto qual debito perché mi avevi supplicato; non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, come io ho avuto pietà di te?”. Preso, perciò, dall'ira, il padrone lo consegnò agli sbirri, finché non gli avesse restituito tutto ciò che gli doveva.
Proprio così il Padre mio tratterà voi, se non rimettete di cuore ciascuno al proprio fratello». Mt. 18, 21-35
Mi pare azzeccato il titolo di un commentatore: “Parabola dell'uomo graziato ma spietato”.
È una parabola in cui domina la caratteristica dell'esagerazione. Qualcuno parla addirittura d'inverosimiglianza.
È spropositata la somma di cui il servo è debitore verso il re: diecimila talenti. Difficile, oggi, tradurre la somma nella nostra moneta. Per farsi un'idea approssimativa, comunque, sarà bene tener presente che la rendita annuale di Erode il Grande, arrivava a 900 talenti. “Diecimila talenti”, quindi una somma non lontana dai dieci miliardi di euro. Appare perciò ingenua la supplica del servo: «Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa». Anche una dilazione di venti, cento anni, non gli avrebbe permesso di saldare il debito.
• Il padrone, mosso a compassione, va ben oltre la richiesta del poveraccio. Non si limita a concedere una proroga nel pagamento, ma condona totalmente il debito.
La lezione è trasparente: ognuno di noi, nei confronti di Dio, è debitore insolvibile. Se non intervenisse l'atto gratuito del Suo perdono, smisurato, da soli, coi nostri sforzi, le nostre opere, non riusciremmo mai a conquistare la salvezza. La salvezza è grazia: non ci si salva da soli. È possibile soltanto “essere salvati”.
• All'uscita, il servo insperatamente graziato, non trova di meglio che afferrare per la gola un collega che gli deve poche decine di migliaia di lire – una miseria! – urlandogli a muso duro: «Paga quel che devi!».
Ed ecco la seconda lezione: i debiti che gli altri hanno contratto nei nostri riguardi – in confronto a ciò che abbiamo sottratto a Dio col peccato e coi nostri rifiuti – sono quisquilie. Torti, offese, sgarbi, indelicatezze varie: tutte cose trascurabili se paragonate al nostro peccato. E il nostro comportamento diventa meschino, come quello del servo graziato, quando dimentichiamo simile sproporzione.
• Ma la lezione fondamentale della parabola è un'altra.
«Servo malvagio – gli rinfaccia il re quando se lo ritrova davanti – non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ha avuto pietà di te?».
Ecco l'equivoco imperdonabile del servo graziato e spietato: credette che il perdono potesse tenerselo per sé. Non comprese che doveva a sua volta trasmetterlo al collega che lo supplicava. Non comprese che il perdono non poteva “fermarsi” a lui, ma doveva continuare, giungere sino al fratello.
Il re aveva “dimenticato” il suo debito, stracciato il foglio con quella cifra enorme. Ma lui ha tenuto in tasca il suo foglietto con quella cifra ridicola. E non mancò di minacciare il proprio debitore sventolandogli sotto il naso il pezzetto di carta accusatore.
Come sarebbe stato bello se, in risposta al gesto del padrone, anche lui avesse mandato in pezzi il documento di ciò che il collega gli doveva. Poteva imitare il gesto magnanimo del suo re. Invece, si lasciò sfuggire quella stupenda occasione.
– Troppe volte anche noi dimentichiamo che il perdono che riceviamo da Dio va donato, partecipato coi fratelli; che il perdono ottenuto da Dio deve tradursi in pace, riconciliazione, gioia offerta a tutti, anche ai nostri nemici; che possiamo imitare il comportamento di Dio: che quando Dio ci dice: «Io perdono», dice pure: «Perdona a tua volta».
Il perdono, infatti, non consiste semplicemente nel seppellire qualcosa che appartiene al passato. Non è una sepoltura sotto il velo dell'oblio. Il perdono è atto di creazione, inaugurazione di una storia nuova.
Il tempo dei ripicchi, delle ritorsioni, dei dispetti, delle offese senza perdono, dei colpi dati e restituiti... è finito. Inizia un tempo in cui agisce unicamente la potenza dell'amore.
•• Neppure Pietro l'aveva capito: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». Lui aveva azzardato quella cifra che già gli sembra enorme: ha l'impressione di mostrarsi fin troppo generoso, “eccessivo” nel perdono. [Sette è, infatti, il numero che indica la pienezza divina].
Pietro: «Devo essere come Dio?...».
Gesù: «Non dico fino a sette...».
Ah, meno male! Esiste pure un limite oltre cui non si può andare... Avrà tirato un sospiro di sollievo, Pietro. Gesù stava abbassando le tariffe... Voleva ben dire! Ma il sorriso di compiacimento gli si spegne quando sente: «…ma fino a settanta volte sette!». “Dieci volte la pienezza divina moltiplicata per se stessa”.
Povero Pietro. Intendeva fissare un “tetto”, precisare qual è “l'ultima volta”.
E Gesù scompiglia le sue cifre “ragionevoli”.
– Gli dice chiaramente che non c'è l'ultima volta;
– che il perdono non si può arginare, deve sempre avere un seguito.
– Che è ora di smetterla di fare i conti.
– Che nella vita del cristiano deve entrare il Vangelo, non una puntigliosa contabilità.
È finito il tempo dei conti. Ecco la “buona novella”.
• Intendiamoci. Non è che dobbiamo perdonare agli altri per ottenere a nostra volta il perdono da Dio.
No! La salvezza ci è già stata data gratuitamente. Il perdono ci è già stato concesso.
Il nostro perdono è la conseguenza, non la causa della salvezza.
Il nostro gesto di perdono è la risposta, il “segno” manifesto che siamo stati perdonati.
Stracciamo il nostro miserabile biglietto (con su scritto quanto ci “deve” il fratello), non affinché Dio ci condoni il debito, ma perché già Dio ha stracciato il foglio che ci riguardava...
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Il ritorno del figliol prodigo
Opera di Giovanni Francesco Barbieri, detto Guercino
2. IL FRATELLO MAGGIORE (Da “IL FIGLIO PRODIGO”)
«...Vestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa» ...
«Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. lì servo gli rispose: “È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si arrabbiò, e non valeva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». Luca 15,11-32
• Chi si ritiene “giusto”, chi appartiene al “club delle persone per bene”, trova facile accettare un Dio giusto.
Ma la fede del cristiano consiste nell'accettare un Dio che è Amore. Siamo capaci di “perdonare” a Dio il suo amore? Di non scandalizzarci delle sue follie, delle sue esagerazioni, delle sue debolezze? Crediamo che Dio (e noi) si vince la “debolezza”? Il nostro racconto più “ragionevole”?
Tralasciando [per amor cristiano] di calcare troppo la mano sull'avventura del fratello minore, indubbia-mente avremmo presentato il Maggiore in una luce più favorevole. La fedeltà di chi è rimasto – tutto casa e lavoro – avrebbe sottolineato maggiormente l'enormità della colpa di quello scapestrato che ha scavalcato il muro di cinta della casa paterna e se n'è andato a dilapidare “i suoi averi con le male femmine”.
Avrei messo – poi – sulle labbra del padre un predicozzo coi fiocchi, una strigliata da levar la pelle: “Sei la vergogna della nostra famiglia!... Hai voluto avvelenarmi gli anni della mia vecchiaia... Che dirà la gente? Guarda, invece, tuo fratello, così laborioso e fedele! Comunque, devi dimostrare di meritarti il posto nella nostra casa. Devi riguadagnarti la mia fiducia. Ti metto alla prova, ti terrò d'occhio affinché la mela marcia non abbia a guastare anche quelle sane...”. E, per concludere, una lezione salutare.
È proprio un ragionamento condotto sul filo della “ragionevolezza”. Nessun sconfinamento troppo audace. Dio è buono ma giusto. E poi occorre evitare soluzioni che possano sembrare incoraggiamenti al vizio.
Ecco la parabola di Gesù, riveduta e corretta, la “mia” parabola “salutare ed edificante”. Ma … non ho azzeccato il Personaggio principale ed ho sbagliato la finale. Se vogliamo completare la prova, possiamo aggiungere la parabola del “Padrone della vigna”' Mt. 20-16. Ma la domanda decisiva rimane sempre la stessa: riconosciamo questo Dio che ama così pazzamente? Soprattutto il modo con cui l'Amore ama?
ERRORI DEL “MAGGIORE”
1 – Non conosce la suprema libertà che consiste nell’ammettere: “Ho sbagliato”.
Ha il torto di essere “onesto”. Troppo onesto. E non potrebbe forse è stata la sua onestà fredda e legalista a far decidere il fratello minore a scavalcare il muro di cinta.
«Vi sono colpe felici, come vi sono onestà insulse ed ingombranti. Il Maggiore ce ne offre un esempio con un'onestà che si distacca e si oppone. ... Non è il bene che eleva la barriera e fa da impedimento, ma la strettezza d'animo di chi fa il bene. ... Il bene è l'unico ponte che si può gettare ogni momento attraverso le fosse scavate dai nostri egoismi. Invece il “bene” del Maggiore è un abito di distinzione, un titolo da opporre, la tessera che separa». (Mazzolari).
Ci sono comportamenti virtuosi, ma freddi, legalistici, che spingono quasi irresistibilmente verso il peccato.
2 – Moralismo
È lecito supporre che il Maggiore non abbia risparmiato predicozzi e consigli al fratellino irrequieto. Gli avrò persino dipinto, a tinte forse, la bruttezza del peccato e delle sue conseguenze.
E il Prodigo aveva iniziato a sospettare che il peccato non fosse poi così brutto («La donna [Eva] vide che l'albero era buono da mangiare, che era una delizia per gli occhi, e che quell'albero era attraente» Gen., 3,6)
– Non possiamo accontentarci di parlare della bruttezza del peccato. Nessuno commette il peccato soltanto per fare il male, ma perché scopre un bene, una bellezza sia pure minuscola, sia pure parziale, nel peccato.
Si tratta, invece di manifestare con la vita, con il nostro atteggiamento, che c'è più gioia a fare il bene che a fare il peccato, che c'è più felicità a seguire le beatitudini del Cristo che quelle del mondo.
Il maggiore ha il torto di non aver saputo dimostrare concretamente tutto ciò.
Ha ridotto l'appartenenza nella casa del padre a una questione di regolamento, di legge, di doveri e di divieti. Gli ha imbottito il cervello con ciò che doveva fare, senza dirgli mai ciò che era [figlio!].
«Forse il peccato capitale di certe educazioni cristiane è proprio questo: abbiamo insegnato agli uomini ciò che dovevano fare e ci siamo dimenticati di dire loro ciò che essi erano... I nemici peggiori della religione non sono quelli che combattono apertamente. Sono le schiere compatte dei figli maggiori che la immeschiniscono, la deformano, la riducono ad acido e gretto moralismo». (Pronzato)
3 – Il padre visto come ragioniere
Pensava che, per essere a posto nella casa del Padre, fosse sufficiente rispettare scrupolosamente il regolamento. «Non ho mai trasgredito un solo tuo ordine». A dire il vero, c'era un piccolo avanzo sotto la voce “avere”: «un capretto per far festa con gli amici».
Il figlio maggiore, questo “buon cristiano”, ha il torto di declassare il padre al ruolo di ragioniere, affibbiandogli l'incarico di tenere la contabilità delle sue opere buone, dei suoi meriti. E rimane scandalizzato al ritorno del prodigo, costatando che la sua aritmetica è andata a rotoli. I conti non tornano, e ... lui va in crisi. La sua stizzosa presunzione gli impedisce che lo sfiori il dubbio se non si trovi proprio lui, e non il fratello minore, «in un paese lontano».
Il Maggiore indaga, piagnucola, s'indispettisce, protesta. “Non è giusto!”.
Altre volte Gesù aveva scandalizzato:
«Questi hanno lavorato un'ora soltanto e tu li tratti come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». (Mt., 20,12). Non è giusto!
«Zaccheo, scendi in fretta, perché oggi devo fermarmi in casa tua». (Lc., 19, 5). Con tante case di persone “perbene”, guarda un po' dove va a cacciarsi!
«Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si pente che per novantanove giusti, i quali non hanno bisogno di penitenza». (Lc., 15, 7). Non è giusto!
«Neppure io ti condanno: va', e d'ora in poi non peccare più». (Gv., 8, 11). È troppo! Una pacchia, per i peccatori, cavarsela così a buon mercato...
«I suoi molti peccati le sono perdonati perché ha dimostrato molto amore” (Lc., 7, 47). Dove andiamo a finire di questo passo?
«Conducete qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». (Lc., 14, 21). Non è dignitoso!
«In verità ti dico: oggi sarai con me in Paradiso!». (Lc., 23, 43). Una bella compagnia, davvero.
Il Maggiore si scandalizza del Vangelo, perché gli manda all'aria la contabilità, e non si rassegna ai comportamenti imprevedibili di quel cuore, alle bizzarrie di quell'amore. Una formazione religiosa articolata sui regolamenti sforna dei “praticanti”, non dei figli. Non dei cristiani.
• La penitenza del “Maggiore”? Consiste nel vedersi “preceduto” dal Prodigo. E non soltanto da lui. «Le prostitute vi precedono nel Regno di Dio». (Mt., 21, 23).
È proprio il colmo! Non soltanto preceduto da quel dissoluto, ma addirittura dalle «male femmine», con le quali il Prodigo ha «dilapidato i suoi beni». “Non c'è proprio più religione!”: gli viene voglia di gridare – come talvolta succede a noi. Esatto! Non c'è più religione... senza amore.
* In genere questa parabola suscita sempre delle resistenze. Quando si pone l’accento sulla misericordia del Padre in attesa trepidante – che copre la distanza che lo separa dal figlio con una corsa e un abbraccio, prevenendo qualsiasi sua giustificazione –, c’è sempre qualcuno che ha bisogno di sottolineare come in realtà il figlio s’è pentito, e la prova consisterebbe nel fatto che è “rientrato in se stesso” ed è tornato a casa.
È stato, tuttavia, sottolineato che «una lettura un po’ più attenta e scevra da pregiudizi, rivela facilmente che il figliol prodigo torna a casa perché si trova nel bisogno e nella solitudine più disperante, ridotto a mangiare carrube come gli ani-mali più impuri per gli Ebrei e, per di più non incontra nessuno che abbia compassione di lui e gliene offra. Nella sua dissipazione materiale e spirituale, il giovane si è tagliato fuori non soltanto dalla relazione col padre, ma pure dal consorzio degli uomini. Ha perso la sua identità di uomo, prima ancora che quella di figlio.
Nessun pentimento profondo, dunque, ... benché il figlio intenda rivolgergli parole che suonano di circostanza, alla luce della considerazione che i servi di suo padre mangiano meglio e più di lui. – L’approccio di chi sottolinea a tutti i costi che il figlio si è pentito sottende, a ben guardare, la nostra mentalità retributiva, per cui il perdono lo si deve comunque “meritare,” e finisce col collocarci sulla linea del figlio maggiore, personaggio interessantissimo e stranamente oscurato dal ben più noto fratello minore».
•• Ma per un figlio scavezzacollo che ritorna da lontano, c'è l'altro, che sta dentro, “esemplare” nella sua condotta, che si rifiuta di rientrare, d’incontrarlo. Che non gradisce la festa, non sopporta la gioia del padre, non riconosce il fratello che non possiede i suoi titoli di merito («questo tuo figlio», sottolinea con acredine... E il padre insiste: «questo tuo fratello»). E allora il padre deve di nuovo uscir fuori a “pregare” il figlio “obbediente”. Pregarlo di cambiare cuore, di essere d'accordo con la sua gioia.
Uno ritorna con una mentalità da servo («Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni»). L'altro rimane ostinatamente fuori perché ha la mentalità del ragioniere e non è in sintonia col cuore del padre. Il padre, invece, resta convinto che «bisognava far festa e rallegrarsi». Per questo non esita a «uscir fuori». A cercare quello che è rimasto, a recuperare quello che non si è “perduto”.
* Quanto deve “camminare” questo padre per convincere il lontano
– che nella Casa si entra a testa alta in qualità di “graziati” e non nella veste di condannati;
– che si è accolti come figli e non come servi.
– E l'unica penitenza che si riceve è quella di una festa incredibile. Nella Casa si ritrova la musica, il canto, la festa, ... non il lamento funebre.
* E quanto deve “camminare “il Padre, soprattutto per tentare di convertire il figlio “fedele” che rifiuta d'entrare perché è convinto di essere dentro...
•• Già. Perché c'è qualcosa di peggio di non essere a posto: è credersi a posto.
«C'è qualcosa di peggio che camminare su una cattiva strada; ed è la spavalda sicurezza – mai incrinata dal minimo dubbio – di trovarsi sulla strada buona. Non c'è niente di più “mostruoso” di questo “monumento di inappuntabilità”, di questo insopportabile “avente diritto” quale appare il figlio maggiore. Lui ha bisogno di sicurezza, e si sente “assicurato” nel fare, nelle sue prestazioni esatte, senza sgarro. È un calcolatore, uno squallido burocrate della virtù, senza un guizzo di vita, di gioia, di spontaneità, di “gratuità”. La sua è una perfezione esecutiva, senz'anima, senza creatività. Non c'è soltanto un abisso tra lui e il fratello scavezzacollo. Ma, soprattutto, tra la sua mentalità e quella del padre». [Citazioni da www.tuttavia.eu].
In fondo, la conversione più difficile è la sua. Difficile convincersi che il posto, nella casa, non lo si può “conservare”, ma soltanto “ritrovare” giorno per giorno. E che la fedeltà non è semplicemente un “rimanere”, ma un accettare quotidianamente, le sorprese e le sconvolgenti iniziative del Padre.
Non basta non abbandonare la casa; bisogna sapere tener dietro al “vecchio” che corre incontro al figlio scappato che ritorna. E partecipare alla festa, senza produrre la nota stonata.
• Nella parabola manca il “lieto fine”.
Il lieto fine avverrà soltanto quando si verificherà l'avvenimento della conversione del figlio maggiore.
Il padre ha potuto provvedere il vitello grasso, l'anello, il vestito più bello, i calzari, per il ragazzo ch’è tornato pentito. Ma non ha potuto provvedere l'accoglienza del fratello maggiore: questo non era in suo potere.
Ma, come sarebbe stato bello se avesse potuto offrire anche il cuore colmo di gioia del fratello rimasto: un cuore dilatato dalla bontà, dal perdono. Di questo, purtroppo, non poteva disporre...
Sia che ci riconosciamo in quello che se ne è andato, come nel figlio rimasto a lavorare sodo (ma senza gioia, senza amore), la parabola ci presenta l'esigenza della conversione. Conversione come capacità di misurare i nostri passi su quelli del Padre. E di condividere la sua “voglia” di festa.
•• Il fratello maggiore è, in effetti, colui con il quale è molto più facile identificare noi stessi: è, in fondo, una persona “perbene”, seria, che ha sempre lavorato e vissuto senza colpi di testa.
Si è giustamente sempre sottolineato che anche lui, come l’altro, non ha capito nulla dell’amore immenso del Padre, e, così come lo scialacquatore suggerisce al padre di trattarlo come uno dei suoi servi, allo stesso modo il maggiore sottolinea che lo ha sempre “servito” e non ha mai trasgredito a un suo comando. Perciò egli trova inconcepibile che per l’altro figlio (che non chiama mai “mio fratello”), il padre si prodighi in feste, banchetti e ricompense.
C’è una frase interessante e rivelatrice del cuore del Maggiore: egli non addita il minore come chi si è ridotto a mangiare le ghiande coi porci – condizione che, come osservavamo prima, lo fa uscire da qualsiasi relazione, anche la più degradata, con altri uomini. Per evocare il fratello, egli agita agli occhi del Padre solo lo spettro del “peccato sessuale”: suo fratello minore è, per lui, quello «che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute».
Con queste parole – in cui moralisticamente rinfaccia il peccato – il fratello maggiore cerca di muovere l’indignazione del Padre, rinfocolando, invece, soltanto la propria. Egli tenta di coprire con la censura morale la sua acrimonia verso il fratello, di cui sembra invidiare la capacità di osare, di staccarsi da casa, e il risentimento verso il Padre, di cui certo invidia la bontà infinita e senza calcoli (cfr. Mt 20,15).
Alla gioia fremente del Padre fa da contraltare la sua tristezza da contabile dell’amore, che si ferma sulla soglia della porta, perché, da perfetto invidioso, non riesce a sostenere la vista e la presenza del peccatore perdonato e divenuto “una creatura nuova”, come indicano i sandali, simbolo dell’uomo libero, perché “le cose vecchie sono passate, ne sono nate di nuove” (2 Cor 5, 17) (da www.tuttavia.eu)
O Signore,
non tutti i figli sono sulla via del ritorno.
Ritorneranno, ma intanto si credono ancora in diritto di farTi soffrire.
E il ritorno d’un figlio non fa cessare l'agonia del Padre.
Tanti, tantissimi – basterebbe anche uno solo – sono lontani,
vogliono essere lontani, rifuggono il Tuo sguardo,
su strade che sanno ancora troppo di falsità, d’illusione,
di speranze umane chiuse al Tuo Mistero, ma non per questo, capaci di trattenere il Tuo amore.
E Tu stai in attesa: ad ogni istante c'è un ritorno, c'è un abbraccio di gioia,
ma la storia di questo mondo è fatta ancora da molteplici istanti di attesa.
La Tua sofferenza di Padre è anche e, soprattutto,
per noi, che ci riteniamo figli devoti, da lungo tempo padroni di casa.
L'avventura più brutta è non riuscire più a vivere l'avventura di una Casa
dove la legge dei figli è la legge del Padre;
dove per legge s'intende l'amore del Padre, la sua ansia per chi è lontano,
il suo attendere il ritorno di tutti i figli, il suo soffrire per quelli di casa
che hanno fatto, di questa casa, una sicurezza personale, un privilegio indiscutibile, un meritato riposo.
Non intendo dire che occorre invidiare l'avventura del figliol prodigo;
intendo dire che è necessario vivere l'avventura di figli devoti
lasciandoci rinnovare continuamente, giorno per giorno, dalla potenza dello Spirito.
Essere figli fedeli a queste esigenze rinnovatrici dello Spirito Santo,
è cercare di dare maggior respiro a questa Casa.
Non tutti i figli s’allontanano perché figli "prodighi", incoscienti, spensierati;
tanti se ne vanno perché incapaci di sopportare la pesantezza d’una casa,
dove si è perso il gusto di vivere l'attesa del Padre e l'attesa di figli,
la cui testimonianza operosa è il miglior invito all'abbraccio di un ritorno.
L'attesa del Padre è l'attesa di tutta la Casa, l'ansia del Padre è l'ansia di tutti i figli devoti, la gioia del Padre è la gioia del mondo intero. Don Giorgio De Capitani (Messaggero di Praga)