sabato 28 agosto 2021
LA BANDIERA MIGRANTE DI NIAMEY E IL SOGNO DI LUTHER KING di PADRE MAURO ARMANINO
lunedì 23 agosto 2021
AVILA 24 - 8 - 1582: FONDAZIONE DEL MONASTERO DI S. GIUSEPPE
VERSO QUEL FATIDICO 24-8-1562
E’ il giorno dei morti del 1536. Il monastero contava oltre cento monache. Teresa vi passa anni felici. Poi la salute ha un crollo e deve uscire per cure. Internamente però la accompagna sempre un senso di insoddisfazione: le sembra di fare ancora troppo poco per il Signore e la sua Chiesa scossa dalla scissione protestante.
Arriviamo al 24-8-1562 quando prende la determinazione di creare un piccolo drappello di anime generose disposte a vivere in stretta clausura e povertà rigorosa, unicamente dedite all’orazione ed alla penitenza per il bene spirituale della Chiesa. Molti, a cominciare da alcune autorità religiose, la prendono per pazza, ma lei non disarma e da quel primo monastero di S. Giuseppe in Avila molti altri vedranno la luce. Nel 1568 contando su soli due frati diventa l’elemento determinante per la fondazione del primo convento di noi carmelitani scalzi a Duruelo.
Nelle ultime pagine della sua Autobiografia si lascia andare a questa confessione: “Attualmente mi sembra di non aver altro motivo di vivere fuorché quello di soffrire e lo domando a Dio con le più vive istanze. Spesso gli dico col più vivo fervore dell’anima. “Signore, non vi domando che una cosa: o morire o patire”. Nel sentir battere l’orologio trasalisco di gioia, perché vedo di avere un’ora in meno di vita e di essermi avvicinata di più al momento di vedere Dio!”.
Vedere Dio: il supremo anelito di ogni anima quaggiù sulla terra mediante la fede e lassù nella pienezza dell’Amore!
(Ferrara 12-10-2008)
PADRE NICOLA GALENO, OCD
sabato 21 agosto 2021
I LUTTI SENZA FINE DEL SAHEL di PADRE MAURO ARMANINO
Alcuni rifugiati con P. Mauro Armanino
I lutti senza fine del Sahel
Il mestiere più pericoloso nel Sahel adesso è quello del contadino. La strategia dei Gruppi Armati Terroristi li ha infatti presi come fin troppo facile bersaglio. Chini sulla terra da coltivare sono uccisi da uomini armati che arrivano all’improviso, il mattino o il pomeriggio, sicuri di trovarli al lavoro. I militari sono l’altro bersaglio dei Gruppi Armati quando pattugliano oppure sono di scorta ai civili com’è accaduto recentemente nel Burkina Faso. Si chiama la zona delle ‘tre frontiere’, quelle del Mali, del Niger e del citato Burkina Faso che si trova, suo malgrado, a essere una delle regioni più pericolose al mondo. Dall’inizio dell’anno i morti nel Sahel si contano ormai a centinaia. I massacri sono opera dei terroristi, banditi armati e sedicenti djihadisti ma anche delle Forze di Difesa e di Sicurezza oltre che dei gruppi di ‘autodifesa’ o suppletivi. Questi ultimi si sono costituiti in seguito all’evidente incapacità delle forze armate di difendere i contadini dei villaggi nella regione. Formati e armati in modo sommario si aggregano spesso, secondo appartenenze etniche, e ciò li rende vulnerabili agli attacchi dei gruppi armati. I lutti sono anche per loro.
Il Burkina Faso ha iniziato giovedì un lutto nazionale di tre giorni, in seguito all’attacco djihadista che ha ucciso 65 civili, 15 gendarmi e 6 suppletivi delle forze armate del Burkina. Secondo alcuni specialisti, i gruppi armati attaccano con più frequenza i convogli misti in vista di controllare questa parte del Paese. Il governo nigerino, da parte sua, lo scorso martedì ha decretato un lutto nazionale di 48 ore, in seguito all’attacco condotto lunedì da uomini armati non identificati, uccidendo 37 civili. Il lunedì 16 agosto l’attacco è stato perpetrato nei campi del villaggio. Tra questi si contano 13 minori e 4 donne. Il mese scorso lo stesso villaggio aveva subito un attacco simile. Uomini armati non identificati avevano ucciso 16 contadini che lavoravano nei loro campi. Questa zona si trova al confine col Mali e subisce attacchi armati fin dal 2017. Quindici soldati di questo paese sono stai uccisi durante un agguato imputato ai djihadisti il giovedì 19 agosto nel centro del Paese. Oltre une ventina sono stati feriti e condotti all’ospedale per cure.
Un lutto nazionale di 72 ore è stato decretato dal presidente della Transizione del Mali, Assimi Goita, per rendere omaggio alle vittime degli attacchi concertati in quattro villaggi nel nord del paese, nella notte da domenica a lunedì. Il presidente ha affermato che le forze armate del Mali faranno il possibile per ricercare e ‘neutralizzare’ gli autori di questa barbarie e chiede al popolo di rimanere unito e determinato in questa prova in vista di continuare la lotta contro il terrorismo. Chi parla, è colui che ha guidato l’ultimo colpo di stato nel Mali l’anno scorso. Da allora le cose non sono migliorate e le speranze riposte nella giunta militare si stanno gradualmente sfaldando. I giorni di lutto proclamato nel Sahel hanno ancora un bel futuro.
Un lutto nazionale di tre giorni è stato decretato per i soldati del Chad uccisi da Boko Haram, gruppo che a sua volta avrebbe perso un centinaio di combattenti. Nell’isola dell’omonimo lago le unità di Forza e Difesa citate erano state inviate per proteggere la popolazione. Neppure gli operatori umanitari sono risparmiati. Sui 35 umanitari uccisi dall’inizio dell’anno, 11 sono morti nel Sudan del Sud, 9 nella Repubblica Democratica del Congo e 2 in Centrafrica. La maggior parte delle vittime sono lavoratori locali e i loro nomi saranno presto dimenticati. Proprio come quelli dei contadini, dei soldati, e delle migliaia di donne e bambini, costretti fuggire per sopravvivere al prossimo lutto decretato dai governi dei Paesi del Sahel.
Il primo lutto è quello della politica che, per la sua assenza o per avidità di potere, ha tradito se stessa col popolo che dopo sessant’anni d’indipendenza merita di più che dichiarazioni di lutti. L’altro lutto è quello d’ideologie che hanno preso Dio in ostaggio e, profittando del vuoto della giustizia sociale colmato da radicalismi salafisti, crea e giustifica nel Suo nome i delitti più efferati. Il lutto più tragico, infine, è quello decretato dalle parole, perché tutto parte e si radica nella menzogna che altro non è che uno stupro perpetrato su di loro. I lutti si trasformeranno in gioia solo quando le parole risorgeranno dalle tombe e danzeranno con i bambini vestiti di festa.
Mauro Armanino, Niamey, 22 agosto 2021
giovedì 19 agosto 2021
sabato 14 agosto 2021
MIGRARE NEL SILENZIO. EMMANUEL TORNA A CASA di Padre MAURO ARMANINO
Migrare nel silenzio.
Emmanuel torna a casa
Emmanuel è sordomuto dalla sua nascita, il 23 agosto del 1983, a Ibadan, nello stato di Oyo in Nigeria. Ha dichiarato accettare l’aiuto offerto dal Servizio Sociale ‘Incontro e Sviluppo’ per un ‘ritorno volontario’ in Nigeria, la sua patria. Arriva a Niamey da Algeri passando per Tamanrasset, la stazione del Niger sulla strada del Niger da Tamanrasset a In Guezzam. Da lì ha preso una 4 x 4 fino ad Agadez e infine a Niamey che Emmanuel raggiunge col bus il giorno seguente la partenza da Agadez, la capitale regionale dei migranti. Emmanuel non parla e non sente ma ha viaggiato, con un amico, dalla Nigeria natale fino all’ Algeria. Da Lagos, la capitale economica del suo Paese, a Lomé nel Togo da dove raggiunge il Burkina Faso e poi Gao nel Mali prima di arrivare ad Algeri. Emmanuel è partito stamane alle 3 da Niamey alla volta di Cotonou, nel confinante Benin e da lì spera di raggiungere la città da cui era partito qualche mese fa.
I suoi genitori sono anziani e lui è sposato e ha tre figli che vivono con la madre a Lagos. Assieme all’amico volevano raggiungere l’Europa dal Marocco che il suo compagno è riuscito a raggiungere passando la frontiera. Ha informato i suoi, una volta raggiunta l’Algeria, e dopo poco ha iniziato a lavorare come piastrellista nella capitale Algeri. L’amico l’ha tradito e, per completare il tutto, Emmanuel è stato attaccato e derubato di quanto possedeva. Il passaporto, la carta d’identità, il cellulare e una somma di 11 mila dinari algerini che aveva in tasca. Tutto ciò è accaduto il passato mese di giugno. Ad agosto Emmanuel decide di chiedere aiuto per tornare a casa e festeggiare in tempo con la famiglia i suoi 38 anni di utopia migrante. Per comunicare con lui, bastava un foglio, una penna e il tempo per ascoltare il silenzio.
La sua signora lavora a Maza Maza alla periferia di Lagos. Maza Maza nella lingua houssa significa ‘fare le cose in fretta’, proprio come è accaduto a Emmanuel. Pensa di salutarla prima di raggiungere i suoi vecchi genitori a Ibadan. Il suo primo nome, assunto dalla tradizione Yoruba, è Adediran che significa ‘la corona arriva da me’ e il secondo è Aluwadare, ‘Dio mi ha reso giusto’. A questi nomi è stato aggiunto quello di Emmanuel, ‘Dio con noi’ nelle lingue semitiche, che completa la trilogia del suo intenso percorso migratorio. La sua è stata una breve e regale corona di sabbia che si è formata attraversando il deserto del Sahara. Un re qualunque come, di nascosto, sanno di essere i migranti che inseguono mari, monti e deserti per una corona di sabbia invisibile che nessuno potrà loro portar via. Emmanuel, nel suo mondo assediato dal silenzio, torna a casa con una corona che ha custodito nell’unica borsa che lo accompagna.
L’altro suo nome Yoruba, Aluwadare, implica nientemeno Dio che lo ha giustificato. Dopo essere stato tradito dall’amico con cui ha viaggiato e poi attaccato e derubato a Algeri, attende da Lui una giustizia che arriva troppo spesso in ritardo. Ciò che potrebbe salvarlo è appunto l’ultimo suo nome, Emmanuel, in ebraico ‘Dio con noi’, cosa che tutti i migranti sanno a memoria e non si stancano di ricordare. Lui stesso, prima di partire, scrive su un foglio, dietro richiesta, un ultimo messaggio che suona testualmente così…’ Non saprei cosa dire…non ho i soldi per andare da Cotonou a Lagos e per questo vorrei tu pregassi per me, prima di lasciare questo paese. Grazie per aver preso cura di me, prego Dio di benedirti’. Emmanuel, con una corona nella borsa, in attesa di una giustizia che verrà, torna a casa in tempo per il suo ormai prossimo compleanno che altri canteranno per lui.
Mauro Armanino, Niamey, 15 agosto 2021
sabato 7 agosto 2021
I 'DESAPARECIDOS" DEL SAHEL e L'INDIGNAZIONE SCOMPARSA di Padre MAURO ARMANINO
I ‘desaparecidos’ del Sahel e l’indignazione scomparsa
I ‘desaparecidos’ del Sahel e l’indignazione scomparsa
Tristemente alla ribalta negli anni dei regimi militari in America Latina, i ‘desaparecidos’, gli scomparsi non hanno mai abbandonato la scena. Sono assenti come non mai nella cronaca quotidiana del nostro tempo che ci si ostina a far passare per storia. Durante il mio soggiorno argentino il tema della memoria era diventato cruciale e le marce per rivendicarla erano allora poco partecipate. Nei rumorosi cortei organizzati nella città di Còrdoba, ad esempio, c’erano più poliziotti che militanti. Congiunti, figli, fliglie, nipoti, cugini o semplicemente amici si marciava per la memoria degli scomparsi negli anni delle repressioni militari. Per vari Paesi dell’America Latina fu la ben nota ‘Operazione Condor’, di concerto con la scuola economica di Chicago negli Stati Uniti, che miravano a ‘normalizzare’ l’opzione neo liberista nell’economia e nella politica. Si seppe col tempo che esistevano liste di persone da eliminare, luoghi di tortura e i famigerati ‘voli della morte’, nei quali gli ‘indesiderabili’ erano buttati in mare dall’aereo, per non lasciare tracce alcune.
L’epoca degli scomparsi, gli assenti, gli invisibili, i cancellati, in una parola dei ‘desaparecidos’, non è terminata affatto. Appaiono e poi scompaiono in fretta a seconda delle convenienze, delle opportunità, delle contingenze umanitarie o semplicemente per casualità. L’importante è che non disturbino, non diano fastidio, non mettano il discussione il sistema, non passino il confine loro assegnato e destinato per la forza delle cose. I migranti, i rifugiati, gli sfollati, i contadini e allevatori, i cercatori d’oro, i ‘talibé’, i bambini nella strada, i prigionieri, i mendicanti, le vittime della tratta e in generale i poveri, sono coloro che rappresentano questo perenne e costante fenomeno sociale. La storia la fanno gli scomparsi, la scrivono i vincitori e la racconta il vento alla sabbia che tutto copre e redime. Mettiamo, ad esempio, i migranti che hanno tenuto la scena, finchè è stato necessario. Esternalizzazione delle frontiere europee, controlli sistematici di chi osa usufruire del diritto alla mobilità, rischio di rotte alternative, ruolo ‘paterno’ del sistema che tramite l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, rispedisce a casa i ‘volontari’ con un aiuto per l’inserimento. Desaparecidos per sempre, si spera (salvo rivederli l’anno seguente in transito).
Molti rifugiati di Paesi in conflitto armato o sociale hanno trovato asilo nel Niger. Arrivano da Paesi confinanti e da altri più lontani per tentare di ricostruire il presente con le macerie del passato e le speranze del futuro. Si trovano, talvolta per anni di attesa, in case di transito, accoglienza, smistamento, protezione o in campi adibiti per renderne più fluido l’aiuto e il controllo. Una parte di loro arriva dai luoghi di detenzione, lavori forzati e tortura dalla Libia, attraverso voli e ‘corridoi umanitari’ che non intaccano in nulla le politiche che stanno alla base del fenomeno. Scompaiono gradualmente dalla vista e dall’interesse dei non addetti ai lavori e per esistere sono costretti, talvolta, a manifestare pubblicamente la loro esistenza con dei ‘sit-in’ davanti agli uffici dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, UNHCR. Quanto ai contadini e agli allevatori, tra un problema e l’altro legato alle terre, alle transumanze e all’uso dei punti d’acqua, appaiono solo quando il conflitto per qualcuno degli elementi citati conduce alla violenza armata. Allora ridiventano visibili anche grazie alle accuse di collusioni, da parte degli allevatori, con i gruppi terroristi.
In una recente intervista, il Commissario per l’Energia e le Miniere per l’Africa Occidentale, rilevava che almeno il dieci per cento della popolazione del Niger, Mali e Burkina Faso, dipende dallo sfruttamento delle miniere d’oro artigianali. Con oltre mille scavi ‘informali’ quest’attività è praticamente la metà dello sfruttamento aurifero assicurato dalle compagnie minerarie legalmente riconosciute. I minatori, molti di essi bambini, scompaiono nelle gallerie scavate e tenute assieme da mezzi di fortuna. Così come scompaiono dalla vista, per abitudine, i bambini studenti di varie scuole coraniche, mandati quotidianamente a mendicare sulle strade delle città del Sahel. Scompaiono come i bambini che si nascondono la notte nelle strade e nei mercati della città. Nascoste, invece, sono le centinaia di persone detenute in prigioni sovraffollate, con poco cibo e assistenza sanitaria non adeguata. Scomparsi i diritti umani, rimane lo spazio per la carità che, quando non cammina assieme alla giustizia, si trasforma in ambulanza del sistema. La mendicanza o accattonaggio sono vietati per decreto ma i mendicanti esistono e diventano visibili nei crocicchi della città profittando dei semafori o delle rotonde che ormai fanno parte del paesaggio domestico. Le vittime della tratta, donne in particolare, sono scomparse e non fosse per qualche volonterosa ONG che opera fin quando il progetto è finanziato, nessuno si accorgerebbe di loro. Quanto ai poveri, coloro che arricchiscono tanti Organismi grazie al fatto di esserci e perpetuarsi, scompaiono quando non servono più allo scopo prefissato. Tutte queste, e ben altre non citate sparizioni, accadono perché, in realtà, a scomparire grazie anche all’uso politico dell’epidemia COVID, sono alcune realtà fondanti. Si tratta della pianificata e apparente scomparsa delle classi sociali, della democrazia, della giustizia e dell’indignazione. Queste quattro condizioni ‘desaparecidas’ sono alla base delle cancellazioni susseguenti. Le marce della memoria indignata non hanno per nulla terminato la loro necessaria attualità.
Mauro Armanino, Niamey, 8 agosto 021,
per non dimenticare i minatori di Marcinelle
NON DISCUTIAMO LE VACCINAZIONI, MA L'USO POLITICO DEL GREEN PASS di GIORGIO AGAMBEN
Quello che colpisce nelle discussioni sul green pass e sul vaccino è che, come avviene quando un paese scivola senza accorgersene nella paura e nell’intolleranza - e indubbiamente questo sta avvenendo oggi in Italia - è che le ragioni percepite come contrarie non solo non sono in alcun modo prese seriamente in esame, ma vengono rifiutate sbrigativamente, quando non diventano puramente e semplicemente oggetto di sarcasmi e di insulti. Si direbbe che il vaccino sia diventato un simbolo religioso, che, come ogni credo, funge da spartiacque fra gli amici e i nemici, i salvati e i dannati. Come può pretendersi scientifica e non religiosa una tesi che rinuncia allo scrutinio delle tesi divergenti?
Per questo è importante innanzitutto chiarire che il problema per me non è il vaccino, così come nei miei precedenti interventi in questione non era la pandemia, ma l’uso politico che ne viene fatto, cioè il modo in cui fin dall’inizio essi sono stati governati.
Ai timori che si affacciavano nel documento che ho firmato con Massimo Cacciari, qualcuno ha incautamente obiettato che non c’era da preoccuparsi, «perché siamo in una democrazia». Com’ è possibile che non ci si renda conto che un paese che è ormai da quasi due anni in stato di eccezione e in cui decisioni che comprimono gravemente le libertà individuali vengono prese per decreto (è significativo che i media parlino addirittura di «decreto di Draghi», come se emanasse da un singolo uomo) non è più di fatto una democrazia? Com’è possibile che la concentrazione esclusiva sui contagi e sulla salute impedisca di percepire la Grande Trasformazione che si sta compiendo nella sfera politica, nella quale, com’ è avvenuto col fascismo, un cambiamento radicale può prodursi di fatto senza bisogno di alterare il testo della Costituzione? E non dovrebbe dare da pensare il fatto che ai provvedimenti eccezionali e alle misure di volta in volta introdotte non viene assegnata una scadenza definitiva, ma che essi vengono incessantemente rinnovati, quasi a confermare che, come i governi non si stancano di ripetere, nulla sarà più come prima e che certe libertà e certe strutture basilari della vita sociale a cui eravamo abituati sono annullate sine die? Se è certamente vero che questa trasformazione - e la crescente depoliticizzazione della società che ne risulta - erano già in corso da tempo, non sarà per questo tanto più urgente soffermarsi a valutarne finché siamo in tempo gli esiti estremi? È stato osservato che il modello che ci governa non è più la società di disciplina, ma la società di controllo -ma fino a che punto possiamo accettare che questo controllo si spinga?
È in questo contesto che si deve porre il problema politico del green pass, senza confonderlo col problema medico del vaccino, a cui non è necessariamente collegato (abbiamo fatto in passato vaccini di ogni tipo, senza che mai questo discriminasse due categorie di cittadini). Il problema non è, infatti, soltanto quello, pure gravissimo, della discriminazione di una classe di cittadini di serie B: è anche quello, che sta certamente più a cuore dell’altro ai governi, del controllo capillare e illimitato che esso permette sui titolari stoltamente fieri della loro “tessera verde”. Com’è possibile -chiediamo ancora una volta- che essi non si rendano conto che, obbligati a mostrare il loro passaporto persino quando vanno al cinema o al ristorante, saranno controllati in ogni loro movimento?
Nel nostro documento avevamo evocato l’analogia con la “propiska”, cioè col passaporto che i cittadini dell’Unione sovietica dovevano esibire per spostarsi da una località all’altra. È questa l’occasione di precisare, visto che purtroppo sembra necessario, che cos’ è un’analogia giuridico-politica. Ci è stato senza alcun motivo rimproverato di istituire un paragone fra la discriminazione risultante dal green pass e la persecuzione degli ebrei. È bene precisare una volta per tutte che solo uno stolto potrebbe equiparare i due fenomeni, che sono ovviamente diversissimi. Non meno stolto sarebbe però chi rifiutasse di esaminare l’analogia puramente giuridica - io sono giurista di formazione - fra due normative, quali sono quella fascista sugli ebrei e quella sull’istituzione del green pass. Forse non è inutile rilevare che entrambe le disposizioni sono state prese per decreto legge e che entrambe, per chi non abbia una concezione meramente positivistica del diritto, risultano inaccettabili, perché - indipendentemente dalle ragioni addotte - producono necessariamente quella discriminazione di una categoria di esseri umani, a cui proprio un ebreo dovrebbe essere particolarmente sensibile.
Ancora una volta tutte queste misure per chi abbia un minimo di immaginazione politica vanno situate nel contesto della Grande Trasformazione che i governi delle società sembrano avere in mente - ammesso che non si tratti invece, come pure è possibile, del procedere cieco di una macchina tecnologica ormai sfuggita a ogni controllo. Molti anni fa una commissione del governo francese mi convocò per dare il mio parere sull’istituzione di un nuovo documento europeo di identità, che conteneva un chip con tutti i dati biologici della persona e ogni altra possibile informazione sul suo conto. Mi sembra evidente che la tessera verde è il primo passo verso questo documento la cui introduzione è stata per qualche ragione rimandata.
Su un ultima cosa vorrei richiamare l’attenzione di chi ha voglia di dialogare senza insultare. Gli esseri umani non possono vivere se non si danno per la loro vita delle ragioni e delle giustificazioni, che in ogni tempo hanno preso la forma di religioni, di miti, di fedi politiche, di filosofie e di ideali di ogni specie. Queste giustificazioni sembrano oggi - almeno nella parte dell’umanità più ricca e tecnologizzata - venute meno e gli uomini si trovano forse per la prima volta di fronte alla loro pura sopravvivenza biologica, che, a quanto pare, si rivelano incapaci di accettare. Solo questo può spiegare perché, invece di assumere il semplice, amabile fatto di vivere gli uni accanto agli altri, si sia sentito il bisogno di instaurare un implacabile terrore sanitario, in cui la vita senza più giustificazioni ideali è minacciata e punita a ogni istante da malattie e morte. Così come non ha senso sacrificare la libertà in nome della libertà, così non è possibile rinunciare, in nome della nuda vita, a ciò che rende la vita degna di essere vissuta."